CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 settembre 2013, n. 20716
Lavoro subordinato – Demansionamento professionale – Addetti alle pulizie – Cessionaria – Cedente – Responsabilità solidale – Risarcimento del danno
Svolgimento del processo
Con sentenza resa in data 11.5.2009, la Corte di Appello di Torino, respingendo le altre domande proposte con il ricorso introduttivo, accertava l’il legittimità della dequalificazione professionale subita dalla maggior parte dei lavoratori appellanti, consistente nell’assegnazione a mansioni di pulizia di B. R. dal giugno 1994, di B. R. dal giugno 1999, di B. G. dal 17.5.1994, di B. V. dal marzo 2000, di B. S. dal giugno 1994, di C. R. dall’ottobre 1995 al marzo 2000 e dal luglio 2001, di E. C. dal dicembre 1995, di F. C. dal marzo 1995, di G. F. dal gennaio 1997, di G. G. dal 17.5.1994, di L. S. dal febbraio 1995, di M. M. dal gennaio 2001, dì M. D. dal gennaio 1995, di M. M. dal settembre 1995, di N. M. T. dal gennaio 1995, di P. M. dal maggio 1999, di P. F. dal marzo 2001, di Q. R. dal settembre 1994, di R. M. dal settembre 1999, di T. P. dal maggio 1996, di T. G. dal 17.5.1994, di Vigano Concetta dal maggio 1998 e, per l’effetto, condannava la S.p.a I. e la s.r.l. C. in solido a risarcire ai suddetti lavoratori il danno, quantificato nella misura del 30% della retribuzione mensile netta, per il periodo e con le decorrenze indicate, nonché ad A. A., B. N., C. G., D. D., F. D. dalle decorrenze indicate nella sentenza del Tribunale e fino al I dicembre 2001, condannando la sola s.r.l. C. per il periodo successivo al 1.12.2001, il tutto oltre accessori dalla data della sentenza al saldo; condannava, altresì, la detta società ad adibire gli appellanti elencati, oltre A., B., C. e Di V., alle mansioni corrispondenti al loro livello di inquadramento.
Rilevava il giudice di secondo grado che già, in altro precedente della stessa Corte territoriale, era stato ritenuto, per quanto specificamente riguardava la fattispecie del trasferimento del ramo d’azienda dall’una all’altra delle predette società, che il passaggio, realizzatosi il 1.2.2001, fosse pienamente legittimo e riportava la parte motiva di tale decisione – della quale affermava di condividere le argomentazioni – fondata sul rilievo che era pacifica la preesistenza dell’Ente Servizi Generali rispetto al contratto di cessione, essendo la costituzione del reparto aziendale di molto anteriore a questo e che i documenti acquisiti provavano l’effettiva ed autonoma consistenza del ramo d’azienda, costituito da immobilizzazioni materiali di consumo e di ricambio, crediti finanziari verso la FIAT GE.VA. s.p.a, per oltre due milioni, e crediti verso l’erario. Osservava che doveva escludersi il dedotto contenuto fraudolento del trasferimento del ramo posto in essere al fine dì aggirare le norme sui licenziamenti collettivi, non ravvisandosi il contenuto frodatorio del negozio, avendo i lavoratori comunque mantenuto la stabilità occupazionale e, quanto alla cessionaria, non potendo ritenersi condizionata la validità della cessione alla prognosi favorevole alla continuazione dell’attività produttiva, stante l’esistenza di un diritto dell’imprenditore costituzionalmente garantito, non confliggente con altri diritti costituzionali ugualmente in causa.
Rilevava che l’adibizione di molti dei lavoratori appellanti ad attività di pulizia, corrispondenti all’inquadramento nella prima categoria del c.c.n.l., era giustificata dall’azienda in relazione al sopravvenuto mutamento delle condizioni fisiche degli stessi, che aveva determinato l’impossibilità parziale delle prestazione confacente all’originario rispettivo inquadramento, ma che la giustificazione fornita non era idonea a derogare al disposto dell’art. 2103 c.c., non essendovi consenso alcuno dei dipendenti e non essendo stata dimostrata la impossibilità o la non convenienza aziendale di adibire i lavoratori ad altre mansioni equivalenti a quelle da ultimo espletate o a mansioni intermedie. Esaminando le singole posizioni lavorative, rilevava come, per tutti, ad eccezione di alcuni, addetti a mansioni di II e poi dì 111 categoria, vi fosse stata assegnazione, in qualche caso dopo un periodo di CIGS, ad attività manuali presso il reparto Servizi Vari e che non risultavano prescrizioni mediche o certificazioni che ne evidenziassero una ipotetica inidoneità, né era risultato che i lavoratori avessero accettato le diverse ed inferiori mansioni del suddetto reparto. Evidenziava come la dequalificazione di lavoratori provenienti da settori della produzione richiedenti specializzazioni operative e specifiche professionalità non fosse abbisognevole di ulteriore dimostrazione a fronte della qualifica di prima categoria di inquadramento delle attività di pulizia. Inoltre, per alcuni di essi, i problemi di salute erano insorti dopo diversi anni di attività presso i servizi generali e non esistevano controindicazioni al mantenimento delle mansioni svolte da ultimo prima del passaggio alle pulizie o esistevano prescrizioni di inidoneità ad un tipo solo di mansioni. In merito alla quantificazione del danno, veniva ritenuta congrua, rispetto ai dati quantitativi e temporali del demansionamento ancora in essere, la misura del 30% della retribuzione mensile netta per ciascun lavoratore, con le decorrenze ed i periodi indicati, tenuto conto della prescrizione, calcolata a ritroso rispetto al momento interattivo del tentativo di conciliazione del 17.5.1994. Veniva ribadita la responsabilità solidale di entrambe le società fino al 1.12.2001 e, successivamente a tale data, della sola C., condannata ad adibire i lavoratori a mansioni confacenti al loro inquadramento, non potendo considerarsi l’attività di pulizia “più leggera” di quella produttiva. Per quanto riguardava le posizioni di M. e T., aventi il ruolo di “capo uomo”, si osservava che, nelle rispettive mansioni di assegnazione, gli stessi erano privi di iniziativa autonoma per essere soggetti alle direttive del capoturno, onde non poteva essere riconosciuta ai predetti la qualifica superiore rivendicata (V categoria, a fronte della quarta di inquadramento).
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’I. s.p.a., affidando l’impugnazione a sette motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resistono con controricorso – ad eccezione di M., P., P., R. T. e V. – gli intimati, che propongono ricorso incidentale, affidato a tre motivi.
Si costituisce, altresì, la C. s.r.l., che propone anche ricorso incidentale, affidato a dieci motivi di impugnazione.
Resistono, con controricorso, l’I. s.p.a al ricorso incidentale dei lavoratori e questi ultimi al ricorso incidentale della C. s.r.l., ad eccezione del P., del P., del R. e del V.. La C. resiste, a sua volta, con controricorso, al ricorso incidentale dei lavoratori.
Motivi della decisione
Va, preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c.
Con il primo motivo, la s.p.a. I. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c.. e dell’art. 4 c.c.n.l. per i dipendenti dell’industria metalmeccanica vigenti nel periodo dal 1980 al 2001, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c, per avere la sentenza impugnata erroneamente considerato dequalificante per definizione l’assegnazione di mansioni di prima categoria a lavoratori inquadrati in terza categoria per automatismo. Assume che i ricorrenti erano stati tutti assunti al 11 livello del c.c.n.1., perché l’assunzione al I livello era disapplicata e che il passaggio ai livelli successivi era legato alla sola anzianità di servizio e non alla progressione nella qualità delle mansioni, che potevano, per disposizione contrattuale, anche rimanere immutate.
Con il secondo motivo, la società lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2013 e 2077 c.c. in relazione all’art. 360 n, 3 c.p.c, per avere la sentenza d’appello erroneamente considerato dequalificante per definizione l’assegnazione a mansioni di prima categoria a lavoratori inquadrati in terza e quarta, senza accertare che tale inquadramento fosse conseguenza delle mansioni effettivamente svolte e non corrispondesse ad un trattamento di miglior favore ed assume che il demansionamento debba essere ravvisato in base ad un confronto tra mansioni e non tra inquadramenti.
Con il terzo, si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c, per avere erroneamente presupposto che gravi sul datore di lavoro l’onere di provare l’equivalenza delle nuove mansioni rispetto alle precedenti ed assume che la violazione di un divieto comportava che il relativo onere probatorio fosse assolto dal creditore.
Con il quarto motivo, la I. s.p.a. ascrive alla decisione impugnata insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c, per avere completamente omesso di esaminare le prove documentali e gli interrogatori, confermativi della sopravvenuta inidoneità parziale dei lavoratori alle precedenti mansioni di produzione e/o del venir meno dei reparti dove erano occupati, nonché violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115., comma 1, c.p.c, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c, per avere omesso di porre a fondamento della decisione le prove documentali e gli interrogatori.
Con il quinto motivo, deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1325 n. 4, 1326, 1350 e 2103 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c, per avere erroneamente negato la sussistenza e la legittimità del patto di assegnazione a mansioni diverse, anche inferiori, per la salvezza dell’occupazione, senza considerare la lunghissima esecuzione, senza protesta, da parte di lavoratori legati all’azienda da un rapporto assistito dal regime di stabilità reale.
il sesto motivo attiene alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2697 e 2729c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c, sostenendosi che la sentenza abbia erroneamente affermato la sussistenza di un danno da dequalificazione senza prova dello stesso, non potendosi qualificare tale la sola durata e gravità del demansionamento.
Con il settimo motivo, la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c.. e dell’art. 432 c.p.c, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., per avere il giudice del gravame quantificato il risarcimento del danno da dequalificazione con riferimento alla stessa percentuale della retribuzione per tutti i lavoratori, pur essendo stati indicati in sentenza criteri determinativi comportanti differenziazione del quantum in base alle diverse situazioni individuali, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatto controverso e decisivo, ex art. 360 n. 5, c.p.c, deduzione fondata in fatto sugli stessi rilievi posti a fondamento della censura di violazione dì legge.
I tre motivi del ricorso incidentale dei lavoratori prospettano: 1) omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c, sul rilievo che la decisione impugnata richiama integralmente per relationem la motivazione di altra pronunzia della stessa Corte del merito, senza motivare e precisare che si tratti della medesima fattispecie; 2) insufficiente/contraddittoria motivazione, ex art. 360, n. 5, c.p.c. e 3) violazionetfalsa applicazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c, di norme di diritto (artt, 1418, 1406 e 2112 c.c.), perché il giudice del gravame ha ritenuto che la cessione alla C. s.r.l. costituisse trasferimento di parte dell’azienda (articolazione funzionalmente autonoma dì un’attività economica organizzata preesistente al trasferimento che conserva nel trasferimento la propria identità). Assumono i lavoratori che la fattispecie realizzava, al contrario, un mero trasferimento di pluralità di rapporti lavorativi e che tale ricostruzione è conforme alla corretta interpretazione dell’art. 2112, comma 5°, c.c., nel testo vigente anteriormente al d. Igs. 276/2003, essendo l’articolazione “Servizi Generali” priva di un’autonomìa organizzativa, economica e funzionale.
Il primo motivo del ricorso incidentale della C. s.r.l. riproduce le doglianze prospettate nel ricorso dell’I. con il terzo motivo di impugnazione, il secondo motivo » reitera le considerazioni ed i rilievi di cui al quarto motivo del ricorso I., il terzo quelli contenuti nel sesto motivo della ricorrente principale ed il quarto le censure di cui al settimo motivo dell’impugnazione principale.
Con il quinto, la società C. denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2112, 2° comma, 2560, 2° comma, c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. e, comunque, omessa e/o insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c, per avere erroneamente la Corte di Torino condannato essa società, in solido con I., per i danni subiti dai lavoratori nel periodo precedente la cessione. Sostiene che le domande dei lavoratori e le “ragioni” dedotte trovassero fondamento nella violazione di precisi obblighi datoriali e che sia mancato l’ accertamento in ordine alla riconducibilità delle stesse alla categoria dei diritti opponibili anche al cessionario e ritiene che il corretto esercizio dello “ius variandi” trascenda dal rapporto con il lavoratore e sia estraneo alla vicenda negoziale traslativa, attenendo a scelte imprenditoriali complessive alle quali il cessionario è totalmente estraneo, con la conseguenza che quest’ultimo non può esserne chiamato a rispondere in solido con il cedente, se i crediti non trovino riscontro nei libri contabili obbligatori.
Con il sesto motivo, la ricorrente incidentale lamenta violazione dell’art. 2103, 2112 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c, per avere erroneamente il giudice del gravame ritenuto C. responsabile della perdurante dequalificazione professionale dei lavoratori dopo la cessione, nonché insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c su un fatto decisivo e controverso con riguardo all’accertamento della perdurante dequalificazione subita da parte di essa cessionaria. Rileva che era stata trascurata la circostanza che essa società opera in un settore imprenditoriale del tutto diverso e che l’attività di pulizie costituisce l’oggetto esclusivo della propria attività, nell’ambito della quale non poteva effettuarsi una trasposizione della valutazione fatta per il cedente in ordine alla possibilità di assegnazione ai lavoratori dì mansioni diverse da quelle rappresentanti il “core business”, non esistenti nella nuova realtà aziendale.
Con il settimo motivo, si duole della violazione degli artt. 1321, 1325, 1326, 1350, 2103, 2112 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. e, comunque, del difetto di motivazione, per avere negato la sussistenza e legittimità del patto di assegnazione a mansioni diverse nel periodo successivo alla cessione. Evidenzia la rilevanza da attribuirsi alla tacita esecuzione di mansioni assegnate dalla cessionaria, e la significatività di un silenzio circostanziato.
Con l’ottavo motivo dell’ impugnazione incidentale, è dedotta l’omessa ed insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi, in relazione all’art 360, n. 5, c.p.c, per avere omesso il giudice del merito di esaminare la prova documentale e gli interrogatori attestanti l’inidoneità fisica dei lavoratori a mansioni diverse da quelle assegnate dalla C. s.r.l. e la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 cp.c, in relazione all’art 360, n. 3, c.p.c, osservando che le dichiarazioni di idoneità o di idoneità con prescrizioni alle mansioni riguardavano le condizioni fisiche dei lavoratori nel 2006 o, comunque, erano relative a periodo successivo alla cessione.
Con il nono motivo, la ricorrente si duole della violazione dell’art. 41 della Costituzione, dell’art. 2697 c.c., dell’art. 115, 1° e 2° comma, cp.c, dell’art. 416, 3° co., 420, I comma, cp.c, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c e deduce vizio motivazionale per mancato esame di prove ed allegazioni della C. in ordine all’impossibilità di assegnare mansioni diverse da quelle in concreto assegnate ai lavoratori trasferiti. Assume che la prova circa l’impossibilità di assegnazioni a mansioni diverse debba essere contenuta nei limiti della ragionevolezza e delle contrapposte deduzioni delle parti e che occorra la dimostrazione che l’attività sia proficuamente utilizzabile nell’impresa secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.
Con il decimo motivo, si assume la violazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c, per non avere la Corte d’appello riconosciuto nella condotta dei lavoratori una concausa del protrarsi delle situazione di dequalificazione professionale e nell’aggravamento del danno.
I ricorsi sono tutti infondati.
Con riguardo al primo motivo del ricorso principale, deve osservarsi, a prescindere dalla mancata produzione del testo integrale dei CCNL dì riferimento (v., tra le altre, Cass. 27.2009 n. 15495, Cass. 17.6.2011 n. 13353) , che, per il passaggio dalla seconda alla terza categoria del CCNL per i dipendenti dell’industria metalmeccanica, sono previsti percorsi idonei a verificare la professionalità necessaria per l’espletamento delle funzioni connesse ai livelli superiori (sperimentazione di un periodo di svolgimento dei compiti dei livelli superiori, verifica della professionalità per i lavoratori che abbiano acquisito conoscenze e capacità in corsi professionali specifici, possesso di titolo di studio relativo e decorso solo per questi ultimi di un periodo temporale minore), onde non può ritenersi, senza che vengano richiamati elementi idonei ad inficiare il percorso motivazionale della pronunzia impugnata, che la professionalità richiesta dai diversi inquadramenti contrattuali fosse la stessa nei livelli in questione e che il grado delle attitudini richieste fosse immutato nel passaggio dall’uno all’altro essendo legato alla sola anzianità.
Erroneo è anche quanto argomentato nel secondo motivo, che delinea una violazione di legge per avere il giudice del gravame avuto riguardo ad una comparazione tra inquadramenti e non tra mansioni nell’accertamento delta dequalificazione. Ed invero, la Corte territoriale ha fatto riferimento al contenuto specifico delle mansioni, correttamente valorizzando la precedente assegnazione dì ciascuno dei lavoratori a settori produttivi, con adibizione a macchine e motori, anche dopo corsi di qualificazione professionale, e valutando la posizione lavorativa concretamente ricoperta comparativamente a quella che vedeva assegnati i lavoratori a mansioni di pulizia. Peraltro, tale problema di equivalenza si pone solitamente tra mansioni appartenenti al medesimo livello di inquadramento ed in ogni caso la valutazione comparativa attiene ad un accertamento di merito non denunziaste in sede di legittimità se non in relazione a incongruenze e palesi vizi logici dell’iter argomentativo seguito. La Corte del merito ha fatto corretta applicazione del principio di diritto, atteso che la equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell’esercizio dello “ius variandi”, a norma dell’art. 2103 cod. ctv. – e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in cassazione, ove sorretto da una motivazione logica, coerente e completa – va verificata sia sul piano oggettivo, e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due mansioni siano professionalmente affini, nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità professionali già acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi. (Cfr. 8.6.2009 n. 13173, Cass. 23.3,2005 n. 6326). Infondato è il terzo motivo, con il quale si sostiene che l’onere probatorio relativo al demansionamento sia a carico del lavoratore. Ed invero, in tema di demansionamento e relativo onere probatorio, il lavoratore può reagire al potere direttivo che assume esercitato illegittimamente prospettando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia e, quindi, con un onere di allegazione di elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio, mentre il datore di lavoro, convenuto in giudizio, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegarne altri, indicativi, per converso, del legittimo esercizio del potere direttivo (v. Cass. 4766/2006, s. u. 5454/2009). L’imprenditore ha l’onere di provare l’adempimento dell’obbligazione posta a suo carico, rispetto alla lesione prospettata dal lavoratore.
Anche il quarto motivo deve essere disatteso, osservandosi che la ricorrente non richiama documenti ed interrogatori di cui deduce l’omessa considerazione a fini decisori, ma riporta passaggi della sentenza di primo grado che aveva rilevato la decisività della documentazione medica quale elemento legittimante l’assegnazione a mansioni non produttive di tutti ì lavoratori ed aveva qualificato la mancata espressa contestazione delle nuove mansioni protrattesi per anni non come mera inerzia, ma come silenzio circostanziato. Riporta, poi, il contenuto degli interrogatori e richiama stralci dei documenti prodotti, che il giudice del gravame aveva, al contrario di quanto ritenuto dal Tribunale, ritenuto riferibili a periodi successivi al demansionamento e non significativi ai fini considerati, certificandosi in molti casi l’idoneità lavorativa dei dipendenti con prescrizioni. La censura è volta a prospettare nella sostanza una diversa ricostruzione senza evidenziare elementi dotati del carattere della decisività, idonei a sostenerla, avendo il giudice del gravame, contrariamente a quanto sostenuto nel motivo di impugnazione, dato esauriente conto dell’esame documentale compiuto e della valutazione anche di quanto riferito nel corso degli interrogatori, esaminando singolarmente ogni posizione lavorativa e le certificazioni mediche riferite ad ognuno degli appellanti.
Il quinto motivo afferisce anch’esso al merito, ed in particolare alla interpretazione del significato conferito alla esecuzione pluriennale di mansioni inferiori senza alcun comportamento idoneo a contrastare la disposta assegnazione. Al riguardo è sufficiente osservare che la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito le cui conclusioni non sono censurabili in assenza di vizi logici o di errori di diritto. Peraltro le censure in diritto sono contraddette da orientamento giurisprudenziale di legittimità in forza del quale II patto di demansionamento che attribuisce al lavoratore mansioni, e conseguente retribuzione, inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, è valido solo ai soli fini di evitare un licenziamento, prevalendo l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 cod.civ., e non solo ove sia promosso dalla richiesta del lavoratore – il quale deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà – sebbene anche allorché l’iniziativa sia stata presa dal datore di lavoro, sempreché vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell’accordo (Cfr., in tale senso, Cass. 7.2.2005 n. 2375). Non è questo il caso verificatosi nella specie, in cui non è stato in alcun modo evidenziato che sussistessero le condizioni legittimanti il recesso datoriale e peraltro è principio consolidato, espresso da questa Corte regolatrice, quello secondo il quale, in tema di estinzione dell’obbligazione, al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto (cfr. Cass. 26 febbraio 2004, n. 3861, Cass. 21.6.2005 n. 13322, Cass. 22.4.2009 n. 9547).
Il sesto motivo attiene alla prova del danno da demansionamento, che si assume non ricollegabile automaticamente alla gravità ed alla durata della dequalificazione. Come osservato da questa Corte (v. Cass., s. u. 24.3.2006 n. 6572) “proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore” e quest’ultimo deve in primo luogo precisare quali danni ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergerne la prova. E’ stato evidenziato che “non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art. 421 cod. proc. civ. – non può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto” ( in senso conforme, v. Cass. 19.12.2008 n. 29832, Cass. 17.9.2010 n. 19785). Il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma il primo di essi, come osservato nella pronunzia a sezioni unite di questa Corte richiamata, “non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo”. E’ stato, infatti, evidenziato che “in mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore”. Nel caso considerato non è validamente sostenibile che l’allegazione richiesta sia mancata, atteso che, in base alle deduzioni in fatto contenute nel ricorso introduttivo, il giudice del gravame ha accertato il consistente depauperamento professionale subito in concreto dai lavoratori, per effetto del venir meno dell’esperienza acquisita, per taluni di essi anche attraverso la partecipazione a corsi dì qualificazione professionale, non essendo stata presa in esame dal datore di lavoro la possibilità di spostamento in “orizzontale” o comunque verso posizioni confacenti al livello di inquadramento. Deve, pertanto, ritenersi che l’accertamento della sussistenza del pregiudizio sia stato operato in modo aderente ai principi giurisprudenziali sopra menzionati, avendo la Corte d’appello accertato – con valutazione non adeguatamente contrastata ed insindacabile se non in base all’enunciazione di vizi deducibili nella presente sede di legittimità – che vi è stata una perdita di professionalità specifica da parte dei lavoratori addetti alla produzione con mansioni qualificate.
Deve, poi, dichiararsi l’infondatezza dell’ultimo motivo, ove si abbia riguardo alla circostanza che risultano indicate diverse decorrenze della dequalificazione subita, e che in rapporto a tali riferimenti temporali il danno, sia pure quantificato in base a percentuale di retribuzione unica, era necessariamente differenziato oltre che per il diverso periodo del risarcimento anche in relazione a livello di inquadramento posseduto in precedenza.
Il ricorso incidentale proposto dai lavoratori sconta una genericità di fondo dei motivi attinenti ai vizi motivazionali, attraverso i quali si mira a sollecitare una ricostruzione dei fatti difforme da quella cui p pervenuto il giudice del gravame. E ciò in contrasto con i principi che regolano il ricorso per cassazione, che conferiscono al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Cass. 16.12.2011 n. 27197). Nella specie non risulta che le doglianze abbiano evidenziato i profili rilevanti del vizio motivazionale dedotto – nel quale il ricorrente si duole della intrinseca contraddittorietà dell’iter argomentativo – né risultano chiariti gli aspetti di decisività della critica avanzata, rispetto ad una ricostruzione logica e coerente operata dalla Corte territoriale con riguardo alla vicenda traslativa aziendale ed alla individuazione dell’autonomia organizzativa e funzionale del ramo ceduto. La Corte territoriale, nel ritenere che la traslazione dei “Servizi Generali” pacificamente preesistenti all’operazione traslativa, fosse avvenuta in conformità all’art. 2112, 5° co., 2° parte, c.c., ha fatto corretta applicazione della normativa di riferimento, interpretata secondo ì principi richiamati e risulta coerente anche con la normativa comunitaria ed i principi costituzionali. La sentenza impugnata si sottrae, pertanto, alla censura mossa, e risulta rispettosa dei principi affermati da questa Corte di Cassazione, che ha, in materia di trasferimento di parte (c.d. ramo) di azienda, precisato che tanto la normativa comunitaria (direttive CE nn, 98/50 e 2001/23) quanto la legislazione nazionale : (art. 2112, comma quinto, cod. civ) perseguono il fine di evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sta della solvibilità sia dell’attitudine a proseguire con continuità l’attività produttiva, osservando che la citata direttiva del 1998 richiede, pertanto, che il ramo d’azienda oggetto del trasferimento costituisca un’entità economica con propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati per un’attività economica, essenziale o accessoria, e, analogamente, l’art. 2112, quinto comma, cod.civ. si riferisce alla “parte d’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata”. Deve, quindi, trattarsi di un’entità economica organizzata in modo stabile e non destinata all’esecuzione di una sola opera (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00), ovvero di un’organizzazione quale legame funzionale che renda le attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati, là dove, infine, il motivo del trasferimento ben può consistere nell’intento di superare uno stato di difficoltà economica (cfr., Cass. 8.6.2009 n. 13171).
La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione anche del dictum giurisprudenziale, che – dopo avere ribadito che per “ramo d’azienda”, come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione d’azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità – ha anche precisato che (come affermato anche dalla Corte di Giustizia, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00 Temco) tale trasferimento deve consentire l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obbiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trapasso di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima e dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 cod. civ., che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, comportando la sola sostituzione di uno sei soggetti contraenti e necessitando, per la sua ; efficacia, del consenso del lavoratore ceduto (cfr. Cass. 17 marzo 2009 n. 6452).
Né può ritenersi fondata la critica con la quale è stata censurata la motivazione per relationem adottata nella pronunzia impugnata, atteso che la motivazione di una sentenza “per relationem” ad altra sentenza è legittima quando il giudice, riportando il contenuto della decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria con autonoma e critica valutazione, come avvenuto nella specie, ove si è dato conto dell’identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso e quello oggetto della decisione richiamata (cfr. Cass. 3.2.2003 n. 1539 e, da ultimo, Cass. 22.5.2012 n. 8053).
Va, peraltro, osservato che, quanto alla deduzione del vizio di violazione di legge, non risulta formulato idoneo quesito ai sensi di quanto prescritto dall’art. 336 bis c.p.c.
Passando ad esaminare i motivi di impugnazione del ricorso incidentale proposto dalla C. s.r.l,, quanto ai primi quattro motivi, devono richiamarsi le argomentazioni svolte in relazione ai motivi terzo, quarto, sesto e settimo del ricorso principale della I. s.p.a, per identità assoluta delle prospettazioni in essi contenute .
Il quinto motivo è infondato, in quanto i diritti discendenti dalla violazione dello ius variandi sono latamente riconducibili a “crediti”, per i quali vi è responsabilità solidale. Il demansionamento operato dalla cedente genera, invero, in capo ai lavoratori trasferiti una diritto al risarcimento che è suscettibile di essere fatto valere in via solidale nei confronti della cessionaria. Nell’ipotesi di prosecuzione del rapporto di lavoro con l’impresa subentrante, la domanda del lavoratore diretta ad ottenere il risarcimento del danno per demansionamento e al pagamento di differenze retributive è idonea ad introdurre la richiesta di applicazione dell’art. 2112 cod. civ. (e la relativa “causa petendi”) solamente se la parte, nel formulare la domanda, abbia allegato, a prescindere dall’esattezza giuridica delle espressioni utilizzate, gli elementi del trasferimento d’azienda in senso proprio (o, comunque, vicende che comportino una continuità aziendale alla stregua della giurisprudenza comunitaria) e la continuità del rapporto di lavoro, che costituisce la base della garanzia della salvaguardia della posizione del lavoratore (cfr, Cass. 27.5.2011 n. 11763).
Anche il sesto motivo è, per analogo ordine di considerazione, da disattendersi – senza considerare il profilo di novità della relativa deduzione – sulla base del rilievo che l’unico caso in cui non opera La solidarietà sancita dall’art. 2112 c.c.. è quello della cessazione del rapporto di lavoro prima della cessione. Peraltro, una soluzione diversa consentirebbe di sanare un demansionamento mediante la cessione del lavoratore. Solo per il M., il P. ed il T. erano state attribuite mansioni equivalenti e quindi la prospettata lesione della professionalità è stata correttamente esclusa dal giudice d’appello.
In parte il settimo motivo ripropone i profili di censura avanzati nel quinto motivo del ricorso I. e peraltro è sufficiente considerare che è frutto di un’opinione soggettiva l’assunto che l’espletamento dell’attività di pulizia possa essere ritenuta più leggera dì quella produttiva e quindi consona alle condizioni fisiche di ciascuno dei lavoratori, condizioni, che, come già osservato, non risultano abbiano subito al tempo della dequalificazione sostanziali significativi mutamenti. Quanto alla volontà abdicativa implicitamente ricavabile dal comportamento prolungato dei lavoratori di esecuzione delle nuove mansioni vanno richiamate le considerazioni svolte con riferimento al quinto motivo I.. Irrilevante ed inconferente, alla stregua della ricostruzione operata dalla Corte del gravame e qui condivisa, è poi il richiamo, contenuto nell’ottavo motivo, alle dichiarazioni di inidoneità o di idoneità con prescrizioni del 2006 o di epoca successiva comunque alla cessione, dovendo ritenersi che la dequalificazione imputabile alla cedente abbia effetti anche nei confronti della cessionaria, come già evidenziato.
In ordine al nono motivo del ricorso incidentale, è la stessa C. ad ammettere che il CCNL del settore pulizie prevedeva cinque livelli, di cui alcuni accoglievano esclusivamente operai specializzati, e comunque, ribadendosi quanto già detto sia in relazione agli effetti del pregresso demansionamento sia in ordine al riparto degli oneri probatori in tema di dequalificazione, correttamente è stato osservato dal giudice del gravame che non era stata offerta prova dell’ impossibilità dì spostamento in orizzontale dei lavoratori confacente al livello di inquadramento ed al contenuto professionale delle mansioni di provenienza. Infine, e con riferimento alla censura riguardante la violazione dell’art. 1227 c.c., la relativa prospettazione deve ritenersi inammissibile nella presente sede, in quanto connotata dal carattere di novità.
Le esposte argomentazioni conducono al rigetto del ricorso principale e di quelli incidentali.
La reciproca soccombenza delle parti giustifica la integrale compensazione tra le stesse delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta.
Compensa le spese del presente giudizio tra tutte le parti costituite.
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