CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 ottobre 2013, n. 23365
Lavoro – Estinzione del rapporto – Svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di malattia – Impossibilità di classificare lo svolgimento dell’attività come lavoro – Mancanza di prove da parte dell’azienda
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale del lavoro di Avellino M.G. esponeva di aver lavorato alle dipendenze della A.T. s.r.l. quale operaio comune e di aver ricevuto in data 1.9.2006 una contestazione disciplinare cui era seguito il 15.9.20076 il licenziamento. Veniva al lavoratore contestato di avere esercitato attività lavorativa in Trani ove si trovava in malattia. Deduceva il M., invece, di essersi reso utile occasionalmente con un proprio congiunto, titolare di una agenzia immobiliare in Trani, solo per non rimanere inattivo svolgendo attività del tutto saltuaria e compatibile con la malattia sofferta e quindi senza pregiudicare in alcun modo il recupero delle normali attività lavorative. Chiedeva quindi dichiararsi l’illegittimità del recesso con condanna della convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno. Si costituiva in giudizio parte convenuta che contestava la fondatezza del ricorso e ribadiva la legittimità del recesso. Con sentenza del 26.1.2010 il Tribunale di Avellino dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare ed ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro con condanna al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. La Corte di appello di Napoli con sentenza 24.3.2011 rigettava l’appello dell’A.T. s.r.l.
La Corte territoriale rilevava che effettivamente, come già ritenuto dal Giudice di prime cure, la contestazione fosse generica in quanto non offriva elementi precisi circa i fatti contestati e posti a base del licenziamento, non essendo stato specificato il numero di volte in cui l’appellato era stato visto lavorare in Trani e la presunta attività computa. Dalla contestazione quindi non emergevano, non essendo indicate le mansioni ed i periodi in cui tali mansioni sarebbero state espletate, le possibili conseguenze pregiudizievoli sul processo di guarigione. Anche dal rapporto investigativo di una società privata, prodotto tardivamente, emergevano attività le più varie e poco impegnative e comunque compatibili con la patologia sofferta dall’appellato così come certificata. L’investigazione comunque era durata talmente poco da non poter provare alcuna attività lavorativa così come genericamente contestata. Posto che era emerso che l’appellato era andato nell’Agenzia di Trani solo tre giorni svolgendo prestazioni varie e non per tutto il tempo dell’apertura si doveva concludere nel senso che la condotta addebitata era caratterizzata da occasionalità e sporadicità sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo e si doveva escludere che fosse stata espletata una attività qualificabile come di tipo ” lavorativo”. Inoltre alla luce di tali risultanze istruttorie doveva ritenersi che i canoni di correttezza e buona fede non fossero stati violati in quanto lo stato di malattia era indubitabile e le marginali attività espletate in Trani non avrebbero, in realtà, potuto rendere più difficile il processo di guarigione, anzi poteva affermarsi che tali attività potevano avere un’ incidenza funzionale e positiva per la stessa guarigione.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la A.T. s.r.l. con tre motivi; resiste l’intimato con controricorso che ha depositato anche memoria difensiva ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione della legge n. 300/70, artt. 7 e 18, la violazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227; la violazione ed errata interpretazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e del CCNL e l’omessa e comunque errata ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata. La contestazione mossa al M. era chiara e specifica; erano stati individuati tutti gli elementi per consentire al lavoratore di difendersi e per valutare la gravità dell’accaduto.
Il motivo appare infondato in quanto effettivamente la lettera di contestazione riportata a pag. 6 della sentenza impugnata appare assolutamente generica perché non individua né i giorni né l’attività in concreto svolta presso l’Agenzia Immobiliare Mo. e quindi non offre gli elementi di ordine qualitativo e quantitativo per consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente ad al Giudice per valutare la gravità dei fatti addebitati, considerato anche che la detta contestazione fa anche riferimento ad un atteggiamento non coerente con lo stato di malattia, il che non emerge idoneamente in base ad una contestazione che non offre alcun riferimento al tipo di mansioni pretesamente svolte “dall’incolpato”. La motivazione pertanto appare congrua e logicamente coerente ed individua lacune effettivamente sussistenti nella contestazione, in violazione dell’art. 7 L. n. 300/70. Il richiamato CCNL non è stato prodotto, né è stato indicato l’incarto processuale ove eventualmente lo stesso sia disponibile in versione integrale.
Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2110, 2119 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio avendo la Corte ritenuto lo stato fisico del lavoratore compatibile con attività lavorative. La malattia sofferta dall’intimato “epatopatia cronica evolutiva” comportava uno stato di prostrazione fisico e psichico, come ritenuto dai medici curanti, incompatibile con l’attività di collaborazione con l’Agenzia immobiliare sita in Trani.
Il secondo motivo appare infondato in quanto la Corte di appello ha già mostrato con riferimento agli accertamenti tardivamente prodotti dalla società di una Agenzia investigativa privata che era emersa solo un’attività sporadica ed occasionale e non durante l’intero orario di apertura dell’Agenzia da parte dell’intimato, non assimilabile ad una prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico che, anzi, non solo- stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa- era del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale ad una più pronta guarigione. La motivazione appare congrua e logicamente coerente e strettamente ancorata alle risultanze probatorie, mentre le censure in realtà sono di merito ed appaiono dirette ad una “rivalutazione del fatto”, inammissibile in questa sede. La Corte territoriale ha, quindi, esaurientemente motivato in ordine alla mancanza di un pericolo che l’attività contestata, così come emersa in base alle prove, potesse pregiudicare o rallentare il processo di guarigione.
Con il terzo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/70 come novellato dall’art. 1 della legge n. 108/90 e degli artt. 1223, 1227, 2727, 2729 comma 2 c.c., nonché dell’art. 112 c.p.c. in relazione agli artt.342, 414, 416, 163, 164, 167, e 359 c.p.c. I Giudici di merito avrebbe dovuto sottrarre all’entità del risarcimento l’aliunde perceptum. La società aveva dato prova che il M. possedeva quote societarie dell’Agenzia ” Mo.” e certamente aveva proseguito nell’attività di collaborazione svolta pendente lo stato di malattia.
Il motivo va dichiarato inammissibile in quanto non ricostruisce, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, come la questione dell’aliunde perceptum sia stata posta nelle precedenti fasi del giudizio ed in particolare se sia stata oggetto di uno specifico motivo di appello ( la sentenza di appello non fa alcun cenno a tale doglianza). In ogni caso il motivo appare inammissibile per genericità in quanto non offre alcun elemento concreto in ordine al preteso aliunde perceptum: anche se l’intimato avesse avuto delle quote ( ma sul punto non vi è stata alcuna produzione in merito alla detta allegazione, unitamente al ricorso in cassazione) nell’Agenzia già ricordata, questo certamente non prova che vi avesse poi svolto attività lavorativa retribuita. Nella seconda parte del motivo si reiterano, in modo assolutamente generico, censure già esposte con i precedenti motivi.
Conclusivamente si deve rigettare il ricorso. Le spese di lite- liquidate come al dispositivo della sentenza- seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento in favore di controparte delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in euro 50,00 per spese, nonché in euro 3.000,00 per compensi oltre accessori.
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