Corte di Cassazione sentenza n. 2865 del 24 febbraio 2012
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – RAPPORTO DI LAVORO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – RINNOVAZIONE LICENZIAMENTO – AMMISSIBILITA’ – FONDAMENTO – CONSEGUENZE
massima
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In tema di rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente.
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FATTO E DIRITTO
M.I.B. chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’appello dell’Aquila, pubblicata il 25 giugno 2007, emessa nella controversia proposta nei confronti della M.T. srl ed avente per oggetto l’impugnativa di due licenziamenti.
Il M.I.B., dipendente della società convenuta, veniva licenziato con lettera del 26 ottobre 1999 per motivi disciplinari. Impugnava in via cautelare il recesso. Il giudice monocratico rigettava il ricorso, ma il Tribunale, in sede di reclamo, lo accoglieva e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro.
Il lavoratore veniva nuovamente licenziato, per altre ragioni, sempre di natura disciplinare, con missiva dell’8 febbraio 2000. Impugnava anche il secondo licenziamento.
Il M.I.B. iniziava il giudizio ordinario dinanzi al Tribunale di Avezzano per entrambi i licenziamenti. Veniva riunito anche un distinto procedimento instaurato sempre dal M.I.B. nei confronti della società per un risarcimento danni in misura di 7 miliardi di lire determinati dal comportamento illecito della M.T.
Il Tribunale accoglieva in parte la sua domanda. Dichiarava l’illegittimità del licenziamento disciplinare del 26 ottobre 1999 e del secondo recesso condizionato del 18 aprile 2000. Ordinava la reintegrazione e condannava la società alla corresponsione della retribuzione globale di fatto ai sensi dell’art. 18 della legge 300 del 1970. Rigettava invece la domanda di risarcimento danni.
La società proponeva appello.
Il M.I.B. proponeva appello incidentale.
La Corte d’appello dell’Aquila accogliendo, in parte, l’appello principale della società, dopo aver confermato la declaratoria di illegittimità del primo licenziamento, ha condannato la società a corrispondere al M.I.B. una somma pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto con riferimento a tale licenziamento.
Ha, invece, dichiarato le legittimità del secondo licenziamento ed ha rigettato l’appello incidentale del lavoratore contro la decisione di rigetto della domanda di risarcimento danni.
Il M.I.B. ricorre per cassazione articolando quattro motivi.
La società si difende con controricorso e propone ricorso incidentale, articolato in un unico motivo.
Il ricorrente ha depositato controricorso nei confronti del ricorso incidentale.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Il primo motivo critica la sentenza della Corte nella parte in cui ha ritenuto legittimo il secondo licenziamento muovendo censure consistenti esclusivamente in vizi di motivazione.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto illegittimo tale licenziamento assumendo che la società non avesse assolto l’onere di provare i fatti posti a base della contestazione disciplinare. La Corte ha invece ritenuto che tali fatti siano stati provati. La società aveva contestato al M.I.B. che “nell’esaminare i tabulati predisposti per l’addebito dei costi sostenuti per i collegamenti con la rete computerizzata interna, ed in particolare per quelli effettuati dall’esterno attraverso un numero verde a spese dell’azienda, abbiamo avuto modo di accertare che, a decorrere dal periodo immediatamente successivo al suo licenziamento e secondo quanto risulta dai tabulati della T., vi sono state numerose connessioni effettuate utilizzando il numero verde (e quindi addebitando il costo alla società) attraverso un’utenza telefonica appartenente al distretto di Milano, intestata al nome di sua moglie e collocata nel suo domicilio. Tali connessioni sono state effettuate utilizzando l’identificativo “mM.”, nonché la password personale del sig. M.M. Ciò è accaduto nei giorni …”.
La società ha proceduto anche al licenziamento del M.M. per aver fornito la sua password personale al M.I.B., licenziamento la cui legittimità sarà confermata in tutti i gradi del giudizio sino alla Cassazione ed ha sporto denunzia penale, da cui è scaturito un processo penale conclusosi con la condanna del M.I.B.
La Corte d’appello ha ritenuto che la società abbia fornito la prova dei fatti oggetto della contestazione, anche a prescindere dall’esito del processo civile nei confronti del M.M. e del processo penale nei confronti del M.I.B.
Ha compiutamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto pienamente provato tali fatti, specificandole in quattro punti esaminati alle pagg. 6 e 7 della sentenza ed ha poi spiegato perché tali fatti devono essere considerati di gravità tale da giustificare il licenziamento a pag. 7 e 8 della sentenza.
Il M.I.B. con il primo motivo di ricorso assume che tale motivazione sarebbe viziata in quattro punti. La motivazione sarebbe omessa ed insufficiente laddove ha ritenuto provato che i collegamenti esterni con l’identificativo mM. erano stati effettuati utilizzando il numero verde dell’azienda da un’utenza telefonica di Milano, intestata alla moglie del M.I.B. (primo punto) e che la M.T. aveva sostenuto i costi delle telefonate illegittimamente effettuate (secondo punto).
La motivazione sarebbe invece manifestamente illogica laddove la Corte ha affermato che le connessioni abusive erano state effettuate proprio dall’abitazione di Presso del ricorrente, peraltro in orari in cui quest’ultimo risultava collegato ad internet (terzo punto) e laddove la Corte aveva erroneamente affermato che le telefonate con l’identificativo del M.I.B. erano state effettuate sino a ridosso del primo licenziamento irrogato con lettera del 26 ottobre 1999, mentre invece l’ultima telefonata con l’inserzione della password mB. risaliva al 27 settembre 1999.
Le prime due censure sono in sé contraddittorie perché non può affermarsi che la motivazione sul punto manchi e che sia, al tempo stesso, insufficiente.
L’ultima attiene ad un punto che non risulta in realtà smentito (perché il 27 settembre 1999 è data comunque qualificabile come prossima al licenziamento), ma di cui non si dimostra la decisività.
Tutte le censure, comunque, non individuano mancanza totale, o insufficienze o, tanto meno, contraddizioni nella motivazione, ma si risolvono in un diverso giudizio sulla idoneità del quadro probatorio acquisito a dimostrare la sussistenza dei fatti contestati al M.I.B. Quella che si chiede alla Corte di cassazione è quindi una terza valutazione di merito.
Si assume poi che la sentenza sarebbe contraddittoria perché premette che quei fatti risultano provati alla stregua del quadro acquisito al processo, senza dover ricorrere a quanto accertato nel processo civile relativo al licenziamento del M.M. ed al processo penale a carico del M.I.B., ma poi fa riferimento a tali processi.
La censura non è fondata perché la Corte distingue nettamente. Prima spiega perché il quadro probatorio è comunque completo, poi sottolinea che l’esito di tali processi si aggiunge, confermandole, alle conclusioni così autonomamente raggiunte. Indicando una coerenza complessiva degli esiti processuali ai quali ciascun giudice di merito è autonomamente pervenuto.
Con il secondo motivo si denunzia violazione dell’art. 23 CCNL e dell’art. 2 della legge 604 del 1966 per aver la Corte d’appello di L’Aquila erroneamente affermato che il licenziamento non è un atto recettizio, quindi, che il termine previsto dal citato art. 23 si interrompe quando il provvedimento disciplinare viene comminato e non quando viene comunicato.
Il motivo è inammissibile perché, in violazione del criterio di autosufficienza, non si riporta il testo della previsione del contratto collettivo che si assume violata ed è improcedibile perché non è stato prodotto il testo integrale del ceni sul quale il motivo si basa, in violazione all’art. 369, n. 4 c.p.c.
Con il terzo motivo si denunzia violazione dell’art. 14 dell’accordo interconfederale del 19 aprile 1966 per non aver la Corte dichiarato illegittimo il licenziamento intimato con lettera inviata il 6 marzo 2000, anche se il datore di lavoro non aveva richiesto il nulla osta imposto da tale disposizione.
Anche questo motivo è inammissibile perché, in violazione del criterio di autosufficienza, non si riporta il testo della previsione del contratto collettivo che si assume violata ed è improcedibile perché non è stato prodotto il testo integrale del ceni sul quale il motivo si basa, in violazione all’art. 369, n. 4 c.p.c. Con il quarto motivo si denunzia violazione dell’art. 18 della legge 300 del 1970 per avere la Corte ritenuto legittimo il licenziamento intimato il 6 marzo 2000 anche se a quell’epoca il M.I.B. non era più dipendente della società per essere stato da quest’ultima licenziato.
Il quesito formulato è il seguente: se le disposizioni dell’art. 18 st. lav. non implichino che il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, sia un negozio annullabile e, pertanto, produca i suoi effetti (cessazione del rapporto) sino a quando non interviene una sentenza che lo annulli e, di conseguenza, se un secondo licenziamento, intimato al lavoratore prima della sentenza con cui viene accolta l’impugnazione del primo licenziamento debba considerarsi nullo ed inefficace.
Il collegio ritiene che al quesito debba essere data risposta positiva ribadendo nel caso in esame l’orientamento per cui “il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente” (da ultimo, cfr. Cass. 20 gennaio 2011, n. 1244, cui si rinvia anche per il richiamo dei precedenti).
Con l’unico motivo di ricorso incidentale la società denunzia violazione dell’art. 7 della legge 300 del 1978 e vizio di insufficiente motivazione.
Il ricorso è nei confronti della parte della sentenza che ha confermato il giudizio di illegittimità del primo licenziamento.
Il quesito di diritto è: se l’art. 7 cit. colpisca o meno con l’inefficacia la sanzione disciplinare anche nel caso in cui il rappresentante del datore di lavoro in seno al collegio si dimetta dopo essere stato designato e dopo che il collegio si sia regolarmente insediato.
Il vizio di motivazione concernerebbe un fatto decisivo per il giudizio così specificato nel ricorso: un fatto “consistente in ciò che è stato ritenuto non legittimo il licenziamento del 26 ottobre 1999 per la insufficienza delle sanzioni che avrebbero giustificato la irrogazione”.
Quello indicato però non è un fatto ma una valutazione operata dalla Corte. Si è in presenza pertanto di un giudizio di merito che rimane sottratto alla valutazione del giudice di legittimità, se non vengono denunziati specifici errori logici nella motivazione.
La censura di violazione di legge, peraltro, ha un rilievo molto circoscritto.
Il Tribunale ha ritenuto il licenziamento illegittimo. La società ha appellato tale motivazione. La Corte ha convenuto con il Tribunale sulla non adeguatezza di una sanzione così grave ai fatti oggetto di una serie di sanzioni disciplinari minori, che, valutati complessivamente, non giustificavano il recesso.
All’interno di tale valutazione ha anche considerato che sulla prima sanzione “non si è neppure pronunciato il collegio arbitrale, a seguito delle dimissioni del rappresentante datoriale”, ma ha aggiunto subito dopo che in ogni caso dette sanzioni non erano tali da giustificare l’irrogazione del licenziamento delle sanzioni disciplinari, esaminando i singoli addebiti e spiegando il perché della sua valutazione di non proporzionalità, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte (cfr. pag. 4 e pag. 5 della sentenza).
Pertanto, la considerazione formale sulla prima sanzione della serie non è dirimente perché la Corte ha comunque (“in ogni caso”) valutato tutti i fatti contestati e le relative sanzioni, per concludere, con congrua motivazione di merito, che, anche se considerati complessivamente, non giustificavano il licenziamento.
Il ricorso incidentale pertanto è infondato.
Entrambi i ricorsi devono quindi essere rigettati; ciò impone di compensare delle spese tra le parti.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi e compensa le spese.
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