CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2013, n. 16986
Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Insubordinazione – Lesione del vincolo fiduciario – Sussiste
Svolgimento del processo
Con sentenza del 12.7.2010, la Corte di Appello di Catania rigettava il gravame proposto da M. O., confermando la pronunzia di primo grado, con la quale era stata rigettata la domanda intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato al predetto, addetto al servizio mensa, per fatti avvenuti in data 31.3.2005 e contestati con lettera del 5.4.2005.
Rilevava la Corte del merito che la contestazione, articolata in due episodi da ritenersi verificati nello stesso contesto temporale e relativi alle frasi profferite all’indirizzo di dipendenti gerarchicamente sovraordinati, con istigazione alla insubordinazione nei confronti di altri lavoratori, nonché con tono minaccioso e violenza sui beni aziendali, era riferita a condotta idonea a configurare insubordinazione e tale da costituire giusta causa di licenziamento. Inoltre, non era emerso alcun intento discriminatorio nei confronti della lavoratrice in cui difesa il M. era intervenuto, sicché doveva ritenersi irrimediabilmente pregiudicato il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto ed assorbita ogni altra questione proposta.
Per la cassazione della decisione ricorre il M., con sette motivi.
Resiste, con controricorso, l’A. s.p.a.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il M. denunzia l’omessa e comunque l’insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., sul punto controverso e decisivo per il giudizio relativo alla effettiva data di accadimento degli episodi contestati ed al contenuto dei fatti avvenuti in tale data.
Assume che in data 31.3.2005 si erano svolti fatti diversi, di natura strettamente sindacale, cui non avevano assistito i testi escussi in relazione ad episodio verificatosi il 29.3 allorché il ricorrente era intervenuto nella vicenda che aveva interessato la dipendente F. R., la cui deposizione, unitamente a quelle del collega M., era stata ingiustificatamente ritenuta vaga e contraddittoria rispetto a quelle, invece ritenute attendibili, dei testi T. e S.. Rileva, inoltre, che sempre in modo erroneo erano state pretermesse a fini probatori dichiarazioni rese alla Forza pubblica, che pure dovevano essere utilizzate, sia pure come indizi, nella complessiva valutazione delle risultanze acquisite. Riporta il contenuto anche delle giustificazioni rese dal M. in sede di audizione orale, nel corso della quale veniva precisata la diversa data dei fatti di cui alla lettera di contestazione.
Con il secondo motivo, lamenta omessa ed insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, cpc, in ordine all’attendibilità dei testi T., S. e P., sia per il triplice cambio di versione da parte del primo su circostanza fondamentale della causa, sia per essere contraddetta la deposizione del secondo da molteplici indizi concordanti, che ne evidenziavano una incertezza complessiva anche relativamente alla presenza dello S. all’episodio ascritto al M., che veniva riferito come svoltosi alla presenza del capocuoco T..
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cpc, dell’art. 421, comma 2, prima parte, c.p.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., e 111 della Costituzione, non essendo stato adoperato ai fini della decisione ogni elemento istruttorio utile, anche al di fuori dei limiti previsti dal codice civile, e, comunque, del vizio motivazionale in ordine alla disapplicazione dell’art. 421 c.p.c. circa un uso esaustivo del materiale probatorio o indiziario agli atti.
In particolare, evidenzia che non era stata ammessa c.t.u. che avrebbe chiarito lo stato di salute della F. in soccorso della quale era intervenuto esso ricorrente.
Con il quarto motivo, ascrive alla sentenza impugnata insufficiente motivazione circa il carattere di vaghezza e contraddittorietà attribuito dalla Corte del merito alle deposizioni dei testi M. e F., che avevano negato di essere stati presenti a discussione tra S.e M. il 31.3.2005.
Con il quinto motivo, deduce la mancata prova, da parte della società, dei fatti menzionati nella lettera di contestazione disciplinare del 5.4.2005, falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 5 della I. 604/66, dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 1 I. 604/66, nonché violazione dell’art. 18 e dell’art. 7 I. 300/70, anche in relazione ai doveri di correttezza ex art. 1175 c.c., in relazione all’art. 360, n.5, c.p.c., rilevando la mancanza di ogni considerazione in ordine al mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del datore di lavoro e censurando la decisione, che aveva ritenuto provato quanto riferito da testi dell’azienda, invece inattendibili.
Con il sesto motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., rileva I’omessa motivazione su fatti rilevanti per la valutazione di conformità della sanzione al principio di proporzionalità e quindi decisivi per il giudizio, evidenziando il mancato accertamento delle affezioni di cui soffriva la F. a fini di valutazione di compatibilità delle stesse con le mansioni attribuitile, che richiedevano la sua presenza nelle celle frigorifere e contesta che sia stata adeguatamente considerata la proporzionalità della sanzione irrogata, tenuto conto del fatto che il M. era intervenuto in difesa della lavoratrice lesa nel diritto costituzionale alla salute e per tutelare la stessa, con evidente attenuazione della rilevanza della condotta a livello di intenzionalità.
Infine, con il settimo motivo, denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 1564, 2106, 2119 c.c. e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., sotto il profilo del principio di proporzionalità della sanzione irrogata.
Il ricorso è infondato.
Il primo e secondo motivo evidenziano una non corretta valutazione delle risultanze processuali, in relazione ad una asserita prevalenza da conferire a dichiarazioni ritenute ingiustificatamente meno attendibili rispetto ad altre al contrario valorizzate dal giudicante, che non avrebbe tenuto conto anche del mutamento di versione da parte del teste T. In realtà le divergenze ricostruttive imputate a quest’ultimo attengono ad una mera e comprensibile imprecisione temporale dell’episodio descritto, che, tuttavia, in base al complesso degli ulteriori elementi acquisiti nel corso del giudizio, sono state ritenute di marginale significatività nella complessiva convergenza delle molteplici acquisizioni processuali, sostanzialmente univoche, ritenute idonee a conferire supporto probatorio alla contestazione disciplinare posta a base delle sanzione espulsiva. D’altronde, la osservazione che il M. non avrebbe avuto motivo di riferire altra vicenda, verificatasi a distanza di due giorni da quella di cui alla contestazione disciplinare, in sede di giustificazioni, se non in ragione della reale sequenza temporale dei fatti riferiti – diversi quanto allo loro collocazione temporale da quanto allo stesso contestato – non appare particolarmente significativa, a fronte della ricostruzione articolatamente effettuata dal giudice del gravame con riferimento alle deposizioni rese dai testi escussi, che hanno dichiarato di avere assistito ai fatti, confermando la sequenza degli eventi posti a base della sanzione. Deve, poi, anche disattendersi il rilevo che sarebbero state pretermesse a fini probatori dichiarazioni rese alla Forza pubblica, in quanto è principio pacifico quello secondo cui, ai fini del convincimento del giudice, i fatti extraprocessuali (dichiarazioni rese da soggetti coinvolti nella vicenda alla Forza pubblica) costituiscono solo fonte probatoria indiziaria liberamente valutabile dal giudice. Al riguardo deve osservarsi che l’esame delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione delle risultanze della prova, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr., tra le tante, Cass. 12362/2006 e, più recentemente, Cass. 21.7.2010, n. 17097).
Deve, peraltro, aggiungersi che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ., è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni dei proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr. Cass. 2.2.2007 n. 2272; Cass. 18.6.2007 n. 14084, Cass. 6.7.2007 n. 15264).
Quanto al rilievo, formulato con il terzo motivo, della mancata ammissione di c.t.u. che avrebbe chiarito lo stato di salute della dipendente F. R., in cui difesa era intervenuto il M., deve osservarsi che la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice (cfr. Cass. 5.7.2007 n. 15219). Nella specie, la Corte territoriale, con adeguata e logica motivazione ha dato conto della valutazione compiuta ed ha implicitamente mostrato di ritenere superfluo ogni accertamento tecnico, in mancanza di alcun elemento probatorio che rendesse necessario il ricorso a tale ulteriore mezzo istruttorio. Più in generale, con riguardo al profilo di censura sull’esercizio dei poteri istruttori officiosi, la Corte di cassazione ha più volte ribadito che nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere – dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall’art. 134 cod. proc. civ., ed al disposto di cui all’art.. 111, primo comma, Cost., sul “giusto processo regolato dalla legge” di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Tali poteri non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendosi d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata, o allorquando, infine, si richieda non tempestivamente e non ritualmente la prova tanto da ritardare – in violazione del principio della ragionevole durata del processo – i tempi della decisione (sui poteri istruttori del giudice dei lavoro cfr. Cass, Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353, e, più di recente, ex plurimis, Cass. 5 febbraio 2005 n. 2379, nonché, da ultimo, Cass. 5 novembre 2012 n.18924).
I rilievi in ordine alla valutazione espressa dal giudice del merito circa l’inattendibilità delle deposizioni rese da alcuni dei testi appaiono poi generici e non idonei a inficiare l’impianto motivazionale posto a sostegno della decisione, non essendo stato indicato alcun elemento dotato del carattere di decisività capace, se preso in considerazione, di condurre a diversa soluzione della controversia.
Il quinto motivo, per la sua formulazione, è inidoneo a censurare validamente la decisione impugnata, in quanto sostanzialmente l’affermazione della mancanza di prova da parte del datore, oneratone, si ricollega all’apodittico assunto dell’inattendibilità dei testi di tale parte, valendo al riguardo le considerazioni sopra esposte e l’ulteriore rilievo, di carattere generale, che il principio dell’onere della prova non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato dal relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo, poiché nel vigente ordinamento processuale vige il principio di acquisizione secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro e, quindi, senza che possa escludersi l’utilizzazione di una prova fornita da una parte per trarne elementi favorevoli alla controparte (cfr., tra le altre, Cass. 9.6.2008 n. 15162, Cass. 11.5.2007 n. 10847, Cass. 18.4.2006, n. 8951).
Il sesto ed il settimo motivo attengono entrambi, nella sostanza, al giudizio di proporzionalità della sanzione ed il rilievo circa il mancato approfondimento delle affezioni di cui soffriva la lavoratrice in cui difesa era intervenuto il ricorrente, oltre a rifluire nelle considerazioni svolte in ordine alla libera determinazione del giudice di disporre accertamenti tecnici, non propone questione capace di incidere in termini decisivi sulla valutazione del livello della intenzionalità della condotta, ai fini dell’attenuazione del giudizio negativo della condotta disciplinarmente rilevante. La gravità di quest’ultima e la sua idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sono state valutate attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, in conformità al principio secondo il quale occorre sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 cod. civ. (Cfr., da ultimo, in relazione a tale ultimo riguardo , Cass. 4.3.2013 n. 5280; cfr. anche Cass. 13.2.2012 n. 2013).
Con riguardo all’ultima censura, sostanzialmente intesa a rilevare la violazione del criterio della proporzionalità da parte del giudice del merito, la sua prospettazione risulta tale da devolvere alla Corte questioni non esaminabili nella sede di legittimità. E’ stato al riguardo precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi ai riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato, come già detto, in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.). Tale giudizio è rimesso al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione, dovendo ritenersi (Cass. n. 21965 del 2007) che spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata ai lavoratore, con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, secondo un apprezzamento di fatto che non è rinnovabile in sede di legittimità, bensì censurabile per vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (cfr., altresì, ex plurimis, Cass. n. 6823 del 2004).
Alla stregua delle svolte argomentazioni, deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
Le spese di lite seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricordo e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro oltre accessori come per legge.
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