COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Lombardia sentenza n. 3766 sez. 13 depositata il 24 giugno 2016
Massima
La controversia riguarda la domanda di rimborso integrale di un credito Iva, avanzata da tre dei quattro ex soci di una società cessata. In appello l’Ufficio ha eccepito la carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti, a suo dire, non legittimati ad agire per l’intero rimborso del credito Iva. La CTR milanese, aderendo ai principi recentemente enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (Cass. Civ., SS. UU., sentenza 16 febbraio 2016 n. 2951), ha statuito, in caso di società cessata, che il diritto di credito della stessa si trasferisce ai soci che possono invocarlo “pro quota”. Nel caso di specie, come da visura prodotta in atti, i soci ricorrenti, titolari ciascuno di una quota pari al 25%, possono agire per i soli tre quarti del credito spettante alla società a titolo di rimborso.
Nell’ipotesi di società estinta, il diritto di credito della stessa si trasferisce ai soci, che possono invocarlo “pro quota” (nel caso di specie, la controversia riguardava la domanda di rimborso integrale di un credito Iva, avanzata solo da tre dei quattro ex soci di una società cessata. In appello l’Agenzia delle entrate aveva eccepito la carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti, a suo dire, non legittimati ad agire per l’intero rimborso del credito Iva) (Conf. Cass. , SS. UU., 2951/2016).
Svolgimento del processo
La Società V. s.r.l. ha presentato, in data 27 ottobre 2005, la dichiarazione dei redditi UNICO-SC/2005, per l’anno di imposta 2004, evidenziando nel quadro RX, rigo RX2, colonna n. 3, un credito IVA di euro 9.270,00 richiesto in via integrale a rimborso: richiesta fatta ai sensi dell’art. 30 comma II d.P.R. 633/1972 a causa della cessazione dell’attività di impresa, avvenuta in data 31 dicembre 2004. Nel silenzio dell’Amministrazione erariale, circa il cennato rimborso, la parte interessata ha presentato istanza in data 11 luglio 2013, per conoscere le cause ostative all’accoglimento della richiesta, soprattutto tenuto conto dell’intervenuto rimborso di IRPEG e IRAP. Con provvedimento del 29 ottobre 2013, notificato in data 12 novembre 2013 (prot. n. 239907), l’Agenzia delle Entrate ha comunicato l’impossibilità di procedere al rimborso IVA per intervenuta «decadenza ai sensi dell’art. 21 d.lgs. 546/1992». Il rifiuto dell’Agenzia è stato impugnato davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, dagli ex soci B. M. G., B. G., G. E., con ricorso n. 3878/14 depositato in data 2 aprile 2014. I ricorrenti hanno censurato: il difetto di motivazione del rifiuto; la violazione dello Statuto del Contribuente (l. 212 del 2000); nel merito, l’illegittimità del diniego. L’Agenzia resistente ha presentato deduzioni in data 8 aprile 2014: ha eccepito l’omesso adempimento di cui all’art. 38-bis comma I d.P.R. 633/1972 (modello VR) e, dunque, la conseguenza per cui la prima istanza doveva essere considerata quella dell’ll luglio 2013, tardiva poiché in violazione dell’art. 21 d.gs. 546/1992, applicabile al caso di specie.
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano, sezione 46, con sentenza n. 7789/15, depositata in data 18 settembre 2015, ha accolto il ricorso e ordinato il rimborso dell’importo di euro 9.270, 19 di IVA oltre interessi come per legge e spese legali in euro 500,00. A parere della CTP “il rimborso del credito IVA può essere effettuato anche senza la presentazione del quadro VR“.
L’Agenzia delle Entrate ha presentato atto di appello in data 8 febbraio 2016. Come primo motivo di gravame, l’Agenzia ha eccepito la carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti: ha dedotto che i soci sono in realtà 4 e, dunque, i ricorrente sono da ritenere non legittimati ad agire per l’intero rimborso del credito IVA. Come secondo motivo di gravame, l’Agenzia ha eccepito il difetto di prova del credito da parte dei ricorrenti. I soci già ricorrenti hanno resistito con contro deduzioni e memorie.
Diritto
L’atto di appello si articola su un unico motivo principale; l’appellato resiste con reiterazione (in via subordinata) delle censure originarie, introdotte nel ricorso presentato davanti al giudice di prime cure.
[1]. Carenza di legittimazione attiva
L’Agenzia delle Entrate, costituendosi nel giudizio di primo grado non ha sollevato eccezioni in merito alla carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti e, soprattutto, nulla ha rilevato la Commissione di primo grado ex officio. Sul punto, questa Commissione intende aderire ai principi in tempi recenti enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (Cass. Civ., Sez. Un., sentenza 16 febbraio 2016 n. 2951, Pres. Rovelli, rel. Curzio): «la legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare. La sua carenza può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio. La relativa questione attiene al merito della causa. La titolarità della posizione soggettiva è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda, che l’attore ha l’onere di allegare e di provare. Può essere provata in positivo dall’attore, ma può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità. A sua volta il giudice può rilevare dagli atti la carenza di titolarità del diritto anche d’ufficio». Ebbene, i principi enunciati dalle Sezioni Unite lumeggiano la rilevanza che ha il comportamento processuale della parte titolata a eccepire la mancanza di titolarità (parziale o totale) del rapporto soggettivo dal lato attivo in capo a chi agisce: in particolare, in caso di inerzia in primo grado, gli sarà preclusa la possibilità, in appello, di basare la negazione della titolarità del diritto sull’allegazione e prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi non rilevabili dagli atti. Questi principi collimano con le disposizioni processuali tributarie di cui agli artt. 57 e 58 d.lgs. 546/1992 e mettono in evidenza come il comportamento tenuto in primo grado dall”Agenzia delle Entrate sia di parziale ostacolo all’accoglimento dell’eccezione. Si intende riferire “parziale” perché, d’altro canto, in presenza di regole afferenti alla regolare costituzione del contraddittorio, la cautela dell’organo giudicante si impone: nel caso di specie, al punto da ritenere essenziali e quindi utilizzabile le prove di nuovo conio. Ciò, però, senz.a pervenire alla soluzione caducatoria del giudizio, con remissione davanti al giudice di primo grado, ex art. 59 dlgs 546/1992. Infatti, nell’ipotesi in cui la società sia cessata, il diritto di credito della stessa si trasferisce ai soci che possono invocarlo “pro quota”. E’ la stessa Agenzia delle Entrate a predicare questa opzione con la risoluzione 77/E del 27 luglio 2011, seppur in materia di società cancellata. In altri termini, si realizza una obbligazione solidale dal lato attivo verso il comune debitore che non impone, seppur per opportunità suggerisca, l’azione comune. E’ dunque consentito a ciascuno dei soci di agire ma, in caso di azioni individuali, solo pro-quota Nel caso di specie, come emerge chiaramente dalla visura prodotta, i soci della cessata V. s.r.l. sono, in pari misura (25%): B. M. G., B. G., G. E., G. F.. G. F. non ha agito in giudizio e nemmeno risulta che il credito sia stato ceduto. Ne consegue che lazione dei ricorrenti non poteva essere proposta se non per i tre/quarti del credito spettante a titolo di rimborso (9.270 : 4 = 2.317,5; tre/quarti = 6.952,50). Al lume dei rilievi sin qui svolti, va rilevata la legittimazione dei soci ricorrenti per il solo minori importo di euro 6.952,50. L’accoglimento dell’eccezione non è considerata ai fini della soccombenza, tenuto conto del comportamento processuale contraddittorio dell’Agenzia delle Entrate che non ha sollevato l’exceptio in primo grado.
[2]. Onere della prova
Va ricordato che le parti del processo non possono articolare le rispettive difese secundum eventum litis ossia in modo progressivo in reazione alle decisioni dei giudici, assunte nei vari gradi del giudizio. La linearità e logicità dello sviluppo processuale, all’ombra dei principi costituzionali scanditi dall’art. 111 Cost., impone alla parte di focalizzare la sua difesa nel giudizio di primo grado ed eventualmente di difenderla nel giudizio di appello ove non accolta. Vi deve dunque essere coincidenza tra thema decidendum in primo grado e thema decidendum in secondo grado in quanto il processo è regolato dalla Legge e non dai desiderata dei litiganti. Ciò detto, deve essere osservato quanto segue. Nel giudizio di primo grado, l’Ufficio erariale si è difeso dalla pretesa avversaria facendo valere ragioni di merito: in particolare, l’omessa compilazione del modello VR da parte del presunto creditore IVA ai fini del rimborso. L’Ufficio ha poi svolto argomenti giuridici in merito al termine di decadenza e di prescrizione. Nell’atto di appello, peraltro redatto in modo discorsivo e non per punti di censura della parte motiva aggredita, l’Ufficio erariale ha fatto valere argomenti difensivi “nuovi”: in particolare, ha eccepito per la prima volta la mancanza di prova del credito da parte dei creditori. Si tratta di questione di merito non rilevabile d’ufficio che l’Agenzia non poteva sollevare in appello, in difetto di rituale allegazione nel giudizio di prime cure. L’eccezione “nuova” dell’appellante è inibita dall’art. 57 comma II dlgs 546 del 1992 che, come noto, risponde anche all’esigenza di salvaguardare il principio di ragionevole durata del processo (v. art. 6 CEDU; l. 89 del 2001; art. 111 Cost.). Coglie dunque nel segno la contro eccezione di inammissibilità dell’appellato. Identica sorte spetta alla eccezione di etero integrabilità della motivazione nel corso della fase giurisdizionale: anche in questo caso, si tratta di argomenti inediti, mai esaminati dal giudice di prime cure; peraltro, non se ne coglie la pertinenza rispetto al decisum aggredito dall’appello. In ragione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, va rilevato che l’Agenzia non ha ritualmente e puntualmente svolto motivi di appello sul punto “focale” che ha animato la decisione di prime cure: la necessità o meno del modello VR ai fini del credito di rimborso IVA. Ne consegue che sul punto si è formato il giudicato.
L’appello è, in conclusione, solo parzialmente fondato.
[3]. Spese del processo
Le spese vanno interamente compensate tra le parti, per il giudizio di secondo grado, tenuto conto dei rilievi svolti in merito all’appello dell’ufficio erariale e alla conferma parziale della sentenza.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti per la definizione del procedimento; gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.
P.Q.M.
1. ACCOGLIE, in misura parziale, l’appello n. 701/2016, presentato dall’Agenzia delle Entrate in data 8 febbraio 2016, avverso la sentenza n. 7789/2015, sezione: 46, emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, in data 18 settembre 2015
per l’effetto, in parziale riforma della decisione impugnata,
2. ORDINA il rimborso della somma di Euro 6.952,50 in favore di B. M. G., B. G., G. E.,
3. ESCLUDE in loro favore, il rimborso per il credito pro-quota spettante a G.F. (pari ad euro 2.317,50)
4. COMPENSA le spese del giudizio di appello tra le parti
MANDA alla cancelleria per quanto di competenza
Così deciso in Milano, in data 22 giugno 2016
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