CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 agosto 2013, n. 18526
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Risarcimento danni a carico del lavoratore – Compensazione atecnica
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 3 gennaio 2001, E. R., funzionario della Banca di Roma, proponeva appello avverso le sentenze – non definitiva n. 53/1998 del Pretore di Terracina e definitiva n. 3648/2000 del Tribunale di Latina – con cui erano state respinte le domande dallo stesso proposte ne, confronti della Banca datrice di lavoro, volte alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 4 maggio 1994 e condannato esso appellante al pagamento in favore della banca convenuta della somma di £ 849.118.040 oltre accessori.
Deduceva l’erroneità delle gravate sentenze, insistendo per la declaratoria di illegittimità del licenziamento con tutte le conseguenze anche di carattere economico.
Si costituiva la società appellata (oggi UNICREDIT Sp.A. a seguito delle note vicende successorie) resistendo al gravame di cui chiedeva il rigetto. Espletate due ctu contabili, la seconda delle quali collegiale, l’adita Corte, non definitivamente pronunciando, rigettava i motivi di appello concernenti la ritenuta legittimità del licenziamento, essendo emerso dalla espletata istruttoria che il R., senza avvalersi della collaborazione di altri funzionari, aveva disatteso la normativa interna della Banca, determinando gravi esposizioni patrimoniali per l’istituto di credito, quantificabili in oltre sei milioni di euro. Successivamente, con sentenza definitiva del 17 settembre 2009 – 19 aprile 2010, la Corte, in parziale accoglimento dell’appello, condannava il E. R. al pagamento della somma di e 400.000,00 anziché di quella maggiore statuita in primo grado, oltre a interessi come già riconosciuti, confermando nel resto la sentenza impugnata.
Per la cassazione di tali pronunce ricorre E. R. con sei motivi. Resiste (…) S.p.A. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il R., denunciando violazione del principio sulla immediatezza della contestazione nonché sulla tempestività del licenziamento nonché omessa, contraddittoria ed inadeguata motivazione, lamenta che, nonostante l’eccezione fosse stata formulata sia in primo grado che in appello, entrambi i giudici di merito avevano omesso la pronuncia e la motivazione in proposito. Il motivo non può trovare accoglimento.
Invero, nel presente ricorso, mentre il R. si è premurato di riportare i termini dell’atto introduttivo, in cui si deduce “una violazione del principio della immediatezza tra il comportamento del lavoratore e sanzione irrogata”, con il motivo in esame si è limitato ad affermare di avere reiterato in grado di appello la suddetta eccezione, trascurando, tuttavia di riprodurre il tenore dell’eccezione oltre che di indicare specificamente dove e quando abbia provveduto a sollevarla. Va in proposito rammentato che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità’, questioni che hanno formato oggetto di gravame con l’atto di appello, sicché nel giudizio di legittimità non possono essere prospettate per questioni temi nuovi di indagini non compiute perché non richieste in sede di merito (ex plurimis, Cass.10 maggio 1995, n. 5106). Pertanto, ove il ricorrente proponga detta questione in sede di legittimità, al fine dì evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ad actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 3 aprile 2003 n. 5150). Il motivo va pertanto dichiarato inammissibile.
Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. nonché motivazione carente, lacunosa e contraddittoria, lamenta l’erroneità della valutazione operata dal Giudice a quo delle consulenze tecniche acquisite nel corso del giudizio. Anche questo motivo non può trovare accoglimento.
Va anzitutto osservato che il richiamato art. 116 c.p.c, come si ricava dalla stessa intitolazione (“valutazione delle prove”), riguarda le prove e non invece la consulenza tecnica, alla quale si riferiscono gli artt. 61 e 191 c.p.c, che non è un mezzo di prova.
E’ ius receptum che la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, con la conseguenza che il suddetto mezzo di indagine non può essere qualificato come prova vera e propria e, come tale, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Qualora sia stata disposta e ne condivida i risultati, il giudice non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità (explurimis, Cass.n. 3881/2006). Nel caso in esame, peraltro, la Corte territoriale, rilevato che in sede di gravame, il R. aveva contestato gli esiti della consulenza disposta in primo grado e l’intepretazione datane dal primo Giudice, ha disposto una prima ctu, all’esito di note critiche prima una convocazione a chiarimenti e successivamente una nuova consulenza tecnica collegiale, osservando che tutti gli accertamenti in questione avevano dato esito negativo per il lavoratore. Secondo il primo CTU, infatti, il R., il quale aveva sempre operato tranne che in un’occasione in regime di auto concessione, senza valersi della collaborazione di altri funzionari, aveva disatteso la normativa interna della banca con mancanza di correttezza delle istruttorie di fido ed ancor più sul lavoro di monitoraggio delle pratiche e sull’acquisizione delle garanzie, determinando gravi esposizioni patrimoniali per l’istituto di credito datore di lavoro quantificabili in oltre sei milioni di euro.
Sostanzialmente sulla stessa linea -precisa il Giudice d’appello- si era collocata la disposta perizia collegiale, che aveva accertato che venti delle posizioni di cui è causa erano state eseguite senza la collaborazione di altri funzionari e secondo cui le ventitré pratiche di fido oggetto della contestazione non risultavano essere state correttamente istruite e le linee di credito non figuravano sostenute da adeguate garanzie patrimoniali. Era emerso altresì che il R. aveva normalmente disatteso tutte le norme in materia di affidamento bancario e quindi la fondatezza delle censure mossegli.
Alla luce di tali concordi e reiterati accertamenti cui la Corte aveva ritenuto di aderire, in quanto fondati su una attenta e compiuta valutazione tecnico-contabile delle circostanze del caso, non poteva che ritenersi la fondatezza degli addebiti mossi al R., che, per la loro gravità e le gravissime conseguenze economiche per la stessa datrice di lavoro, erano da ritenersi certamente idonei a ledere irreversibilmente il vincolo fiduciario.
Né rilevavano -secondo la Corte territoriale-, al fine di sminuire le responsabilità del R., le adombrate omissioni da parte degli organi di controllo dello stesso istituto dì credito, cui faceva cenno la stessa consulenza, omissioni che potevano avere eventualmente inciso sulla misura delle conseguenze economiche per l’istituto, ma che non potevano certamente legittimare comportamenti contrari alle disposizioni in vigore e sintomo quanto meno di scarsa avvedutezza e di estrema superficialità, tanto più gravi in relazione alla posizione rivestita dal R. ed alle competenze allo stesso riconosciute.
Tale motivazione, priva di vizi logici e giuridici, vale anche ad evidenziare l’infondatezza del terzo motivo, con cui il ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e ss. , 2697 c.c. nonché vizio di motivazione, lamenta l’erronea determinazione del danno che la Banca avrebbe subito a causa del comportamento del
Non appare pertanto meritevole di censure la decisione del Giudice di secondo grado che, valutata la totale illiceità della condotta del R. ed accertata l’esistenza di gravi danni patrimoniali derivati dalla stessa, ha affermato, sulla scorta delle disposte consulenze, la conseguente responsabilità da parte del ricorrente condannandolo al risarcimento dei danni a riguardo ed operando un conteggio di dare avere, nell’ambito del medesimo rapporto giuridico (il rapporto di lavoro) tra voci a credito (spettanze di fine lavoro) e voci a debito (danni derivanti dalla violazione degli obblighi posti in capo del prestatore di lavoro).
Giova in proposito rammentare che, alla stregua di quanto in più occasioni ha affermato questa Corte, è configurarle la cosiddetta compensazione tecnica allorché i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto – la cui identità non è peraltro esclusa dal fatto che uno dei crediti abbia natura risarcitoria derivando da inadempimento -, nel qual caso la valutazione delle reciproche pretese comporta un accertamento che ha la funzione di individuare il reciproco dare ed avere senza che sia necessaria la proposizione di un’apposita domanda riconvenzionale o di un’apposita eccezione di compensazione (Cass. n. 28855/2008; Cass. n. 14688/2012).
Così come conforme a diritto appare la valutazione equitativa del danno, oggetto del quarto motivo, fatta dal la Corte d’appello di Roma -in applicazione dell’art. 1226 c.c., – che, senza trascurare di considerare anche le sopra richiamate omissioni da parte degli organi di controllo dello stesso istituto di credito, ha proceduto, per l’appunto, a tale valutazione equitativa, non essendo possibile, nella specie, liquidare il danno nel suo preciso ammontare sussistendo difficoltà circa la determinazione delle parti di esso riferibili alle singole diverse concause; ed ha, pertanto, seguendo detto criterio, ritenuto congruo riconoscere alla UniCredit – avuto riguardo alle ragioni creditorie del R. per il TFR e l’ultima mensilità – la somma omnicomprensiva di € 400.000,00. Non è di ostacolo a questa conclusione la natura del credito del R. (art. 1246 cc), – come si sostiene invece con il quinto motivo- giacché il divieto di compensazione oltre il limite del quinto del credito del lavoro presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti, non configurabile allorché i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto; in tal caso, infatti, la valutazione delle reciproche pretese importa come appena evidenziato – soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere e non possono trovare applicazione le norme dettate per la compensazione in senso proprio o giuridico, tra cui, specificamente, quelle sui limiti alla compensabilità dei crediti retributivi dei lavoratori dipendenti (art. 1246 ce, e art. 545 c.p.c.) (v. Cass. n. 28855/2008).
Inammissibile è, infine, il sesto motivo con cui – a quanto risulta – per la prima volta il ricorrente lamenta che il Giudice abbia omesso di rilevare la discriminatorietà dell’intimato licenziamento. Per quanto esposto il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccembenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in € 50,00 per esborsi ed in € 6.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.
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