La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 898 depositata il 17 gennaio 2014 intervenendo in tema di mobbing ha affermato che “in riferimento al regime precedente all’art. 4 D.lgs. n. 216/2003 che alla fattispecie in esame non si applica ratione temporis, per “mobbing” si deve intendere una condotta del datore di lavoro che, in violazione degli obblighi di protezione di cui all’art. 2087 c.c., consiste in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e di persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore.
La vicenda ha visto protagonista un dipendente dell’Agente per la riscossione che adiva al Giudice del Lavoro per sentir dichiarare la illegittimità delle note di qualifica (mediocre) attribuite dal datore di lavoro e la illegittimità della condotta di mobbing di cui era stata vittima, chiedendo, inoltre, la condanna del Concessionario datore di lavoro al pagamento del premio di rendimento.
Il Giudice adito accoglieva parzialmente la richiesta del lavoratore dichiarando la illegittimità delle note di qualifica e condannando la società al pagamento de premio di rendimento.Il dipendente impugnava la decisione del Tribunale con ricorso alla Corte di Appello nella parte in cui non aveva condannato la società per il danno conseguente alla illegittima condotta di mobbing. La società datrice di lavoro proponeva appello incidentale impugnando la sentenza di primo grado in cui era risultata soccombente.
I giudici territoriali confermavano la decisione del Tribunale chiarendo che è mancata la specificazione delle circostanze di luogo, di tempo e dei singoli soggetti che avrebbero realizzato i singoli comportamenti denunziati. E’ mancato nel ricorso introduttivo ogni riferimento alla correlazione tra professionalità precedentemente acquisita e le nuove mansioni. In particolare la lavoratrice nulla ha detto sulla personalizzazione e specifica discriminazione in suo danno rispetto ai colleghi di lavoro inseriti nelle medesime articolazioni organizzative; e comunque – aggiunge la Corte territoriale – ogni intento persecutorio risultava escluso posto che la lavoratrice fu trasferita e spostata dall’uno all’altro dei settori o uffici unitamente agli altri colleghi di lavoro per ragioni organizzative che erano risultate documentate. Inoltre generica, perché priva di riferimenti temporali, era l’allegazione relativa alla mancata concessione dei permessi nelle giornate richieste.
Infine i giudici di appello hanno condiviso la valutazione di merito del Tribunale secondo cui i singoli fatti denunziati come ascrivibili ad un unico intento persecutorio ciascuno in sé considerato non presentavano il carattere della ritorsività ed ostilità.
Per la cassazione della decisione del giudice di seconde cure il dipendente propone ricorso, basato su quattro motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettano il ricorso depositato. I giudici di legittimità escluso la condotta di mobbing – perché non puntualmente e specificamente dedotta, e quindi non provata – con conseguente assorbimento delle censure relative al risarcimento del danno.
I giudici del Palazzaccio chiariscono il concetto di mobbing intesa come “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.”
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