La Corte di Cassazione con ordinanza n. 2486 del 01 febbraio 2013 confermano che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la presenza di scritture formalmente corrente non esclude la legittimità dell’accertamento” sempre che la contabilità “possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente”.
La vicenda
Un imprenditore sottoposto a verifica fiscale, pur riconoscendo la correttezza formale della contabilità, l’amministrazione finanziaria deduce un maggior reddito d’impresa evaso utilizzando l’accertamento analitico-induttivo. Le obbiezione mosse all’imprenditore dall’amministrazione finanziaria sono considerate fondate.
L’imprenditore promuoveva ricorso avverso l’accertamento in Commissione Tributaria i giudici sia in primo che in secondo grado emettevano sentenza favorevole al contribuente. L’Amministrazione finanziaria, conseguentemente, proponeva ricorso in Cassazione, eccependo la piena legittimità del proprio operato in aderenza al dettato normativo di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, che consente, appunto, la rettifica del reddito in caso di scritture, formalmente regolari, ma affette da incompletezze, inesattezze e infedeltà.
I giudici hanno accolto pienamente le ragioni del Fisco, richiamando, prima di tutto, l’indirizzo consolidato in seno alla stessa Cassazione, secondo cui l’accertamento con metodo analitico-induttivo di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, presuppone l’esistenza di scritture contabili regolarmente tenute dal punto di vista formale ma, tuttavia, contestabili in virtù di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti.
Una volta fissato questo paletto, viene di conseguenza che, contrariamente a quanto deciso dalla Commissione tributaria regionale, “la compensazione non poteva essere riconosciuta, atteso che il contribuente non aveva indicato tutti i ricavi ed il reddito maggiore conseguiti”. La ragione è semplice: “le sanzioni amministrative previste per il caso di dichiarazione infedele sono dovute, come pure le agevolazioni o compensazioni non vanno riconosciute, a prescindere dalla circostanza che l’imposta, non dichiarata, vada poi effettivamente riscossa, oppure, come nella specie, debba essere compensata con crediti rivenienti dalla definitiva stabilizzazione di perdite fiscali anteriori”, sempre però che “non vi sia stata una dichiarazione infedele”. Volendo sintetizzare, “sanzioni e diniego dei benefici” sono riconnesse “al dato obiettivo della dichiarazione di un reddito inferiore”.
La sentenza risulta in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la legittimità della rettifica analitico-induttiva non è subordinata necessariamente all’irregolare tenuta della contabilità quando la stessa contabilità contrasta “con i criteri di ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità , essendo in tali casi, consentito all’Ufficio di dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e di desumere, sulla base di presunzioni semplici, purchè chiari, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente” (Cassazione, sentenze 417/2008 e 24532/2007).
Allo stesso modo, i giudici di legittimità riconoscono la legittimità dell’accertamento induttivo, pur in presenza di contabilità regolarmente tenuta, quando si palesano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalla specifica attività oppure dagli studi di settore (Cassazione, sentenze 13952/2008 e 10277/2008).
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