CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 05 dicembre 2013, n. 27266
Lavoro – Dipendente pubblico – Lavoro a tempo parziale – Avvocato – Incompatibilità – Cancellazione dall’Albo dell’Ordine forense
Svolgimento del processo
M.P., pubblico dipendente a tempo parziale del Ministero dei Trasporti dal settembre 1997, in data 7-10-1997 veniva iscritto nell’albo degli avvocati di Rieti in virtù della disposizione di cui all’art. 1 comma 56 della legge 23-12-1996 n. 662, che consentiva la doppia attività.
A seguito dell’entrata in vigore della legge 25-11-2003 n. 339 di modifica della precedente, il P. manifestava la sua intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico impiego, esercitando nel contempo anche la professione di avvocato.
II COA di Rieti, ritenendo la sussistenza della incompatibilità, ordinava la cancellazione del P. dall’albo con decisione che veniva impugnata dall’interessato davanti al CNF, il quale con pronuncia del 12-10-2009 n. 92 ha rigettato il ricorso.
Avverso tale decisione il P. ha proposto un ricorso affidato a dieci motivi seguito da due successive memorie; i soggetti intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve essere esaminata l’istanza del ricorrente sollevata nella seconda memoria depositata ex art. 378 c.p.c. di sospensione del processo sino all’esito del procedimento pendente dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo a seguito del ricorso proposto dall’avvocato M.F. contro la Repubblica Italiana del 22-7-2013, incentrato sulla violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale del 20-3-1952 anche in congiunzione con l’art. 14 della convenzione CEDU, dell’art. 6 della convenzione CEDU anche in congiunzione con l’art. 13 della convenzione CEDU, e dell’art. 7 della stessa convenzione CEDU anche ad opera della sentenza delle S.U. di questa Corte del 16-5-2013 n. 11833 resa su questione analoga a quella oggetto della presente causa; il ricorrente ritiene opportuno procedere alla discussione congiunta delle cause già riunite con ordinanza n. 24689/2010 di questa Corte successivamente alla decisione della Corte di Strasburgo sul suddetto ricorso; in caso contrario la decisione emessa dalla CEDU potrebbe giovare ingiustamente solo ad alcuni dei ricorrenti di cui alla sopra richiamata ordinanza, e non all’avvocato P.
Tale istanza deve essere disattesa; invero gli effetti della decisione della CEDU sul richiamato ricorso dell’avvocato F. non potranno produrre alcun effetto diretto sull’esito del presente ricorso, e d’altra parte l’attuale ricorrente potrà a sua volta adire la Corte di Strasburgo, qualora riterrà di avvalersi di tale mezzo di tutela avverso la presente sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso, si rileva che con il primo motivo il ricorrente, denunciando vizio di motivazione nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 della legge n. 339/2003, osserva che la decisione del CNF, limitandosi a riportare stralci della sentenza n. 390 del 2006 della Corte Costituzionale, non ha risposto ai punti del ricorso, dando una interpretazione errata della citata legge e della menzionata sentenza; secondo il ricorrente, infatti, la citata sentenza costituzionale si è pronunciata, nel merito, solo sulla legittimità dell’art. 1 della legge n. 339 del 2003, norma che prevede l’inapplicabilità delle disposizioni dell’art. 1 commi 56, 56 “bis” e 57 della legge n. 662 del 1996, all’iscrizione agli albi degli avvocati; tale disposizione, cioè, prevede per il futuro l’impossibilità per i dipendenti pubblici a tempo parziale di svolgere contemporaneamente la professione di avvocato; la Corte Costituzionale, però, non ha affrontato nel merito – né nella sentenza citata né nell’ordinanza n. 91 del 2009 – la questione relativa alla legittimità degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 ove interpretati nel senso che imporrebbero la cancellazione anche nei confronti degli avvocati iscritti, come il ricorrente, i quali hanno esercitato per molti anni, del tutto legittimamente, entrambe le attività; l’interpretazione corretta delle norme, invero, impone, secondo il P., di ritenere che la legge del 2003 abbia voluto reintrodurre un limite all’iscrizione negli albi degli avvocati, ma non abbia introdotto anche una sopravvenuta causa di incompatibilità; la decisione del CNF è quindi errata in quanto la cancellazione di esso ricorrente non poteva essere disposta; la detta interpretazione, da definire adeguatrice, è conforme ai principi costituzionali e comunitari in tema di tutela dell’affidamento e della concorrenza.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 16 e 56 del R.D.L. n. 1578 del 1933 sostenendo che il procedimento di cancellazione per sopravvenuta incompatibilità era stato illegittimamente avviato, non essendo consentito nei confronti di soggetti per i quali persistono tutte le condizioni in base alle quali “furono iscritti all’albo nella specie i requisiti per l’iscrizione di esso ricorrente non si sono rivelati difettosi o viziati.
Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell’art. 56 del R.D.L n. 1578 del 1933 e dell’art. 112 c.p.c., assume che la decisione impugnata, nel confermare la cancellazione dell’esponente dall’albo, non ha tenuto in adeguata considerazione che, come dedotto nei motivi di ricorso avverso la decisone del COA, l’operata interpretazione delle norme in esame finisce con il creare evidenti sperequazioni, in quanto impedisce lo svolgimento della professione forense a chi ricopra un impiego pubblico anche molto modesto, mentre non sussiste analogo divieto per parlamentari e ministri.
Con il quarto motivo il P., denunciando violazione del diritto comunitario (artt. 49 e 50 del Trattato), in particolar modo in relazione ai principi di uguaglianza e di tutela dell’affidamento, sotto un primo profilo assume che la sentenza impugnata è errata in quanto il CNF avrebbe dovuto disapplicare la legge n. 339 del 2003 ritenendola in contrasto con il diritto comunitario; ove ciò non venisse riconosciuto, il ricorrente chiede che venga sollevata la questione pregiudiziale, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, per incompatibilità della citata legge con i principi del diritto comunitario; sussisterebbe infatti lesione del principio di uguaglianza per le ragioni già esposte nel terzo motivo (in quanto viene stabilito un divieto di svolgimento della professione forense non previsto per situazioni di maggiore rilevanza pubblicistica, quali l’espletamento delle funzioni di parlamentare o di ministro, dovendosi dare per pacifico che l’attività di avvocato “rientri nel concetto comunitario di servizio”) nonché la lesione del principio comunitario del rispetto dei diritti, avendo esso ricorrente legittimamente esercitato il doppio lavoro in forza della legge n. 662 del 1996, ed essendo stato poi cancellato dall’albo in base alla legge successiva; quanto alla possibilità di sollevare questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia, il ricorrente sottolinea che analoga questione è stata prospettata dal Giudice di Pace di Cortona con ordinanza del 29-8-2009 in riferimento agli artt. 3 lettera g), 4,10, 81 e 98 del Trattato.
Con il quinto motivo il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 56 del R.D.L. n. 1578 del 1933 e degli artt. 2-3-4-24-33-35-41-81-111 e 117 della Costituzione, pone una serie di questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003; dopo aver ribadito che la normativa in questione dovrebbe essere interpretata nell’unico senso conforme alla Costituzione – ossia quello di non ritenerla applicabile agli avvocati già iscritti all’albo in base alla normativa previgente – il P. rileva che, ove si ritenga il contrario, sarebbe necessario sollevare questioni di legittimità costituzionale, ponendosi la legge citata in contrasto con il principio di ragionevolezza, di tutela dell’affidamento, del diritto al lavoro, del buon andamento della P.A., della copertura finanziaria e della tutela della concorrenza.
Con il sesto motivo il P. deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 37 del R.D.L. n. 1578 del 1933 per mancata notifica al P.M. dell’atto di avvio del procedimento di cancellazione; il ricorrente osserva che la partecipazione del P.M. è garanzia della corretta applicazione della legge.
Con il settimo e con l’ottavo motivo di ricorso, che si ricollegano al quarto, vengono prospettate violazioni del diritto comunitario in riferimento agli artt. 10 e 81 del Trattato, relativi al principio della concorrenza.
Anzitutto il ricorrente chiede la disapplicazione della legge n. 339 del 2003 siccome in contrasto con il diritto comunitario con conseguente cassazione della sentenza che di tale legge ha fatto applicazione; inoltre chiede la rimessione della relativa questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia CE in riferimento ai menzionati articoli del Trattato; il P. rileva in proposito – richiamando anche alcune sentenze della Corte di Giustizia – che la legge n. 339 è in contrasto con il principio secondo cui uno Stato “non può legittimamente introdurre nel suo ordinamento interno una legge che elimina l’effetto utile della previgente regola più ampia sulla concorrenza tra gli avvocati, senza che ciò sia ragionevolmente giustificabile in base al livello di garanzia (nel diritto positivo dello Stato membro) del bene che si asserisce giustificatore della limitazione della concorrenza anche in riferimento a tale motivo il ricorrente richiama la citata ordinanza del Giudice di Pace di Cortona.
Con il nono motivo il P., denunciando violazione dell’art. 14 “bis” della legge 4-2-2005 n. 11, assume che, sulla base di detta disposizione, il CNF non avrebbe dovuto fare applicazione della legge n. 339 del 2003, posto che la norma del citato art. 14 “bis” vieta che a carico dei cittadini italiani possano trovare applicazione norme il cui effetto risulti discriminatorio rispetto alla condizione ed al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale; la legge n. 339 realizzerebbe la cosiddetta “discriminazione al contrario”, perché gli avvocati stabiliti o integrati in Italia non possono essere dipendenti pubblici, ma possono essere dipendenti di “corrispondenti istituzioni pubbliche nello Stato membro” ove hanno acquisito la qualifica professionale di avvocato; di conseguenza a questi ultimi sarebbe consentito l’esercizio della professione forense in Italia, che risulterebbe invece vietata ai dipendenti pubblici italiani.
Con il decimo motivo il ricorrente, deducendo violazione degli artt. 24 e 111 Cost. oltre che dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali, sostiene che il CNF non ha, rispetto alla vicenda oggetto della sua decisione, la natura di giudice terzo ed imparziale, poiché in argomento si era già pronunciato nella sua funzione di indirizzo e coordinamento dei vari Consigli dell’ordine territoriali sollecitando, da parte di questi, l’adozione dei provvedimenti di cancellazione; il CNF, quindi, non ha quei requisiti di terzietà ed imparzialità che anche la Corte Costituzionale ha in più occasioni ribadito essere una qualità imprescindibile di qualsiasi organo.
Innanzitutto deve rilevarsi l’infondatezza dei seguenti motivi di ricorso che rivestono carattere preliminare in quanto eventualmente assorbenti rispetto agli altri motivi riguardando l’asserita nullità delle decisioni impugnate:
1) – violazione del principio di terzietà del CNF (decimo motivo del ricorso);
2) -violazione dell’art. 37 del R.D.L. n. 1578/1933 per omessa notifica al P.M. della delibera di avvio del procedimento di cancellazione dall’albo (sesto motivo del ricorso).
Riguardo alla prima censura occorre rilevare che il Consiglio Nazionale Forense, allorché pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D. LGS. 23-11-1944 n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio Nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano – per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M. – il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all’indipendenza del giudice ed all’imparzialità dei giudizi; infatti l’indipendenza del giudice consiste nella autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza.
Pertanto è manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sul procedimento disciplinare innanzi al predetto Consiglio Nazionale Forense, non potendo incidere sulla legittimità di detta normativa neanche la circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative in quanto, come evidenziato anche dalla Corte Costituzionale, non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sott’ordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (Corte Cost. sent. n. 284 del 1986; Cass. S.U. 3-5-2005 n. 9097).
Né tali conclusioni possono essere infirmate dalla sentenza delta Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 19-9-2006 emessa nella causa C – 506/4 VVilson contro CNF Lussemburgo, che al punto 1) del dispositivo ha dichiarato: “L’art. 9 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, va interpretato nel senso che osta ad un procedimento di ricorso nel contesto del quale la decisione di diniego dell’iscrizione di cui all’art. 3 della detta direttiva deve essere contestata, in primo grado, dinanzi ad un organo composto esclusivamente di avvocati che esercitano con il titolo professionale dello Stato membro ospitante e, in appello, dinanzi ad un organo composto prevalentemente di siffatti avvocati, quando il ricorso in cassazione dinanzi al giudice supremo di tale Stato membro consente un controllo giurisdizionale solo in diritto e non in fatto”; orbene tale pronuncia, resa nell’ambito di una controversia sorta in seguito al rifiuto, da parte del Consiglio dell’Ordine degli avvocati del foro del Lussemburgo, di iscrivere un cittadino membro dell’ordine degli avvocati di Inghilterra e del Galles che esercitava la professione di avvocato nel Lussemburgo dal 1994, all’albo degli avvocati nell’elenco IV degli avvocati che esercitavano con il loro titolo professionale d’origine, è diretta a tutelare, nel contesto dell’esercizio della professione forense da parte di tutti gli avvocati della comunità europea nell’ambito dei diversi paesi della comunità stessa, il diritto di un avvocato europeo cui sia stata negata l’iscrizione all’albo degli avvocati di uno Stato membro diverso da quello di appartenenza del richiedente, ad impugnare tale diniego dinanzi ad organi non composti esclusivamente o prevalentemente da avvocati che esercitino con il titolo professionale dello Stato membro ospitante (nella fattispecie, infatti, le decisioni di diniego dell’iscrizione di un avvocato europeo adottate dal “conseil dell’ordre” – i cui membri, a norma dell’art. 16 della legge 108-1991, erano avvocati iscritti nell’elenco I dell’albo degli avvocati, ossia nell’elenco degli avvocati che esercitavano con il loro titolo professionale lussemburghese e che avevano superato l’esame di fine tirocinio – erano soggette in primo grado al controllo di un organo composto esclusivamente di avvocati iscritti nello stesso elenco, e, in appello, di un organo composto prevalentemente di tali avvocati di nazionalità lussemburghese, vedi punti 54-55 e 56 della sentenza in oggetto), posto che, in tali condizioni, il suddetto avvocato europeo avrebbe legittimi motivi di temere che, a seconda dei casi, la totalità o la maggior parte dei membri di tale organi abbiano un comune interesse contrario al suo, ossia quello di confermare una decisione che esclude dal mercato un concorrente che ha acquisito la sua qualifica professionale in un altro Stato membro, nonché di paventare il venir meno dell’equidistanza degli interessi in causa (vedi punto 57 della sentenza in oggetto); è dunque evidente che la questione decisa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea riguarda soltanto la legittimità della composizione dei suddetti organi sotto il profilo della nazionalità di appartenenza degli avvocati che ne fanno parte (nel senso che non possono essere composti soltanto da avvocati che esercitino con il titolo professionale dello Stato membro ospitante allorché debbano decidere su impugnazioni al diniego dell’iscrizione all’albo degli avvocati di quello Stato da parte di un avvocato di nazionalità diversa), e non già la questione, oggetto della presente controversia, della legittimità della composizione del CNF sotto i diversi profili sollevati dal ricorrente.
Con riferimento alla seconda censura si osserva che secondo il disposto dell’art. 37 R.D.L. n. 1578/2003 la cancellazione dagli albi degli avvocati “è pronunciata dal Consiglio dell’ordine, di ufficio e su richiesta del Pubblico Ministero” e le deliberazioni del Consiglio dell’ordine in materia di cancellazione vanno “notificate, entro quindici giorni, all’interessato ed al Pubblico Ministero presso la Corte d’appello ed il Tribunale”.
Nel citato articolo e nella normativa speciale in questione non si rinviene alcuna espressa indicazione in ordine alla notifica al P.M. dell’avvio del procedimento di cancellazione che può essere richiesto dallo stesso P.M. ove ravvisi la sussistenza di una delle ipotesi previste dalla norma in esame; al P.M. deve solo essere notificata la deliberazione adottata al termine del procedimento di cancellazione in quanto il P.M. è munito di potere autonomo di impugnazione.
Con riguardo poi a tutte le altre censure formulate dal ricorrente occorre fare riferimento al tessuto normativo che interessa le questioni sollevate, muovendo dall’art. 1, commi 56-60 della legge 23-12-1996 n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica); in particolare il comma 56 stabilisce che “Le disposizioni di cui all’articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno”.
Con la legge n. 339 del 2003 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato) il legislatore disciplina nuovamente la materia con una modifica di segno contrario rispetto a quella di cui alla sopra menzionata normativa; tale legge, che non riguarda la generalità delle professioni, ma soltanto specificatamente la professione di avvocato, prevede all’art. 1 che “Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56 bis e 57, della legge n. 662 del 1996 non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto – legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 221- 1934 n. 36, e successive modificazioni.”; il successivo art. 2 dispone che gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione sulla base della richiamata normativa del 1996 possono optare, nel termine di tre anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno (secondo comma), ed il mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego (terzo comma); in questa seconda ipotesi il dipendente pubblico part – time conserva per cinque anni i) diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno (quarto comma); inoltre l’art. 2 primo comma dispone che in caso di mancato esercizio dell’opzione tra libera professione e pubblico impiego entro il termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge stessa, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione d’ufficio dell’iscritto dal proprio albo.
A tal punto deve essere esaminato l’impatto su tale disciplina della normativa di cui al decreto legge 13-8-2011 n. 138 convertito in legge 14-9-2011 n. 148; in particolare il titolo secondo (Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo) all’art. 3 primo comma (Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche) stabilisce che Comuni, Province, Regioni e Stato entro il 30-9-2012 dovranno adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di:
a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;
b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;
c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale;
d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
e) disposizioni relative alle attività di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica.
Il quinto comma dell’art. 3 poi prevede che gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni al principio di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti; con decreto del Presidente della Repubblica emanato ai sensi dell’art. 17 secondo comma della legge 23-8-1988 n. 400 gli ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto suddetto per recepire determinati principi ivi enunciati tra i quali è opportuno richiamare quello “sub” a) secondo il quale l’accesso alla professione è libero ed il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista; la limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana, e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, in caso di esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale della società professionale.
Il comma 5 “bis” dell’art. 3 dispone poi che le norme vigenti sugli ordinamenti professionali in contrasto con i principi di cui al comma 5, lettere da a) a g), sono abrogate con effetto dalla data di entrata in vigore del regolamento governativo di cui al comma 5 e, in ogni caso, dal 13-8-2012.
Il comma 5 “ter” inoltre prevede che il Governo entro il 31-12-2012 provvederà a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5 “bis” in un testo unico da emanare ai sensi dell’art. 17 “bis” della legge 23-8-1988 n. 400.
Successivamente è stato emanato il D. P. R. 7-8-2012 n. 137 (Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali a norma dell’articolo 3 comma 5 del decreto legge 13-8-2011 n. 138 convertito con modificazioni dalla legge 14-9-2011 n. 148) il cui articolo 2 (Accesso ed esercizio dell’attività professionale) prevede:
“1. Ferma la disciplina dell’esame di Stato, quale prevista in attuazione dei principi di cui all’articolo 33 della Costituzione, e salvo quanto previsto dal presente articolo, l’accesso alle professioni regolamentate è libero. Sono vietate limitazioni alle iscrizioni agli albi professionali che non sono fondate su espresse previsioni inerenti al possesso o al riconoscimento dei titoli previsti dalla legge per la qualifica e l’esercizio professionale, ovvero alla mancanza di condanne penali o disciplinari irrevocabili o ad altri motivi imperativi di interesse generale.
2. L’esercizio della professione è libero e fondato sull’autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico. La formazione di albi speciali, legittimanti specifici esercizi dell’attività professionale, fondati su specializzazioni ovvero titoli o esami ulteriori, è ammessa solo su previsione espressa di legge.
3. Non sono ammesse limitazioni, in qualsiasi forma, anche attraverso previsioni deontologiche, del numero di persone titolate a esercitare la professione, con attività anche abituale e prevalente, su tutto o parte del territorio dello Stato, salve deroghe espresse fondate su ragioni di pubblico interesse, quale la tutela della salute. E’ fatta salva l’applicazione delle disposizioni sull’esercizio delle funzioni notarili.
4. Sono in ogni caso vietate limitazioni discriminatorie, anche indirette, all’accesso e all’esercizio della professione, fondate sulla nazionalità del professionista o sulla sede legale dell’associazione professionale o della società tra professionisti”.
Il successivo art. 12, dopo aver previsto al primo comma che le disposizioni di cui al decreto si applicano dal giorno successivo alla data di entrata in vigore dello stesso, al secondo comma sancisce che “Sono abrogate tutte le disposizioni regolamentari e legislative incompatibili con le previsioni di cui al presente decreto, fermo quanto previsto dall’art. 3, comma 5 – bis, del decreto – legge 13-8-2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14-9-2011, n. 148, e successive modificazioni, e fatto salvo quanto previsto da disposizioni attuative di direttive di settore emanate dall’Unione europea”.
Si rileva poi che non risulta essere stato finora emanato il testo unico previsto dall’ art. 3 comma 5 “ter” del sopra richiamato Decreto Legge 13 8-2011 n. 138 convertito in Legge 14-9-2011 n. 148.
Tanto premesso, occorre accertare se per effetto di tale normativa, costituente “jus superveniens” nella presente controversia dopo la proposizione del ricorso per cassazione, sia intervenuta una abrogazione tacita della legge n. 339/2003 quanto alla incompatibilità ivi sancita tra l’esercizio della professione di avvocato e l’impiego pubblico part-time.
In tale prospettiva, in particolare, con riferimento all’art. 2 comma 3 del D.P.R. n. 137/2012, laddove si prevede che non sono ammesse limitazioni all’esercizio delle libere professioni “con attività anche abituale e prevalente”, potrebbe porsi il quesito se tale disposizione, sancendo l’ammissibilità di esercitare anche la professione di avvocato in misura non abituale o prevalente, possa incidere sulla normativa di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003.
Nello stessa prospettiva è legittimo chiedersi se l’esigenza di scongiurare il rischio di compromissione dell’indipendenza dell’avvocato che sia anche dipendente pubblico part – time possa o meno configurarsi quale “motivo imperativo di interesse generale” (art. 2 n. 1 D.P.R. n. 137/2012) tale da giustificare la permanenza della suddetta incompatibilità.
Ancora potrebbe dubitarsi se una abrogazione tacita delle disposizioni sopra richiamate della legge n. 339/2003 non sia comunque sopravvenuta alla data del 13-8-2012 per contrasto con l’art. 3 comma 5 “bis” del Decreto Legge n. 138/2011 che ha introdotto un principio di generale liberalizzazione dei servizi professionali.
Il Collegio ritiene di dover escludere una abrogazione tacita delle disposizioni della legge n. 339/2003 per effetto della normativa sopravvenuta e sopra richiamata per il rilievo decisivo ed assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part – time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente; la legge n. 339/2003 è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni; pertanto tale “ratio”, tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti, esclude che con la normativa in oggetto si sia inteso introdurre dei limiti all’esercizio della professione forense o comunque delle modalità restrittive della organizzazione di tale attività.
Al riguardo giova anche richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390 che, investita delle questioni di legittimità della nuova normativa (sostanzialmente ripristinatoria del divieto di esercizio della professione forense a carico dei dipendenti pubblici ancorché part – time), ha ritenuto non manifestamente irragionevole tale opzione legislativa, non potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione, da parte del legislatore, di maggiore pericolosità e frequenza dei possibili inconvenienti derivanti dalla commistione tra pubblico impiego e libera professione quando detta commistione riguardi la professione forense; in proposito la Corte Costituzionale alla luce dell’art. 3 Cost. ha rilevato che il divieto ripristinato dalla legge n. 339/2003 è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario” (art. 3 del R. D. L. 27-11-1933 n. 1578 recante Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).
Pertanto deve escludersi che la disciplina introdotta dalla legge n. 339/2003, sancendo l’incompatibilità tra impiego pubblico ed una professione avente una natura ed una funzione peculiari quale quella forense, possa essere stata abrogata per effetto delle sopra richiamate norme sopravvenute, che introducono i principi ispiratori delle attività economiche private (Decreto Legge 13-8-2011 n. 138 convertito in Legge 14-9-2011 n. 148) e delle attività professionali regolamentate il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o collegi subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento delle specifiche professionalità (D. P. R. 7-8-2012 n. 137); invero l’incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle precedenti si verifica solo quando tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impassibile la contemporanea applicazione, cosicché dalla applicazione ed osservanza della nuova legge non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (Cass. 21-2-2001 n. 2502; Cass. 1-10-2002 n. 14129), ipotesi non ricorrente nella specie alla luce delle argomentazioni sopra svolte.
Deve inoltre aggiungersi che la successiva legge 31-12-2012 n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), ancorché non suscettibile di efficacia immediata (invero l’art. 1 terzo comma prevede che “All’attuazione della presente legge si provvede mediante regolamenti adottati con decreto del Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto, n. 400, entro due anni dalla data della sua entrata in vigore…”), conferma l’operatività delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra impiego pubblico e professione forense; infatti, considerato che l’art. 65 (Disposizioni transitorie) primo comma sancisce che “Fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti nella presente legge, si applicano se necessario e in quanto compatibili le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate”, e che l’art. 18 lettera d) prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato anche “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”, ne consegue logicamente che non sono stati certamente abrogati dalla legge in esame gli artt. 3 del R.D.L. 27-11-1933 n. 1578 ed 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, che anzi sono riconducibili agli stessi principi informatori di cui all’art. 18 citato.
Infine è appena il caso di aggiungere l’irrilevanza ai fini del decidere della molteplice normativa richiamata dal ricorrente nella seconda memoria, che invero non presenta nessun motivo di incompatibilità con la legge 25-11-2003 n. 339, trattandosi di discipline legislative che non riguardano la professione forense e tantomeno regolano la specifica questione della commistione tra quest’ultima ed il pubblico impiego.
Tanto premesso sulla vigenza della L. n. 339/2003, si osserva che tutte le censure sollevate dai ricorrenti riguardano da un lato i dubbi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge suddetta con riferimento in particolare ai principi di uguaglianza, affidamento, libera prestazione di servizi, ragionevolezza, sicurezza giuridica, e dall’altro la prospettata incompatibilità tra detta disciplina ed i principi del diritto comunitario in materia di tutela della concorrenza e della libertà di stabilimento.
Sotto il primo profilo occorre richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 che, a seguito di due ordinanze di identico contenuto di questa Corte, Sezioni Unite Civili, del 6-6-2010, che avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale, sia in relazione agli articoli 3-4-35 e 41 Cost., sia in riferimento al parametro della ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3 secondo comma Cost., degli articoli 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, ha dichiarato non fondate tali questioni.
Tale sentenza ha esaminato preliminarmente la questione sollevata da alcune parti private secondo la quale l’art. 2 della legge n. 339 del 2003 non avrebbe dovuto essere applicato in quanto, diversamente dagli avvocati italiani, i legali “stabiliti”o “integrati”, pur non potendo lavorare in Italia, neppure part – time, alle dipendenze ovvero in veste di titolari d’impiego o ufficio retribuito a carico dello Stato italiano perché tenuti a rispettare l’art. 3 del R.D.L. 27-11- 1933 n. 1578, potrebbero nondimeno rimanere dipendenti delle corrispondenti istituzioni pubbliche dello Stato membro di acquisizione della qualifica professionale; in tal modo si verificherebbe una discriminazione “al contrario” in tema di incompatibilità non più ammissibile nei confronti degli avvocati italiani ai sensi dell’art. 14 bis della legge 4-2-2005 n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari).
In proposito la suddetta sentenza ha richiamato la già menzionata precedente pronuncia della stessa Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390, che ha ritenuto che la normativa nazionale di recepimento della direttiva intesa ad agevolare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello di acquisizione della qualifica professionale prevede espressamente che tutte le norme sulle incompatibilità si applicano anche all’avvocato “stabilitolo “integrato”, ivi comprese, riguardo ai contratti di lavoro con enti corrispondenti nello Stato di origine, le eccezioni di cui all’art. 3 quarto comma del R.D.L. n. 1578 del 1933 (art. 5 secondo comma del D. LGS. 2-2-2001 n. 96 recante “Attuazione della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale”); la sentenza in oggetto ha poi evidenziato che tale soluzione era inevitabile, atteso che la disciplina delle incompatibilità in tema di ordinamento professionale forense – secondo il diritto vivente che ne risulta dalla giurisprudenza di legittimità – deve essere interpretata con estremo rigore, in coerenza con la “ratio” di garantire l’autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale.
Del resto anche la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea con sentenza del 2-12-2010 ha escluso che la legge n. 339/2003 si applichi esclusivamente agli avvocati di origine italiana e produca in tal modo una discriminazione alla rovescia.
La sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 ha poi escluso una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata, osservando che il significato letterale e sistematico della novella non consente altra ricostruzione esegetica che quella – coerente con il reintrodotto divieto di svolgimento contemporaneo delle due attività – dell’imposizione di una scelta per l’una o per l’altra, da esprimere entro un determinato periodo, a quanti si fossero trovati nella condizione, ora non più consentita, di pubblici dipendenti part-time e di avvocati; in effetti il dato normativo è assolutamente chiaro nel prescrivere l’esercizio di un’opzione tra l’esercizio esclusivo della professione forense e la prestazione di lavoro pubblico a tempo pieno a tutti coloro i quali avessero ottenuto nella posizione di dipendenti pubblici part – time l’iscrizione all’albo degli avvocati, con il beneficio di una fase di transizione per una migliore ponderazione della scelta definitiva.
Tanto premesso, la sentenza in esame ha rilevato che già la precedente sentenza del 25-11-2006 n. 390 aveva dato risposta negativa ai dubbi di legittimità costituzionale della normativa in oggetto riguardo agli artt. 4 e 35 Cost., ritenendo che essi, nel garantire il diritto ai lavoro, ne rimettono l’attuazione, quanto ai tempi ed ai modi, alla discrezionalità del legislatore, che nella specie non aveva esercitato malamente il suo potere; anche in relazione all’asserito contrasto con l’art. 41 Cost., era stato escluso che i dipendenti pubblici svolgessero servizi configuranti una attività economica, cosicché la loro attività non poteva essere considerata come quella di un’impresa.; pertanto la legge n. 339 del 2003 incide non tanto sulle modalità di organizzazione della professione forense in termini rispettosi dei principi di concorrenza, quanto sul modo di svolgere il servizio presso enti pubblici, ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di imparzialità e buon andamento, oltre che ad un corretto esercizio della professione legale.
La Corte Costituzionale ha poi escluso una lesione da parte della disciplina in esame dell’affidamento in riferimento all’art. 3 Cost., per quanto riguardava i dipendenti pubblici part – time i quali, sulla base delle regole “permissive” del 1996, avevano affiancato al rapporto di lavoro pubblico l’impegno professionale forense; invero in base alla giurisprudenza della stessa Corte il valore del legittimo affidamento trova copertura costituzionale in tale articolo non in termini assoluti ed inderogabili, non essendo interdetta al legislatore l’emanazione di disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, unica condizione essendo che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale.
Orbene la disciplina in esame, avendo concesso ai dipendenti pubblici part – time già iscritti all’albo degli avvocati un primo periodo di durata triennale onde esercitare l’opzione per l’uno o per l’altro percorso professionale e poi, ancora, un altro di durata quinquennale – in caso di espressa scelta in prima battuta della professione forense – ai fini dell’eventuale richiesta di rientro in servizio, soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003; pertanto la Corte Costituzionale ha concluso che tale disciplina, lungi dal tradursi in un regolamento irrazionale lesivo dell’affidamento maturato dai titolari di situazioni sostanziali legittimamente sorte sotto l’impero della normativa previgente, era assolutamente adeguata a contemperare la doverosa applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’avvenire (con effetto altresì sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale, già ammessi dalle legge dell’epoca all’esercizio della professione legale;
diversamente opinando, infatti, si otterrebbe il risultato, certamente irragionevole, di conservare ad esaurimento una riserva di lavoratori pubblici part – time, contemporaneamente avvocati, all’interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona; è quindi appena il caso di evidenziare, alla luce di tali rilievi riguardanti la legittimità costituzionale della legge n. 339 del 2003, l’irrilevanza delle sentenze della Corte Costituzionale richiamate dal ricorrente nella seconda memoria, in particolare della sentenza del 29-5-2013 n. 103 (che anzi ha ribadito che il divieto di retroattività della legge previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost., e che il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare norme retroattive, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle liberta fondamentali); nella fattispecie, infatti, la sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 sopra richiamata ha affermato la legittimità costituzionale della legge n. 339 del 2003 nell’incidere sui rapporti di durata in corso da essa disciplinati, dunque per l’avvenire, proprio per evitare una irragionevole disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici part -time già iscritti all’albo degli avvocati ai sensi dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996 e quelli non ancora iscritti all’epoca di entrata in vigore della legge n. 339 del 2003.
Con riferimento poi al prospettato contrasto della normativa in oggetto con i principi comunitari, è anzitutto opportuno rilevare che la legge in esame ha inciso sulle modalità di svolgimento del servizio presso enti pubblici e non sul modo di organizzazione della professione forense, con conseguente estraneità dei principi di concorrenza tra imprese al tema della libera circolazione degli avvocati nell’Unione Europea; i dipendenti pubblici, d’altra parte, non svolgono servizi configurabili come una attività economica, e la loro attività non può essere considerata come quella di una impresa.
In ogni caso gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’inevitabile conseguenza della prioritaria esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di avvocato, quali i principi di indipendenza e di integrità.
E’ comunque decisivo rilevare che, a seguito di ordinanza del Giudice di Pace di Cortona del 19-6-2009, che aveva rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto della legge n. 339 del 2003 (nella parte in cui reintroduce il divieto di svolgimento della professione forense per i pubblici dipendenti part – time) con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, legittimo affidamento e protezione dei diritti quesiti alla luce delle direttive 77/249/CE e 98/5/CE, la suddetta Corte di Giustizia dell’Unione europea con la già richiamata sentenza del 2-12-2010 ha ritenuto che gli artt. 3 n. 1 lett. g) CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli avvocati.
In definitiva il ricorso deve essere rigettato; non occorre procedere ad alcuna statuizione in ordine alle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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