Corte di Cassazione sez. lavoro sentenza n. 18535 del 02 agosto 2013
LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO LEGITTIMO – STRUTTURA SANITARIA – MANSIONI NON EQUIVALENTI ALLA PRECEDENTE QUALIFICA – REPECHAGE – PATTO DI DEQUALIFICAZIONE
Svolgimento del processo
Con sentenza del 7.3.2011, la Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione impugnata, respingeva le domande proposte in primo grado da P. I., intese ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole il 15.3.2004 a seguito di visita medica collegiale del 26.1.2004 al cui esito era stata valutata inidonea al sollevamento dì pesi superiori ai 15 Kg nello svolgimento delle mansioni di Operatore Tecnico addetto all’assistenza presso la Clinica S. Antonio. La Corte del merito osservava, per quanto rileva nel presente giudizio che, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, nel caso di sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni lavorative, il ed, patto di dequalificazione quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro costituisse non già una deroga all’art. 2103 c.c., inderogabile secondo il disposto del secondo comma di tale norma, bensì adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall’interesse del lavoratore e che pertanto il datore di lavoro era tenuto a giustificare oggettivamente il recesso, anche con l’impossibilità di assegnare mansioni non equivalenti, nel solo caso in cui il lavoratore avesse, sia pure con formule non rituali, manifestato la sua disponibilità ad accettarle. Ove tale manifestazione di intenti, necessariamente antecedente alla risoluzione del rapporto, non si fosse verificata, la legittimità del licenziamento doveva essere valutata solo con riferimento alla possibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e corrispondenti alla qualifica. Nel caso in esame da nessun atto precedente al recesso risultava che la P. avesse manifestato la volontà dì essere adibita a mansioni da portantino e quindi a percepire uno stipendio inferiore pur di mantenere il posto di lavoro. Risultava, invece, provato, in quanto non contestato dalla società, che presso la clinica non esistessero possibilità di adibire la lavoratrice a mansioni equivalenti, né poteva ritenersi sussistente l’obbligo di adeguare i mezzi aziendali a tecnologie più moderne che consentissero di diminuire i carichi da sollevare. Peraltro, nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32 e 36 Cost.) non poteva pretendersi che il datore, per ricollocare la dipendente non più fisicamente idonea, procedesse a modifiche delle scelte organizzative escludendo da talune posizioni lavorative le attività incompatibili con le condizioni dì salute del lavoratore. Considerato che pacificamente la movimentazione ed il sollevamento di pesi superiori a 15 kg. faceva parte delle mansioni riconducibili alla qualifica al tempo posseduta dalla appellata, che la stessa non era in grado di espletare detti compiti e che non vi era una situazione organizzativa tale da potere utilmente adibire la P. a mansioni equivalenti e compatibili con il suo stato di salute, il licenziamento doveva ritenersi legittimo.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la P. con due motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c :
Resiste, con controricorso, la Clinica, che espone ulteriormente le proprie difese in memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la P. denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 300, n. 5, cp,c, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 604/66, in relazione agli artt. 1453, 1455, 1463 e 1464 c..c., ai sensi dell’art. 360, n, 3, c.p.c, assumendo che i consulenti tecnici avevano ritenuto compatibili con la qualifica di O.T.A. le mansioni di pulizia, di lavaggio e preparazione del materiale da inviare alla sterilizzazione, il trasporto di infermi in barella o in carrozzina, la collaborazione con infermiere professionale etc, e non compatibile l’accompagnamento degli infermi se deambulanti con difficoltà. Sostiene la ricorrente che tale mansione non era, tuttavia, ricompresa tra quelle ad essa assegnate, in quanto presso la struttura sanitaria» fino ai primi mesi del 2005, l’attività assistenziale era destinata a soggetti autosufficienti e l’accompagnamento dei malati avveniva sempre con l’intervento di due persone, come confermato dai testi escussi, sicché l’attività lavorativa poteva essere proseguita con mansioni di OTA senza che il datore dovesse procedere ad una modifica dell’assetto organizzativo dell’impresa. Alla luce di ciò, rileva il mancato esame di punti decisivi della controversia.
Con il secondo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge 604/66, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c, rilevando, quanto all’obbligo di repechage, che la motivazione della sentenza impugnata è in palese violazione della legge 12.3.1999 n. 68 e richiama l’art. 1464 c.c. per sostenere che, per i lavoratori divenuti inidonei fisicamente all’espletamento delle mansioni svolte, il datore, per giustificare il recesso, deve provare l’impossibilità di adibire gli stessi a diversa attività che sia riconducibile alle mansioni attualmente svolte od equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore. Osserva, quanto alla legge sopra richiamata, che all’art. 4, la stessa prevede che non possano essere licenziati i lavoratori divenuti disabili a causa di un infortunio, se possano essere assegnati a mansioni inferiori. Assume che la sentenza della Cassazione n. 10339/2000 richiamata dal giudice del gravame attiene a fattispecie difforme, in quanto nella specie la società aveva esplicitamente dichiarato di non volere assegnare alla lavoratrice mansioni diverse da quelle di O.T.A.. e quest’ultima aveva esplicitamente richiesto la declaratoria di illegittimità del recesso anche sotto il profilo della mancata assegnazione a mansioni non equivalenti.
La ricorrente contesta dì non essere stata posta in condizioni di manifestare la propria disponibilità all’espletamento di mansioni non equivalenti, essendo stata licenziata immediatamente dopo la visita del medico competente, e sostiene che il consenso a mansioni inferiori poteva essere intervenire solo ove il datore avesse portato a sua conoscenza la disponibilità all’assegnazione delle nuove mansioni inferiori.
Il ricorso è infondato.
Il primo motivo deve essere disatteso, in quanto con lo stesso si censura un accertamento di fatto sulla base dì una ricostruzione della vicenda fondata da un lato sulla c.t.u. espletata, volta ad individuare la compatibilità delle condizioni fisiche della P. con la qualifica attribuitale e, dall’altro, sull’istruttoria svolta, che avrebbe confermato che il trasporto di malati non autosufficienti nella deambulazione avveniva sempre con l’intervento di due operatori. Al riguardo è sufficiente evidenziare che non solo non risultano riportate le conclusioni della consulenza neanche nei punti rilevanti ai fini del decidere, ma che anche le testimonianze acquisite sono genericamente richiamate, laddove un accertamento di fatto, quale quello compiuto nella specie circa il contenuto organizzativo delle mansioni e la adeguatezza al relativo svolgimento da parte della ricorrente, può essere censurato in sede di legittimità solo ove venga dedotto un vizio logico di motivazione ovvero l’omesso ed insufficiente esame di circostanze potenzialmente decisive in senso opposto. A tal fine, non è sufficiente dedurre l’omessa od erronea considerazione di alcune testimonianze, ma è necessario indicare nel ricorso quale ne sia il contenuto e quale la provenienza.
Ciò premesso, si osserva che l’onere del repechage del lavoratore inidoneo allo svolgimento delle mansioni alle quali è adibito è principio pacificamente espresso nella sentenza delle sezioni unite 7 agosto 1998, n. 7755, pronunciata a composizione dei contrasti di giurisprudenza esistenti sulla questione, rispetto alla quale è stato affermato che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro subordinato, ai sensi degli art. 1 e 3 I. 606/1966 – normativa specifica in relazione a quella generale dei contratti sinallagmatici di cui agli art. 1453, 1455, 1463 e 1464 c.c. -se risulta ineseguibile non soltanto l’attività svolta in concreto dal prestatore, ma è esclusa anche la possibilità, alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede, di svolgere altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti ai sensi dell’art. 2103 e, persino, in difetto di altre soluzioni, a mansioni inferiori, purché l’attività compatibile con l’idoneità de! lavoratore sia utilizzabile nell’impresa, senza mutamenti dell’assetto organizzativo insindacabilmente scelto dall’imprenditore. Nella specie, come precisato in precedenti di questa Corte (v. in particolare, Cass. s. u. 7755/1998 cit, Cass. 5.8.2000 n. 10339, Cass. 22.8.2003 n. 12362, Cass. 15.11.2002 n. 16141, Cass. 28.10.2008 n. 25883, Cass. 18.3.2009 n. 6552, Cass. 2.7.2009 n. 15500), nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32, 36 Cost.), non può, tuttavia, pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, proceda a modifiche delle scelte organizzative escludendo, da talune posizioni lavorative, le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore.
Vero è che, nell’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo consiste non soltanto nella fisica inidoneità del lavoratore all’attività attuale, ma anche nell’inesistenza in azienda di altre attività (anche diverse, ed eventualmente inferiori) compatibili con lo stato di salute del lavoratore ed a quest’ultimo attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, onde spetta al datore di lavoro convenuto in giudizio dal lavoratore in sede in impugnativa del licenziamento fornire la prova delle attività svolte in azienda, e della relativa inidoneità fisica del lavoratore o dell’impossibilità di adibirlo ad esse per ragioni di organizzazione tecnico – produttiva. Tuttavia, ove il lavoratore non abbia contestato nella prima occasione processuale utile alcune delle suddette circostanze allegate dal datore di lavoro nell’atto di costituzione e non abbia manifestato la disponibilità ad essere adibito anche a mansioni eventualmente inferiori, non può poi lamentare che il datore di lavoro non abbia completamente assolto all’onere probatorio su di lui incombente, (cfr. Cass. 5.3.2003 n. 3245).
Il limite al potere di recesso rappresentato dalla possibilità di adibire il dipendente a mansioni inferiori presuppone, invero, necessariamente il consenso dell’interessato. L’orientamento favorevole alla validità del ed. “patto di dequalificazione”, autorevolmente avallato dalla menzionata decisione delle sezioni unite, quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, muove, infatti, dalla premessa che in realtà non si tratta di una deroga all’art. 2103 ce, norma diretta alla regolamentazione dello ius variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l’espresso disposto del secondo comma dell’articolo, ma di un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto. L’adeguamento deve essere, quindi, sorretto dal consenso, oltre che dall’interesse, dello stesso lavoratore, così come è richiesto l’accordo collettivo per assegnare mansioni diverse, anche in deroga all’art. 2103, ai lavoratori ritenuti eccedenti dalla imprese che avviano la procedura per la dichiarazione di mobilità (art. 4, comma 11, l. 223/1991) (cfr. Cass. 10339/2000 cit.).
Da tali considerazioni discende che il datore dì lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso anche con l’impossibilità dì assegnare mansioni non equivalenti nel solo caso in cui il lavoratore abbia, sia pure senza forme rituali, manifestato la sua disponibilità ad accettarle. Ciò che correttamente è stato escluso nella fattispecie, alla stregua delle allegazioni della lavoratrice, da cui risultava che la stessa riteneva il licenziamento illegittimo perché, quand’anche fosse stata provata la propria incapacità lavorativa parziale, sussisteva per l’azienda l’obbligo dì adibirla a mansioni equivalenti a quelle svolte nell’ultimo periodo di lavoro antecedente il licenziamento. Ed invero, la P. ha mostrato di non accettare la possibilità di essere addetta a mansioni di portantino insistendo nella adibizione a mansioni di OTA ,in relazione alle quali ha sostenuto la compatibilità con le condizioni fisiche dell’attività di trasporto svolta normalmente con l’intervento anche di personale infermieristico. Tuttavia, la possibilità di conservare alla P. le attribuzioni proprie dell’OTA mediante le opportune scelte organizzative atte a rendere possibile la prestazione garantendo il suo diritto alla salute, anche con riguardo ad interessi costituzionalmente rilevanti (diritto al lavoro, alla salute), non può spingersi fino a determinare scelte organizzative preordinate al perseguimento di finalità assistenziali, eventualmente incidenti sulla posizione di altri dipendenti ed imposte all’impresa senza il supporto di una disposizione di legge ai sensi dell’art. 23 Cost. (come avviene, invece, con la tutela apprestata dalla legge n. 482 del 1968).
La conclusione alla quale, sulla base di tale accertamento dì fatto nella specie insindacabile, è giunto il giudice del gravame, che, cioè, la P. non poteva pretendere di permanere nelle stesse mansioni venendo esentata da uno dei compiti previsti, è, pertanto, del tutto conforme alle premesse giuridiche precisate.
Ed invero, l’accoglimento della tesi della ricorrente comporterebbe, nella situazione accertata dal giudice di merito, non un mero mutamento delle modalità esecutive, ma la creazione ex novo di un nuovo profilo professionale di OTA che non si occupa dell’accompagnamento e trasporto suddetti, con riflessi diretti sul contenuto delle prestazioni degli altri operatori. In ordine alla circostanza del mancato assolvimento, da parte della società datrice di lavoro, dell’onere probatorio, la sentenza impugnata risulta conforme agli orientamenti espressi dalla giurisprudenza della Corte in materia, ai sensi dell’art. 5 l. 604/1966, circa l’impossibilità di assegnare mansioni diverse al dipendente nei cui confronti il recesso si giustifica oggettivamente, orientamenti intesi a limitarlo ragionevolmente in relazione ai concreti aspetti della vicenda e alle allegazioni del dipendente attore in giudizio. La Corte territoriale, in assenza di precisazioni della lavoratrice circa le sue attitudini professionali e le conseguente possibilità di trovare una diversa collocazione nell’azienda, ha ritenuto, anche in questo caso con giudizio di fatto che sfugge al sindacato della Corte, che l’azienda avesse assolto all’onere probatorio mediante la specifica allegazione che non esistevano nella concreta realtà produttiva mansioni compatibili, in quanto tali affermazioni non erano state smentite precisando in positivo quali mansioni equivalenti fossero presenti in azienda per le sue minorate capacità fisiche, rilevando che la P. insisteva per l’assegnazione di compiti non gravosi, ma pur sempre inerenti alle mansioni di OTA. La tesi ricostruttiva della vicenda sostenuta dalla lavoratrice è pertanto funzionale alla tesi difensiva e, quanto al secondo motivo di ricorso, il rilievo relativo alla esistenza di dichiarazione scritta della datrice di lavoro di non volere assegnare la lavoratrice a mansioni diverse da quelle di OTA è inammissibile, perché doveva essere dedotto come vizio motivazionale e che, comunque, per il principio di autosufficienza, la ricorrente avrebbe dovuto riprodurre il testo della dichiarazione stessa.
Quanto alla censura fondata sul richiamo alla legge 68/1999, l’art. 4, comma, 4 della stessa prevede: ” / lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia non possono essere computati nella quota di riserva di cui all’articolo 3 se hanno subito una riduzione della capacità lavorativa inferiore ai 60 per cento o, comunque, se sono divenuti inabili a causa dell’inadempimento da parte dei datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro. Per i predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Net caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Qualora per i predetti lavoratori non sia possibile l’assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi vengono avviati, dagli uffici competenti di cui all’articolo 6, comma 1, presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative, senza inserimento nella graduatoria di cui all’articolo 8.”
La specificità della previsione, che contempla l’obbligo per il datore, al verificarsi di determinati presupposti, collegati al mancato superamento di una soglia di riduzione della capacità lavorativa ovvero al nesso causale dell’inabilità con la violazione delle norme di sicurezza o igiene del lavoro, è ravvisabile anche nel fatto, che in tali ipotesi, è previsto che alla destinazione a mansioni inferiori corrisponda la conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Al riguardo deve osservarsi che il licenziamento dell’invalido assunto in base alla normativa sul collocamento obbligatorio segue la generale disciplina in tema di licenziamento quando è motivato con la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, ma che il diritto deH« stesso di essere occupato nell’azienda alla quale era stato avviato, con riferimento a quanto previsto dalla legge n. 482 del 1968, trovava un limite soltanto nella provata inesistenza, in tutto l’ambito aziendale, di mansioni in concreto allo stesso affI.bili. Questo principio è stato applicato, in particolare, nell’ipotesi di licenziamento dell’invalido determinato dall’aggravamento dell’infermità che aveva dato luogo al collocamento obbligatorio, affermandosi, infatti, che in tal caso il licenziamento era legittimo solo ove ricorressero le condizioni previste dall’art. 10 della legge sopra citata, e cioè perdita totale di capacità lavorativa ovvero pericolo per la salute e l’incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti, accertate da un’apposita commissione medica. Ove invece residuasse ancora una capacità lavorativa, si era ritenuto che sussistesse in capo al datore di lavoro l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o anche inferiori compatibili col nuovo stato dell’infermità, se la struttura organizzativa dell’azienda o la situazione dell’organico aziendale lo consentissero, tale conclusione essendo stata ritenuta coerente con la ratio complessiva che è alla base della legge n. 482 del 1968, che doveva essere individuata nella tutela di categorie di lavoratori svantaggiati, in un’ottica solI.ristica ed assistenziale, rispetto alla quale le esigenze di gestione economica dell’azienda potevano subire una limitazione. L’entità di tale limitazione era fissata dalla stessa legge che fissava delle aliquote di personale appartenente alle categorie protette (cfr., in tali termini, Cass. 3.5.2005 n. 9122).
Analogamente, deve ritenersi che il richiamo alla previsione di cui all’art. 4 l. 68/99 sia riferibile a determinate categorie di lavoratori ed implichi, per la sua applicabilità, la sussistenza di determinati presupposti il cui accertamento di fatto non può che essere demandato al giudice del merito, con la conseguenza che esula dall’ambito dell’esame devoluto a questa Corte la prospettazione della violazione di legge nei sensi precisati.
Alle svolte argomentazioni consegue il rigetto del ricorso.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della P. e si liquI.no nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la P. al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per esborsi ed in euro 2500,00per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
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