La Corte di Cassazione sez. lavoro con la Sentenza n. 17315 del 15 luglio 2013 interviene in merito all’abuso di potere di un responsabile nei confronti di un sottoposto minacciato di licenziamento.
Nello specifico la Suprema Corte ha giudicato sproporzionata l’intimidazione al licenziamento nei confronti del sottoposto, qualora non avesse comprato tutta la merce in scadenza alla quale, senza dolo, il lavoratore non aveva applicato l’etichetta di sconto.
Inoltre la Corte di Cassazione ha giudicato la condotta del caporeparto oggettivamente grave sotto un aspetto sia morale che patrimoniale, tanto da configurarsi il delitto di violenza privata a danno della subalterna.
La vicenda ha avuto origine dalla circostanza che ha visto il caporeparto di una società obbligare un lavoratore ad acquistare tutte le referenze carne per le quali la stessa si era dimenticata di applicare le riduzioni di prezzo per un totale di € 101,30 e per avere minacciato la predetta, commessa presso la filiale di cui egli era responsabile, dicendole che, qualora non avesse acquistato tutta la merce non avrebbe più potuto tornare al lavoro.
In seguito all’accaduto il caporeparto riceve una lettera di contestazione disciplinare conclusosi, dopo l’accertamento dei fatti, con il licenziamento del caoporeparto.
Il lavoratore licenziato impugna il provvedimento inanzi al tribunale, in veste di giudice del lavoro, a cui chiedeva, pertanto, di dichiarare illegittimo, nullo e/o ingiustificato o, comunque, annullare il licenziamento e, per l’effetto, condannare la convenuta a reintegrarlo nel posto di lavoro, con condanna al risarcimento e ai versamenti contributivi.
Il Tribunale, all’esito dell’ istruzione della causa e della discussione, rigettava la domanda. Avverso tale decisione la parte soccombente ricorre in Corte di Appello. I giudici della Corte di Appello ritenuta sproporzionata la sanzione del licenziamento, in quanto le risultanze istruttorie inducevano a ritenere che la condotta contestata non risultava sostenuta da una volontà di nuocere all’azienda ma, in via prevalente, da una mal gestita e mal interpretata intenzione di “farne gli interessi”, attraverso l’abuso del potere di vigilanza sui sottoposti, dichiarava l’illegittimità del licenziamento con tutte le relative conseguenze.
La società avverso la sentenza, della corte di appello, ricorreva alla Corte Suprema basando il ricorso su sette motivi.
Gli Ermellini hanno accolto quattro delle sette doglianze della società ricorrente. In particolare hanno evidenziato come la sentenza dei giudici di merito sia affetta da contraddittorietà delle motivazioni e violazione e falsa applicazione delle norme.
Infatti i giudici di legittimità, dopo aver elencato una serie di circostanze, hanno ritenuto che “tali rilievi inducono a condividere le doglianze della difesa della società circa i vizi di legittimità denunciati con i primi quattro motivi di ricorso, sotto i profili della violazione dell’art. 2119 cod. civ. e della motivazione contraddittoria nonché insufficiente (nel senso della “obiettiva deficienza del criterio logico” posto a base della decisione: ex plurimis, Cass. n. 6064/2008; Cass. n. 26825/2009). Giova in proposito richiamare la giurisprudenza di questa Corte alla cui stregua l’applicazione, da parte del giudice del merito, di una “norma elastica” —quale l’art. 2119 cod. civ. con riguardo alla nozione di giusta causa di licenziamento — è soggetta a valutazione di legittimità sotto il profilo del contrasto con “i principi dell’ordinamento (espressi dalla valutazione di legittimità) e quegli “standard” valutativi esistenti nella realtà sociale —riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro, con riguardo alla disciplina del lavoro subordinato — che concorrono con detti principi a comporre il diritto vivente” (cfr. Cass. n. 434/1999; Cass. n. 10058/2005).
Nel caso in oggetto, il Giudice del merito ha accertato un addebito consistente nella realizzazione, sul luogo di lavoro e nel contesto dell’attività lavorativa, di una condotta che lo stesso Giudice ritiene riconducibile al reato di violenza privata, costringendo la commessa, sotto minaccia alternativa di licenziamento, ad accettare una “sanzione”, cioè un acquisto di vari chili di carne in scadenza lo stesso giorno.”
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