La Corte di Cassazione sez. penale con la sentenza n. 28603 del 03 luglio 2013 interviene in tema mobbing qualificando i comportamenti ed episodi di emarginazione come straining ossia mobbing attenuato
Significativa ed interessante pronuncia, della Cassazione sezione penale, che ha riconosciuto ad un dipendente di banca, “messo all’angolo” fino a essere relegato a lavorare in uno «sgabuzzino, spoglio e sporco», con «mansioni dequalificanti» e «meramente esecutive e ripetitive»: comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni contrassegnate da una marcata autonomia decisionale a ruoli caratterizzati, per contro, da “bassa e/o nessuna autonomia”, e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l’attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate.
Nelle grandi aziende, precisano i giudici di legittimità, è difficile parlare di mobbing: infatti, tale fattispecie è costruita a livello di giurisprudenza (infatti non vi è riscontro nel diritto positivo del fenomeno del mobbing) tramite il rinvio all’articolo 572 del codice penale, norma che incrimina il reato di maltrattamenti in famiglia. Ma ciò non toglie che, escluso il delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi comunque altri reati.
Gli Ermellini hanno in maniera innovativa qualificato qualificato tali comportamenti non come “mobbing”, bensì come “straining” – ossia una sorta di mobbing attenuato. In altri termini, mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, lo straining, in via parzialmente coincidente ma in parte diversa, è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo.
La Corte puntualizza che, pur essendo tale situazione di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing”, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, dai Giudici di merito denominata nel caso di specie come “straining”, occorre tuttavia rilevare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Rv. 244457; Sez. 6, n. 685 dei 22/09/2010, dep. 13/01/2011, Rv. 249186; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, dep. 22/11/2011, Rv. 251368; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, dep. 27/04/2012, Rv. 252609).
La modulazione di tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratìo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poichè è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, in via esemplificativa, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista.
Secondo l’accusa, da questi episodi era «derivata la grave lesione» del lavoratore «consistita nella causazione di un’incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per un periodo di tempo superiore a 40 giorni». I diretti superiori dell’uomo, funzionario amministrativo di una filiale di una grande banca, erano dunque finiti sotto processo per maltrattamenti, ma erano stati assolti dal tribunale di Milano, sentenza confermata in appello.
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