CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 dicembre 2013, n. 27996
Professionisti – Avvocato e procuratore – Procedimento disciplinare per aver violato i doveri di dignità e decoro – Propaganda – Agevolazione dei colleghi non abilitati – Punibilità – Sussiste
massima
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Censurato l’avvocato che invia mediante posta elettronica a migliaia di colleghi, circa 20mila, la proposta di far sottoscrivere dal proprio studio i ricorsi in Cassazione predisposti da giovani legali non abilitati, e dunque privi del prescritto jus postulandi
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Svolgimento del processo
A seguito di varie segnalazioni di avvocati ed ordini professionali forensi il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano sottopose a procedimento disciplinare il proprio iscritto, avvocato, A.C., abilitato al patrocinio in Cassazione, per “essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza.per avere trasmesso a mezzo posta elettronica ad un numero imprecisato di colleghi … prossimo a 20.000 …” , un comunicazione,con la quale proponeva una convenzione annuale dal costo di € 1500,00 oltre I.VA.,con la quale gli interessati avrebbero potuto ottenere,da uno dei legali dello studio del proponente,la rappresentanza “per una volta avanti all’Ecc. ma Corte di Cassazione in Roma e per una volta presso il Tribunale di Torino, Milano o Roma. I giovani avvocati non abilitati avanti la Suprema Corte potranno inoltre richiedere allo Studio la sottoscrizione dei motivi di ricorso per Cassazione da loro stessi predisposti”.
All’esito dell’istruttoria, nel corso della quale l’incolpato, in relazione all’addebito relativo alle prospettate modalità di proposizione dei ricorsi per cassazione, si era difeso, presentando anche memorie, sostenendo che sul punto il riportato contenuto dell’annuncio fosse frutto di equivoco, in cui era incorsa la società incaricata per la relativa diramazione, con provvedimento del 13 ottobre 2008 il COA di Milano,ravvisata la sussistenza della grave trasgressione disciplinare consistita nell’aver proposto la sottoscrizione di ricorsi di legittimità predisposti da soggetti non muniti del relativo jus postulandi e, tenuto conto delle attenuanti “scuse ” presentate dall’avv. C. e della circostanza che la proposta non aveva avuto alcun seguito, gli irrogò la sanzione della censura.
All’esito dell’impugnazione dell’avv. C., cui non aveva resistito il COA milanese,con sentenza del 26.4-29.11.2012 il Consiglio Nazionale Forense rigettava il ricorso.
Con riferimento al motivo deducente la violazione del principio di corrispondenza tra la capo d’incolpazione del violato dovere di probità rendesse irrilevante la mancata indicazione del relativo articolo 5 (oltre al 6, relativo al dovere di correttezza).
Analogamente priva di rilevanza era la censura deducente la mancata indicazione nel capo dell’art. 21 (relativo al divieto di agevolare in modo diretto o indiretto l’esercizio della professione ai non abilitati), ritenuto violato in motivazione, considerato che la relativa inosservanza era desumbile chiaramente dai fatti enunciati nell’addebito.
Escludeva, ancora, il giudice disciplinare che si fosse addebitato all’incolpato una mera, non attuata, intenzione, considerato che era l’offerta in sé a comportare la consapevole violazione dei doveri deontologici in questione.
In punto di fatto, il CNF concordava con il COA sull’inequivoca chiarezza testuale della censurata propostala cui attuazione si sarebbe tradotta nell’aggiramento,mediante il solo conferimento di procura all’incolpato, dei limiti relativi all’esercizio della professione di legali non abilitati al patrocinio di legittimità.
Anche la scelta della sanzione veniva ritenuta adeguata,avendo tenuto adeguato conto,da un lato, della gravità della “molteplice violazione dei doveri di correttezza e probità e della ulteriori regole deontologiche..”, dall’altro del mancato seguito alla proposta e del successivo comportamento dell’incolpato.
Avverso tale sentenza l’avv. C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. Non ha resistito l’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso vengono dedotte “illegittimità della decisione-Violazione di legge anche sotto il profilo della motivazione su fatto decisivo della controversia Art. 360 numero 2 e 5 c.p.c.,in relazione agli artt. 5, 6, 21 Codice deontologico ed all’art. 36, co 6, L. 31.12.2012 n. 247 (ordinamento professionale forense)
1.1 Dopo una premessa normativa, con riferimento al contenuto degli artt. 5, 6 e 21 del codice deontologico forense, si sostiene che la violazione dei doveri di lealtà e correttezza e del divieto di agevolazione dello svolgimento di attività professionale da parte di soggetti non abilitati ricorrerebbe esclusivamente nei casi in cui la condotta si concreti nel compimento di atti processuali. Non essendosi ciò verificato nel caso di specie, in cui non vi era stata la sottoscrizione di alcun motivo di ricorso, conseguente all’eventuale rilascio di procura speciale,l’odierno ricorrente sarebbe stato illegittimamente sanzionato per un fatto non rilevante sotto il profilo disciplinare,in quanto costituente al più un mero tentativo di un illecito, che la norma sanzionerebbe solo in ipotesi di “consumazione del fatto”.
Le censure sono prive di fondamento,alla luce della costante giurisprudenza di queste S.U. (v., in particolare, sent. nn. 1904/2002, 10601/2005, 37/2007, 23020/2011), secondo cui il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità e decoro (art. 5 Codice Deontologico Forense), lealtà e correttezza (art. 6 cod. cit.), ai quali l’avvocato deve improntare la propria attività, sia professionale, sia non professionale (v.,a tal riguardo l’art. 5 II), la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare.
In particolare, con la citata sentenza n. 10601 del 2005 è stato precisato che anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto, in quanto lesivo dell’immagine dell’avvocato, costituisce di per sé una scorrettezza, come tale disciplinarmente rilevante.
Nel caso di specie,dunque,correttamente il C.N.F.,sulla scorta di un incensurabile apprezzamento dei fatti accertati e di adeguata valutazione degli stessi,alla stregua dei citati doveri di probità e correttezza professionale, ha confermato l’illiceità della condotta posta in essere dall’avvocato C. che, sebbene non pervenuta alla “consumazione”, nel senso preteso dal ricorrente secondo un’improponibile accezione penalistica (richiedente la verificazione di un “evento”), è stata ritenuta chiaramente finalizzata a realizzare un comportamento espressamente vietato dal citato codice deontologico, all’art. 21 n. II, configurante l’illiceità disciplinare del “comportamento dell’avvocato che agevoli, o, in qualsiasi altro modo diretto o indiretto, renda possibile a soggetti non abilitati o sospesi l’esercizio della professione.
1.2. Sotto diverso profilo,si lamenta l’inadeguata valutazione della parola “predisposti” contenuta nella propostaci cui significato non sarebbe univocamente comprensivo della, redazione finale dell’atto, bensì limitato alla stesura di una bozza,finalizzata alla definizione del ricorso, che l’avvocato abilitato,espressamente incaricato dalla parte, avrebbe poi trasfuso nei motivi.
La doglianza è palesemente inammissibile, non solo per la chiara attinenza ad un’attività riservata al giudice del merito, quella della valutazione delle risultanze documentali, nelle quali peraltro il COA ed il CNF si sono attenuti, in cospetto di un atto dall’inequivoco tenore letterale, al principio in claris non fit interpretatio, ma anche perché introduce una censura nuova, che non trova riscontro nella linea difensiva “dell’incolpato, che aveva, inizialmente dedotto, senza fornire alcun elemento di riscontro,la tesi di uni erronea formulazione del testo dell’offerta da parte della società incaricata della relativa diramazione per via informatica.
2. Con il secondo motivo il ricorrente, in subordine, deduce “violazione di legge- art. 360 n.2 c.p.c. in relazione all’art. 36, co 6, L.31.12.2012 n. 247 (Ordinamento della professione forense), dolendosi della ritenuta severità trattamento sanzionatorio,che avrebbe dovuto essere limitato a quello minimo dell’ammonimento, tenuto conto che si era trattato di un trasgressione rimasta allo stato di mera inattuata intenzione.
Il motivo è inammissibile, deducendo una censura in fatto relativa all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, in un contesto normativo non prevedente la corrispondenza delle varie sanzioni disciplinari alla tipologia delle violazioni, lasciando così la relativa scelta all’organo disciplinare e demandando al giudice speciale il successivo controllo, con il solo limite, implicito alla natura giurisdizionale di siffatta verifica, di fornire un’adeguata motivazione.
A tale compito, nella specie, non si è sottratto il CNF, laddove, come si è accennato in narrativa, ha, da una parte considerato l’evidente notevole gravità, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo, dell’iniziativa, di vaste proporzioni ed assurta ad eclatante notorietà negli ambienti professionali forensi, tendente all’aggiramento delle rigorose norme regolanti lo ius postulandi presso le giurisdizioni superiori, dall’altra la circostanze che la proposta non aveva trovato concrete adesioni esitate in atti giudiziari e del pentimento manifestato dal professionista,che si era “scusato dell’accaduto”.
Tale, palesemente equilibrata valutazione, in quanto indenne da lacune argomentative o vizi logici, risulta dunque esente da ogni censura nella presente sede di legittimità.
3. Il ricorso va, conclusivamente, respinto.
4. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, non avendo il COA di Milano resistito all’impugnazione; né si applica l’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, essendo il processo esente dal contributo unificato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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