CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2014, n. 900
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Dichiarazioni testimoniali – Ricostruzione della carriera – Pagamento dei contributi previdenziali – Valutazione del giudice d’appello
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Campobasso rigettava il ricorso proposto da E.U. nei confronti dell’A. S.p.A. e dell’INPDAP, con il quale aveva chiesto dichiararsi illegittimo il licenziamento intimatogli dopo essere stato collocato a riposo dalla predetta società, alle cui dipendenze lavorava quale geometra; il pagamento delle differenze retributive durante il periodo di sospensione cautelare conseguente alla misura restrittiva della libertà personale; il risarcimento dei danni subiti; la condanna della società alla ricostruzione della carriera ed al pagamento dei contributi previdenziali.
Tale sentenza veniva confermata dalla Corte d’appello di Campobasso.
Proponeva impugnazione il lavoratore e la Corte di Cassazione, con sentenza n. 1661/08, accoglieva il nono motivo per vizio di motivazione, rigettava gli altri e annullava con rinvio la sentenza impugnata, rilevando che il giudice d’appello aveva attinto la prova della sussistenza degli addebiti disciplinari dagli “atti” dei procedimenti penali e contabili, senza precisare quali fossero tali atti e senza quindi dar conto delle ragioni in base alle quali il licenziamento era stato ritenuto giustificato.
Il processo veniva riassunto davanti alla Corte d’appello di Salerno, la quale, dopo aver disposto d’ufficio l’acquisizione degli atti del procedimento penale di primo e secondo grado a carico del dipendente, rigettava la domanda dal medesimo proposta, rilevando che gli addebiti di cui alla contestazione disciplinare avevano trovato riscontro nelle risultanze di quel procedimento ed in particolare nelle dichiarazioni rese da alcuni testi, dalle quali era emerso che la condotta posta in essere dal dipendente aveva integrato la giusta causa del licenziamento, per essere venuto meno l’elemento fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro.
Avverso questa sentenza ricorre per cassazione il dipendente sulla base di due motivi, illustrati da successiva memoria.
L’A. ha resistito con controricorso, mentre l’INPDAP è rimasto intimato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 437 cod. proc. civ., deduce che il giudice di rinvio non avrebbe potuto d’ufficio esercitare poteri istruttori, acquisendo gli atti relativi al procedimento penale.
Aggiunge che il potere officioso del giudice è limitato ai primi due gradi del giudizio e non può estendersi al giudizio di rinvio, che è un giudizio ad istruzione chiusa, limitato al solo riesame dei fatti già accertati. I soli atti su cui il giudice d’appello avrebbe potuto fondare il suo convincimento erano quelli prodotti dalle parti nel precedente giudizio di merito, senza far ricorso ad altri elementi, sostituendosi al datore di lavoro nell’assolvimento dell’onere della prova.
2. Il motivo non è fondato.
Questa Corte ha affermato che la configurazione del giudizio di rinvio ex art. 394 cod. proc. civ., quale giudizio ad istruzione sostanzialmente chiusa, in cui è preclusa la formulazione di nuove conclusioni e quindi la proposizione di nuove domande o eccezioni e la richiesta di nuove prove, salvo che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla stessa sentenza di cassazione, non osta all’esercizio, in sede di rinvio, dei poteri istruttori del giudice e, in particolare, dei poteri istruttori esercitabili d’ufficio dal giudice del lavoro anche in appello (art. 437 cod. proc. civ.), limitatamente ai fatti già allegati dalle parti, o comunque acquisiti al processo ritualmente, nella fase processuale antecedente al giudizio di cassazione (cfr. Cass. 13 febbraio 2006 n. 3047).
E’ stato altresì affermato che nel giudizio di rinvio i limiti all’ammissione delle prove concernono l’attività delle parti e non si estendono ai poteri del giudice, ed in particolare a quelli esercitabili d’ufficio (cfr. Cass. 9 gennaio 2009 n. 341; Cass. 7 febbraio 2006 n. 2605; Cass. 2 settembre 2004 n. 17686).
Alla stregua di tali principi, cui va data continuità, non appare censurabile l’avvenuta acquisizione, da parte del giudice d’appello, degli atti relativi al procedimento penale a carico dell’odierno ricorrente, al fine di integrare l’attività istruttoria compiuta nel precedente grado del giudizio, “nel corso del quale era stato prodotto il decreto che disponeva il giudizio nei confronti dell’E.”
3. Con il secondo motivo il ricorrente, nel denunziare violazione e falsa applicazione degli artt. 244, 245, 250, 251, 252 e 253 cod. proc. civ., rileva che, acquisendo gli atti del procedimento penale, il giudice d’appello ha introdotto nel processo dichiarazioni testimoniali prive di efficacia probatoria in quanto rese fuori dal contraddittorio delle parti.
4. Anche tale motivo è infondato.
La possibilità per il giudice civile, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale, non comporta alcuna preclusione per detto giudice di utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito con sentenza passata in giudicato e di fondare il proprio giudizio su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza penale o, se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da individuare esattamente i fatti materiali accertati per poi sottoporli a proprio vaglio critico svincolato dalla interpretazione e dalla valutazione che ne abbia dato il giudice penale (in questi termini, Cass. 21.6.2004 n. 11483; Cass. 25 marzo 2005 n. 6478).
Deriva da quanto precede che ben poteva il giudice d’appello utilizzare, ai fini del suo convincimento, le dichiarazioni testimoniali rese in quel procedimento, procedendo direttamente all’esame del loro contenuto ed alla valutazione della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento.
Il ricorso deve, in conclusione, essere rigettato, previa condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, come in dispositivo.
Nulla per le spese nei confronti dell’INPDAP, rimasto intimato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, a favore dell’A. S.p.A., delle spese del presente giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi ed € 3.500,00 per compensi professionali, oltre le spese prenotate a debito. Nulla per le spese nei confronti dell’INPDAP.
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