CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 febbraio 2013, n. 3762
Tributi – Accertamento – Accertamento analitico e induttivo – Accertamento basato sui conti correnti dei dipendenti – Legittimità – Sussistenza
Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnazione da parte della società M. s.r.l. di un avviso di accertamento per l’anno 1995, ai fini IRPEG ed ILOR, con il quale ne era rettificato il reddito d’impresa sostanzialmente mediante disconoscimento di costi ritenuti non inerenti e del beneficio previsto dall’art. 3, D.L. n. 357 del 1994, nonché la ripresa a tassazione di ricavi ritenuti anche sulla base di riscontri bancari sui conti di alcuni dipendenti e dei soci della società verificata. Un conseguente avviso di accertamento era notificato ai soci M.L., L. e M.L.L., ad ognuno di essi contestando l’Ufficio un maggior reddito di partecipazione nella misura del 33,33%
La Commissione adita accoglieva parzialmente il ricorso della società – determinando in L. 124.444.092 il volume degli investimenti realizzati nell’ anno 1995 da considerare ai fini della detassazione del reddito d’impresa reinvestito, ai sensi dell’art. 3 del citato D.L. n. 357 del 1994 – e respingeva i ricorsi dei soci. Gli appelli della società e dei soci erano respinti con le sentenze in epigrafe, avverso le quali è proposto ricorso per cassazione da parte della società con sette motivi e da parte dei soci con otto motivi. Resiste l’amministrazione con controricorso nei confronti della società e dei soci L.L. e M.L., senza svolgere attività difensiva nei confronti di M.L.L.. La società ha depositato memorie ex art. 378 c.p.c. Le cause, già chiamate per l’udienza dell’8 febbraio 2011, venivano poi rinviate a nuovo ruolo per l’intervento della legge di condono che ne imponeva la sospensione, la quale non poteva essere disposta in ragione dell’impossibile ricostituzione del collegio originario.
Motivazione
1. Il fondamento dell’avviso di accertamento notificato a ciascun socio sul possesso, da parte di ognuno, di una partecipazione sociale nell’anno 1995 nella misura del 33,33% e la sostanziale identità delle rationes decidendi delle decisioni impugnate impongono la riunione delle distinte impugnazioni ai sensi dell’art. 274 c.p.c.
2. Le complessive doglianze svolte con il primo motivo di ricorso – tese, sostanzialmente, ad una declaratoria di nullità dell’intera sentenza per difetti dell’atto in sé (non solo di un qualche suo punto decisivo) – vanno disattese perché le carenze denunziate (mancanza delle “richieste delle parti”, della “concisa esposizione dello svolgimento del processo” e della “succinta e-sposizione dei motivi in fatto e in diritto”) risultano irrilevanti e/o insussistenti.
2.1. Questa Corte ha affermato che «la mancata o incompleta trascrizione nella sentenza delle conclusioni delle parti costituisce, di norma, una mera irregolarità formale irrilevante ai fini della sua validità, occorrendo, perché siffatta omissione od incompletezza possa tradursi in vizio tale da determinare un effetto invalidante della sentenza stessa, che l’omissione abbia in concreto inciso sull’attività del giudice, nel senso di averne comportato o un’omissione di pronuncia sulle domande o sulle eccezioni delle parti, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati dalle parti medesime» (Cass. n. 10853 del 2010).
2.2. Inoltre questa Corte ha evidenziato che «nella redazione della motivazione della sentenza, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, essendo necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. (nel testo ratione temporis vigente), che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi-per implicito-disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito» (Cass. n. 24542 del 2009).
2.3. Nel caso, il vizio è riferito (da tutte le parti) unicamente all’omesso esame del punto concernente il «provvedimento autorizzatorio del procuratore della repubblica» (peraltro oggetto di propria censura nel secondo motivo di ricorso) e dalla (sola) società anche alla «illegittimità dell’accertamento … a causa dell’ avvenuto protrarsi della verifica … oltre il termine dei trenta giorni imposti dalla norma» (oggetto del terzo motivo di tutti i ricorsi) per cui lo stesso va ricondotto ad una denunzia di violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul punto, del tutto inidonea a determinare, in sé sola, la nullità dell’intera sentenza.
3. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 52, comma 2, DPR 633 del 1972 e 33, DPR 600 del 1973, oltre che vizio di motivazione, sostenendo che non solo il provvedimento autorizzatorio sulla cui base si sarebbe proceduto all’accertamento non risulta motivato, ma addirittura non risulta presente nell’incartamento processuale.
3.1. In proposito va considerato che il sorgere del potere-dovere del giudice tributario di valutare la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria o di un suo atto “istruttorio” prodromico, tenuto conto della pacifica natura di impugnazione/merito del relativo processo, suppone di necessità che il contribuente, in osservanza dei disposti degli artt. 18, comma 2, lett. e), e 22, comma 4, D. Lgs. n. 546/1992 abbia:
a) sottoposto al suo esame specifici motivi di censura anche dell’atto “istruttorio” prodromico (nel caso, il provvedimento di autorizzazione del Procuratore della Repubblica previsto dall’art. 52, comma 2, DPR n. 633 del 1972) e
b) depositato quell’atto (se notificato) ove il deposito si renda (come nel caso, assumendosi aver richiesto al giudice del merito di valutare la legittimità del provvedimento anche quanto alla sussistenza delle condizioni fissate dalla norma per la sua concessione ed alla congruità delle ragioni espresse dall’organo autorizzante) indispensabile per il suo esame.
3.2. Ma nel caso nessuno dei ricorrenti ha lamentato la violazione, da parte dei verificatori, della norma dettata dal sesto comma dell’art. 52 DPR n. 633 del 1972, in particolare circa l’omessa notifica e/o consegna ad essi dell’autorizzazione del Procuratore della Repubblica utilizzata per l’accesso all’abitazione.
3.3. Peraltro tale autorizzazione è un provvedimento amministrativo, la cui interpretazione è riservata al giudice del merito e costituisce una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretta da un’adeguata motivazione: rispetto a tale provvedimento valgono le stesse nonne per l’interpretazione dei contratti, sicché «la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige una specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito, nessuna delle due censure potendo, invece, risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione» (Cass. n. 10131 del 2006).
Nel caso di specie, dalla semplice lettura dei motivi di ricorso risulta evidente l’assoluta inosservanza, da parte dei ricorrenti, dei richiamati principi quanto alla mancanza della specificità richiesta dall’art. 366 c.p.c. in merito alLa doglianza, essendo questa fondata unicamente sulla affermata (ma indimostrata, non essendo stato riprodotto il contenuto del provvedimento neppure nel ricorso per cassazione) giustificazione della richiesta e della concessione dell’autorizzazione all’accesso su pretese «informazioni confidenziali» e/o su quelle contenute in una (indeterminata) «lettera anonima», nemmeno essendo documentato che quelle (informazioni e/o siffatta lettera) siano state le vere ed uniche ragioni del rilascio del provvedimento.
3.4. Inoltre, il motivo di ricorso in esame si rivela anche inammissibile (sempre per violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c.) perché – attenendo la complessiva pretesa fiscale (anche quanto ai soci) a ripresa a tassazione (siccome attività economiche riferite alla società e da questa non esposte nella sua contabilità né considerate nella proprie dichiarazioni fiscali) delle movimentazioni dei conti correnti bancari dei soci e dei libretti di deposito intestati a terzi e a disconoscimento di costi esposti nella contabilità della società – non pone in luce quale sia il necessario ed indissolubile nesso tra gli esiti dell’accesso alle abitazioni dei soci e la così individuata pretesa erariale complessiva.
4. La violazione dell’art. 8, comma 6, DM 30 dicembre 1993 nonché dell’art. 12, comma 5, L. n. 212 del 2000 – denunziata dai contribuenti nel terzo motivo del rispettivo ricorso – è, in via principale, inammissibile: a) perché nessuna delle parti private ha dedotto di aver sollevato detta eccezione nel ricorso di primo grado e b) perché la sua deduzione, per la prima volta nel giudizio di appello (affermata, comunque, soltanto dai soci), è impedita dal secondo comma dell’art. 57 D. Lgs. n. 546 del 1992, per il quale nel giudizio tributario di appello non possono proporsi, per la prima volta, eccezioni, quale quella in esame, che non siano rilevabili anche d’ufficio.
4.1. Peraltro il quinto comma dell’art. 12, L. n. 212 del 2000, nel fissare agli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria il termine (prorogabile per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio) di trenta giorni lavorativi, regola unicamente la permanenza degli stessi presso la sede del contribuente quando dovuta a verifiche: il termine in questione, quindi, assume rilevanza solo a seguito della somma dei giorni lavorativi di effettiva permanenza presso la sede del contribuente. Il computo del termini, pertanto, diversamente da quanto ritenuto dai contribuenti (che si sono limitati a indicare la prima e l’ultima data del PVC), non può essere compiuto sulla base dei giorni trascorsi tra l’inizio e la fine delle operazioni di verifica, computando quindi anche quelli impiegati per verifiche eseguite al di fuori della sede del contribuente.
4.2. Né ha fondamento la stessa censura con riferimento all’art. 8, comma 6, DM 30 dicembre 1993, il quale non attribuisce alcun diritto al contribuente, né tende a tutelare un qualche interesse del medesimo, avendo esso unicamente una finalità di autorganizzazione e di coordinamento della complessiva capacità operativa dell’amministrazione finanziaria da destinare all’azione accertatrice.
5. La violazione dell’art. 7, D.Lgs. 546/92 denunziata da tutti i ricorrenti con il quarto motivo dei rispettivi ricorsi non sussiste. Infatti il giudice di primo grado (che, peraltro, ha salvaguardato il contraddittorio e, quindi, il diritto di difesa di controparte, con il disposto rinvio ad altra udienza di discussione) non ha affatto ordinato sua sponte alle parti il deposito di un documento (il PVC) non presente agli atti del processo, ma ha solo ritenuto legittimo il suo deposito volontariamente (anche se tardivamente) effettuato dall’Agenzia all’udienza di discussione: questa fattispecie va rettamente ricondotta nella previsione (della quale, però, non si denunzia nessuna violazione) dell’art. 32, D. Lgs. n. 546 del 1992, il quale regola, appunto, il tempo processuale del deposito di documenti nel giudizio innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale.
5.1. La censura peraltro non tiene conto del fatto che il secondo comma dell’art. 58, D.Lgs. n. 546 del 1992 fa comunque salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti in appello, con l’effetto che il documento, anche se tardivamente prodotto nel giudizio di primo grado, deve ritenersi comunque ritualmente e tempestivamente acquisito in (e per quello di) appello, con derivata legittimità della utilizzazione dello stesso, a fini della decisione, da parte del giudice dell’impugnazione.
6. Parimenti infondate sono le censure svolte dai contribuenti nel quinto motivo, con il quale è denunciate la violazione dell’art. 2729 C.C. nonché del l’art. 39, comma 1, DPR 600 del 1973 in ordine alla riferibilità alla società degli assegni rinvenuti presso i soci: ed invero, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, «i dati raccolti dall’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e art. 39, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività. Detta presunzione legale «vincola l’Ufficio tributario ad assumere per certo che i movimenti bancari effettuati sui conti correnti intestati al contribuente siano a lui imputabili, senza che risulti necessario procedere all’analisi delle singole operazioni, la quale è posta a carico del contribuente, in virtù dell’inversione dell’onere della prova» (Cass. n. 19493 del 2010 in motivazione ed ivi richiami di conformi precedenti).
6.1. Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte ha altresì chiarito che «l’estensione delle indagini bancarie anche a soggetti terzi rispetto alla società non può ritenersi illegittima in quanto tutti detti soggetti hanno riferimento nella società o quale amministratore e soci o quale congiunto di questi e, quindi, in una società, come nella specie, la cui compagine sociale e la cui amministrazione è riferibile ad un unico ristretto gruppo familiare ben si può ritenere che l’esistenza di tali vincoli sia sufficiente a giustificare la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate su conti correnti bancari intestati a tali soggetti, salva naturalmente la facoltà di questi di provare la diversa origine di tali entrate» (Cass. n. 19493 del 2010 in motivazione ed ivi richiami di conformi precedenti).
6.2. In fatto, il giudice di appello, ha puntualmente esposto le ragioni per le quali ha ritenuto provata la riferibilità alla società delle movimentazioni sia dei conti correnti dei soci (tra i quali la stessa amministratrice) che dei depositi intestati a terzi, in ordine ai quali ha osservato che gli stessi o «non erano mai stati movimentati dalle persone intestatarie» o «riguardavano assegni bancari ricevuti da clienti della M.». Siffatto accertamento non risulta menomamente infirmato dalle semplici contrarie opinioni espresse da tutti i contribuenti, atteso che le loro doglianze (limitate ad una generale e generica negazione dell’esistenza di detta prova, del tutto avulse da ogni riferimento alla documentazione partitamente esaminata dalla Guardia di Finanza e posta a base degli atti impositivi) non risultano supportate dalla precisa indicazione dei vizi propriamente motivazionali indicati dal n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
6.3. In particolare va esclusa la stessa ravvisabilità del denunziato vizio di contraddittorietà della motivazione, essendo esso fondato, per espressa ammissione delle parti private, unicamente sul diverso decisum del giudice di primo grado, quindi non sul ragionamento logico che sorregge la sentenza impugnata anche quanto alla riferibilità alla società delle movimentazioni dei depositi intestati ai terzi: in ordine a tale intestazione, vale appena evidenziare l’assoluta irrilevanza dell’esistenza di un qualche rapporto economico (lavorativo o meno) tra gli intestatari e la società essendo sufficiente ed esaustiva l’accertata (diretta ed esclusiva) utilizzazione dei libretti intestati agli stessi (quindi veri prestanomi) da parte della società per le proprie operazioni economiche.
7. La censura, proposta dal solo L.L., circa una omessa pronuncia sull’eccezione sollevata con l’atto di appello, di nullità della notifica dell’avviso di accertamento, anche qualora fondata non si palesa idonea a determinare nemmeno in parte qua la cassazione della decisione impugnata, atteso che quell’eccezione, giusta la stessa sua prospettazione, risulta inammissibile perché l’art. 57, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992 vieta di proporre per la prima volta in appello “nuove eccezioni” che, come quella in esame, “non siano rilevabili anche d’ufficio”.
7.1. Quella stessa eccezione è in ogni caso irrilevante in base al principio affermato dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 19854 del 2004, secondo cui «la natura sostanziale e non processuale (né assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù dell’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 cod. proc. civ. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento».
7.2. Nel caso di specie, il contribuente non ha nemmeno allegato che il vizio denunziato (a prescindere dall’accertamento della sua effettiva esistenza) gli abbia impedito l’esercizio del diritto di difesa e che, nonostante la sanatoria conseguente alla proposizione (che, peraltro, non si adduce neppure essere tardiva) del ricorso giurisdizionale, si sia verificata, medio tempore, una qualche decadenza a danno dell’amministrazione finanziaria.
8. Sulla doglianza (sesto motivo di ricorso) concernente il «disconoscimento di costi contabilizzati ritenuti non inerenti» («quote di ammortamento», «provvigioni passive su vendite effettuate dall’agente C.»; «agevolazioni per il reddito di impresa ex art. 3 del DL n. 357/1994») – «disconoscimento» del quale non vi è traccia nella sentenza impugnata -, va, in via preliminare, ricordato che, secondo l’orientamento di questa Corte, «l’omessa pronuncia, quale vizio della sentenza deve essere fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell’art. 112 c.p.c, e non già con la denuncia della violazione di norme di diritto sostanziale ovvero del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c, n. 5, in quanto tali ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare, o non giustificando adeguatamente, la decisione resa al riguardo. Contemporaneamente solo la corretta deduzione della doglianza ex art. 112 c.p.c, trattandosi di una norma processuale, può consentire al giudice di legittimità l’esame degli atti dei giudizio al fine di verificare la effettiva deduzione come motivo di appello della censura la cui mancata considerazione da parte del giudice di secondo grado è dedotta come motivo di gravame nel ricorso per cassazione» (Cass. n. 12992 del 2010 in motivazione).
8.1. Esaminando, alla luce dei riferiti principi, le singole articolazioni della doglianza, può rilevarsi che:
a) le osservazioni relative alle quote di ammortamento dei pannelli mobili e multiuso in legno, che si assumono usati nel 1995 nello stand fieristico, si palesano del tutto confuse, né risulta esposto alcunché a dimostrazione della inerenza di tali quote.
b) la riferibilità alla società (quindi ancora la loro inerenza) delle provvigioni passive su vendite effettuate dall’agente C., è semplicemente affermata dalla s.r.l. M. (e dai suoi soci) e risulta impossibile stabilire la rilevanza del contenuto (ignoto, perché non riprodotto) degli «appunti extracontabili … con riferimento nominale ad uno dei soci» e, soprattutto, la relazione con la censura sia di tale contenuto che dell’affermazione secondo cui «in una società a ristretta base sociale i singolo soci… [sic] erano plausibili rapporti diretti con i fornitori ed i clienti».
c) quanto all’esclusione delle agevolazioni per il reddito di impresa previste dall’art. 3, D.L. n. 357 del 1994, la relativa censura non contiene alcuna indicazione circa la sussistenza di tutte le condizioni richieste dalla norma (nel testo modificato, in sede di conversione, dall’articolo unico della legge 8 agosto 1994 n. 489) per escludere il 50% del loro ammontare dall’imposizione del reddito d’impresa. La mancata allegazione delle condizioni dette, all’evidenza, ridonda sull’ammissibilità stessa del riconoscimento giudiziale della spettanza del beneficio fiscale e, quindi, ancora sul necessario giudizio prognostico sulla rilevanza (per sua idoneità a determinare una decisione favorevole) della lamentata omissione di pronuncia.
9. Quanto alla dedotta illegittimità degli accertamenti bancari per violazione dell’art. 37, comma 3, DPR 600 del 1973, si tratta di censura che non ha pregio giuridico per la totale estraneità della fattispecie astratta regolata da detta norma con quella concreta: la fattispecie astratta, infatti, involge solo la riferibilità ad un soggetto (nel caso, ipoteticamente la società) delle «movimentazioni bancarie» effettuate sul conto di un «terzo» (sempre in astratta ipotesi, l’amministratrice, i soci [legati da rapporti di consanguineità e/o di coniugio] e i terzi).
9.1. Secondo l’orientamento espresso da questa Corte la fattispecie considerata dall’art. 37, comma 3, DPR 600 del 1973, «prevede il compimento, da parte dell’effettivo percettore di redditi, di operazioni, pur realmente volute e immuni da rilievi di validità, compiute però strumentalmente allo scopo di sottrarsi all’imposizione fiscale, attraverso una interposizione soggettiva, volta a far risultare come percettore del reddito un soggetto diverso» (Cass. n. 27964 del 2009, in motivazione). Nel caso di specie difetta del tutto il presupposto della (fittizia) titolarità dei relativi redditi ad altri soggetti (soci e terzi), atteso che nessuno di questi soggetti si è mai assunta (debitamente denunziando i redditi afferenti) quella titolarità e tenuto conto del fatto che i soci non hanno nemmeno adombrato che alcuno di essi (o dei terzi estranei alla società) abbia pagato una qualche imposta che afferisca ai redditi «della società desunti dalle movimentazioni bancarie.
10. Infine, infondato è l’ultimo motivo di ricorso dei soci, con il quale si denuncia la violazione dell’art. 14, DPR 917 del 1986, sulla base del principio affermato da questa Corte secondo cui «il credito d’imposta accordato al socio sugli utili distribuiti da società ed enti, ai sensi dell’art. 14, primo comma, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, oltre a soggiacere alle condizioni stabilite dall’art. 105 del medesimo d.P.R., in assenza delle quali non può aver luogo la sua attribuzione, incontra un. doppio limite, rappresentato dal calcolo del credito in percentuale sugli utili della società partecipata, e non già sull’imposta pagata, e dal suo riconoscimento fino a concorrenza dell’imposta effettivamente assolta dalla società, senza che ciò comporti alcuna duplicazione d’imposta, risultando anzi frustrata la sua funzione, qualora al socio fosse riconosciuto un credito per un’imposta che la società non ha pagato affatto (Cass. n. 23848 del 2009).
11. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi R.G. nn. 27152/06, 27154/06, 27155/06, 27156/06 e li rigetta.
Condanna le parti ricorrenti alle spese della presente fase del giudizio, in solido tra loro, che liquida in complessivi € 9.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
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