CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 agosto 2013, n. 18416
Lavoro – Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Magazzino – Attribuzione della gestione a un appaltatore esterno – Sussiste.
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado che aveva accolto parzialmente la domanda proposta da L.G., A.A. e A.C. nei confronti di T.I. S.p.A., dichiarando illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto nei loro confronti ed ordinandone la reintegra nel posto di lavoro, con il pagamento delle retribuzioni globali di fatto a decorrere dalla data del licenziamento, ha rigettato la domanda dei lavoratori, osservando per quanto ancora qui rileva :
– che i lavoratori erano addetti al magazzino “stoccaggio prodotti finiti” della società T.I.;
– che la gestione del magazzino era stata affidata ad una società cooperativa in forza di un contratto di appalto di servizi;
– che le posizioni di lavoro dei lavoratori erano state soppresse;
– che la società appellante aveva dimostrato la ragionevolezza della sua scelta nonché l’impossibilità di reimpiegare utilmente i lavoratori;
– che non erano stati assunti nuovi lavoratori. L’unica persona assunta era già in servizio presso la società T.I. come lavoratrice interinale, ma era addetta all’ufficio commerciale, con mansioni incompatibili con quelle dei lavoratori licenziati;
– che pertanto il licenziamento era legittimo.
Avverso questa sentenza propongono ricorso per cassazione i lavoratori sulla base di tre motivi.
La società resiste con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i ricorrenti, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966 e 41 Cost., dopo aver richiamato le teorie che si contendono il campo in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deducono che la Corte territoriale ha accolto la teoria acausale, la quale ritiene che a monte della decisione di procedere al licenziamento dei lavoratori non deve esistere alcuna sufficiente ragione economica o produttiva che spieghi o giustifichi il licenziamento. Non è riconosciuto cioè spazio alcuno al sindacato giurisdizionale “se non quello del riscontro di verità della effettiva diminuzione del personale ovvero della causa prossima”.
Tale teoria è erronea perché ritiene che il solo interesse in gioco sia quello del datore di lavoro, il quale è l’unico a poter valutare l’esigenza organizzativa e produttiva che giustifica il licenziamento. Il legislatore nel dettare la norma di cui all’art. 3 L. 604/66 ha aderito alla teoria della sussistenza dei due interessi contrapposti e del loro punto di equilibrio perché altrimenti non avrebbe usato il termine di giustificato motivo oggettivo.
Il motivo così conclude: “In definitiva affermiamo che la Corte di Appello di Milano ha errato quando ha sostenuto che nell’istituto del giustificato motivo oggettivo unico interesse rilevante sia quello del datore di lavoro al libero livello occupazionale dell’impresa, e che quindi ogni scelta del livello stesso, purché effettivamente realizzatasi sia legittima e sindacale”.
2. Con il secondo motivo è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge 604 del 1966. Si deduce che la T. S.p.A. si è limitata ad una deduzione inammissibilmente generica del giustificato motivo oggettivo, venendo meno all’onere di specificazione dei motivi del licenziamento, posto a tutela del diritto di difesa della controparte. Né le lettere di licenziamento hanno enunciato le ragioni giustificative del licenziamento, limitandosi a richiamare la esternalizzazione della gestione del magazzino. Ciò comporta la illegittimità dei licenziamenti per mancata sufficiente specificazione delle ragioni che li hanno determinati.
3. Con il terzo motivo, denunziando violazione degli artt. 3 e 5 L. 604 del 1966 nonché vizio di motivazione, i ricorrenti rilevano che la ricorrenza di una causa giustificatrice di ordine economico (riduzione dei costi e aumento dei profitti) è stata esclusa dai vertici della stessa T. S.p.A. ed in particolare dal direttore dello stabilimento. Inoltre, non sono state sufficientemente dimostrate le ragioni produttive che hanno giustificato il licenziamento, avendo un solo teste fatto riferimento ai vantaggi di maggiore flessibilità organizzativa provenienti dall’appalto alla cooperativa, senza in alcun modo addurre che la precedente organizzazione basata sul lavoro dipendente avesse “dato luogo a delle defaiances” o “ad inconvenienti qualitativi della gestione” del magazzino”.
4. Il ricorso, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, è infondato.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è dettato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e ai regolare funzionamento di essa (art. 3, seconda parte, L. n. 604 del 1966).
Il “motivo oggettivo” è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.
Spetta invece al giudice il controllo della reale sussistenza delle esigenze tecnico-economiche dedotte dal datore di lavoro, e cioè della effettività e della non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.
Questi principi sono stati enunciati più volte da questa Corte, che ha anche aggiunto che l’onere probatorio circa l’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro grava interamente sullo stesso, il quale deve dimostrare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti (Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010 n. 6559; Cass. 22 agosto 2007 n. 17887).
Con riguardo, poi, alle assunzioni di nuovo personale successivamente al licenziamento, per ritenere raggiunta la prova della inutilizzabilità aliunde del lavoratore licenziato, è necessario che il datore di lavoro, sul quale grava il relativo onere probatorio, indichi (e dimostri) le assunzioni effettuate, il relativo periodo, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi assunti e le ragioni per cui tali mansioni non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo.
In relazione a tutti tali elementi, il giudice deve dare conto della valutazione operata, con motivazione che, ove adeguata ed immune da vizi, è incensurabile in sede di legittimità.
Nella specie la motivazione adottata dalla Corte territoriale è logica, coerente ed appare rispettosa dei principi di diritto sopra richiamati.
La Corte anzidetta ha infatti accertato che la gestione del magazzino dove lavoravano i ricorrenti è stata affidata con un contratto di appalto di servizi ad una società cooperativa; che tale scelta imprenditoriale è stata effettiva e non pretestuosa; che le posizioni di lavoro dei ricorrenti sono state soppresse; che, pur essendo irrilevante accertare se le motivazioni dell’azienda fossero di tipo economico ovvero organizzative, la società aveva comunque dimostrato la ragionevolezza della scelta in termini di maggiore flessibilità nell’utilizzo del personale; che si era anche verificato un certo risparmio in termini economici; che l’unica nuova assunta era già in servizio come lavoratrice interinale ed addetta all’ufficio commerciale, con mansioni incompatibili con quelle degli appellati. Alla stregua di tutto quanto precede il ricorso deve essere rigettato.
5. Restano assorbite le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dalla società resistente con il controricorso, relative all’interesse ad agire dei lavoratori e ai motivi “formali” del ricorso.
6. Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano a favore della società resistente in € 50,00 per esborsi ed 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
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