CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 settembre 2013, n. 37256
Tributi – Reati tributari – Evasione – Sequestro per equivalente – Limiti
Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale ha respinto la richiesta di riesame avanzata dai ricorrenti nei confronti del decreto di sequestro preventivo per equivalente avente ad oggetto terreni e beni di proprietà della C. S.r.l. nonché degli stessi C..
Tale provvedimento cautelare reale era stato emesso dal G.i.p. perché i ricorrenti sono accusati dì avere, in concorso tra loro e con altri soggetti, posto in essere condotte riconducibili a truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis cp.) consistenti, tra l’altro: a) nella creazione “cartolare e contabile”, di ingenti quantitativi di gasolio agricolo; b) nella vendita del prodotto “agevolato” a soggetti non titolati.
Il tutto, in evasione delle accise dovute (art. 40 d.lgs 504/95) emettendo fatture per operazioni mai avvenute (artt. 4 ed 8 d.lgs 74/00) e con l’aggravante di cui all’art. 7 L. 203/91.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, gli indagati hanno proposto ricorso, tramite difensore, deducendo:
1) violazione di legge per essersi applicata la confisca per equivalente pur in assenza della possibilità di ricondurre i fatti alla ipotesi della truffa aggravata e, comunque, per avere applicato la confisca retroattivamente.
Osservano, infatti, i ricorrenti che, se è vero che la valutazione del Tribunale per il Riesame non si può trasformare in un’anticipazione del giudizio di merito, è pur vero che il Tribunale, nella specie, non ha operato alcun approfondimento in ordine la fumus ignorando il fatto che le S.U., con sentenza N. 1235/10 hanno enunciato il principio della esistenza di un rapporto di specialità tra le violazioni finanziarie di cui al d.lgs 74/00 e la truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 cpv. cp.), a meno che, dalla condotta, non derivi un profitto diverso ed ulteriore rispetto all’evasione fiscale (quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni); ipotesi, però, non ricorrente nella specie.
Pertanto, secondo i ricorrenti, non sono validi i richiami operati dal Tribunale alla fattispecie dell’art. 640 bis, in forza del combinato disposto degli artt. 322 ter e 640 quater.
Per di più, si fa notare che sarebbe stato indispensabile accertare la quota-parte del profitto della pretesa evasione realizzata successivamente al 2007 visto che, essendo la confisca per equivalente una misura sanzionatoria, non può essere applicata a fatti commessi antecedentemente la sua introduzione;
2) violazione dell’art. 322 ter cp. perché l’ordinanza ha motivato solo in modo apparente e superficiale Ignorando le deduzioni difensive ed, in particolare, il richiamo a quella ordinanza del G.i.p. con la quale si è detto chiaramente che la posizione di C. G. va differenziata da quella di C. D.. Si ricorda, altresì, che, nella imputazione provvisoria, non figurano neppure C. G. e F. R. mentre è stato detto che la confisca per equivalente non può essere disposta nei confronti di persona estranea al reato (Sez. III, 12.4.12, n. 2067).
I ricorrenti sottolineano, infine, che, in base alla L. 231/01, la confisca per equivalente può essere applicata esclusivamente ai reati previsti dall’art. 24 e, tra questi, non rientrano quelli tributari;
3) mancanza di motivazione a proposito della proporzionalità dell’ammontare sequestrato, rispetto a quanto potrebbe essere effettivamente passibile di confisca.
I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.
Considerato in diritto
3. Motivi della decisione – Il ricorso è fondato nei termini di seguito precisati.
3.1. Il problema, posto nel primo motivo, della specialità tra truffa e reati tributari è fondato ma – come si preciserà meglio – irrilevante. In effetti, la contestazione che, in concreto, viene mossa agli imputati non è quella di aver violato l’art. 640 bis cp. (come si legge nel capo di incolpazione) bensì quella di avere posto in essere una truffa aggravata ai danni dello Stato.
Ed infatti, la descrizione delle condotte ascritte ai C. evidenzia chiaramente l’ipotesi di cui all’art. 640 cpv. n. 1 c.p. visto che, ad essi, si ascrive di avere creato cartolarmente e contabilmente un ingente quantitativo di gasolio agricolo e moto-pesca e di avere venduto il prodotto “agevolato” a soggetti privi di qualsiasi titolo per beneficiarne; in tal modo, «realizzando liquidità finanziaria per imponenti importi, a danno dell’Erario e del mercato concorrenziale ed immettendo in consumo notevoli quantitativi di carburante sottratti all’accisa ed all’IVA, inducevano lo Stato in errore circa l’IVA e le accise da versare».
Gli odierni ricorrenti, quindi, sono accusati di essersi procurati un ingiusto profitto patrimoniale per un importo superiore, complessivamente, a 13 milioni di euro (tra IVA ed accisa evasa) con corrispondente danno per l’Erario.
Discende evidente da quanto precede che la condotta non è riconducibile nell’alveo dell’art. 640 bis c.p. che, invece, punisce la truffa aggravata “per il conseguimento di erogazioni pubbliche”.
Stante quanto precede, deve soggiungersi che non merita critiche la motivazione del tribunale in punto di fumus perché, al contrario, l’apprezzamento a riguardo risulta congruamente illustrato facendo esso richiamo a quanto emerso finora dalla investigazioni del P.M. e che sono state poste alla base della sua richiesta di sequestro (così come dettagliatamente riportato nei ff. 8/10).
Ciò non di meno, deve dirsi che la mutatio libelli appena rilevata è ininfluente sotto il profilo della confisca per equivalente di cui qui si discute visto che – come bene evidenziato dal tribunale (f. 7) – è sufficiente la ricorrenza del reato speciale per giustificarla (v. art. 1 comma 143 l. 244/07 – cd. finanziaria 2008 – secondo cui “nei casi di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater ed 11 del D.Lgs. 10.3.2000 n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322 ter del codice penale”).
3.2. Deve trovare accoglimento il secondo motivo.
Ed infatti, il sequestro dei beni della società non può avvenire al di fuori dei reati previsti dall’art. 24 L 231/11.
Il concetto è stato espresso, più volte, anche da questa S.C. (sez. III, 14.6.12, Amoddio, RV. 253062) attraverso la chiara affermazione che il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall’art. 19, comma 2 d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, «non può essere disposto sui beni immobili appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato D.Lgs. non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l’adozione del provvedimento, con esclusione dell’ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti».
Anche più di recente, poi, questa stessa sezione (sez. in, 19.9.12, umcredit, RV 254796) ha fatto, pescosi dire, il punto della situazione a proposito del dibattuto tema della applicabilità della confisca per equivalente su beni appartenenti a persona giuridica, ove si proceda per violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società e, nella sua disamina, il Tribunale ha ribadito che, in effetti, anche nelle pronunzie di questa Corte si dà atto che nessuna fonte legislativa primaria contempla la eventualità di una tale responsabilità della persona giuridica da consentire una aggressione al suo patrimonio per illeciti tributari commessi dal suo amministratore (a differenza di quanto avviene per il reato dì cui all’art. 10 L. 146/06), e ciò, ancorché si tratti di reati posti in essere nell’interesse ed a vantaggio della società stessa.
Peraltro, proprio basandosi sulla recente pronunzia prima citata (RV. 254795), si è posto l’accento sulla possibilità di operare del distinguo. Di conseguenza, se si è al cospetto di persone giuridiche di dimensioni non modeste, il comportamento delle persone fisiche, seppure illecito, non può incidere in maniera significativa ed è, allora, possibile teorizzare, allo stato, l’esistenza di una sorta di vera e propria “impunità fiscale” della società rispetto ala persona fisica che ne fa parte e vi opera per suo conto.
A diverse conclusioni, però, si può pervenire quando l’autonomia della struttura societaria rispetto al soggetto indagato non sia così netta perché si è al cospetto di società di consistenza limitata e nelle quali, anzi, – si è detto – le persone giuridiche rappresentino una sorta di «emanazione meramente strumentale degli autori del reato – persone fisiche – ossia un comodo ed artificioso schermo al cui riparo agire indisturbati».
Tali problematiche, però, non sono state minimamente affrontate dal Tribunale nel ribadire il sequestro dei beni societari della C. S.r.l. ed anzi, anche la posizione dei singoli indagati è stata affrontata in modo alquanto sommario e generalizzante.
La – pur ritenuta idonea – motivazione del Tribunale per il Riesame in tema di fumus di reità risulta, infatti, inadeguata a dar conto dell’effettivo coinvolgimento di tutti gli indagati.
Proprio perché, come si sottolinea nel provvedimento (f. n), il difetto di elemento soggettivo deve emergere ictu oculi, nella specie, la conclusione che il Tribunale trae sul punto risulta piuttosto affrettata, specie per quel che riguarda le posizioni di C. G. e F. R. (quest’ultima neppure mai menzionata nell’esposizione degli indizzi di reità). Per contro, dal complesso delle indagini fin qui svolte, così come riportate nella ordinanza risulta ricorrente solo il riferimento al “Gruppo C.”.
E’, quindi, anche per questa ragione che si ritiene di dover sollecitare, da parte del Tribunale competente, un nuovo esame della sua decisione, sì da giustificare il presente annullamento della ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per un approfondimento dei punti evidenziati nel precedente e nel presente paragrafo.
3.3. E’, invece, infondata, da ultimo, la questione che i ricorrenti pongono, nel terzo motivo, in tema di eccessività del sequestro (anche perché qui formulate per la prima volta).
E’ ben vero, infatti, che questa S.C. ha più volte affermato come il Tribunale per il Riesame non possa esimersi da n’apprezzare la proporzione tra l’importo sequestrato per equivalente e l’ammontare del presunto profitto (sez. III, 22.3.12, oisci, RV. 252380; sez. III, 7.10.10, Giordano, Rv. 248697; Sez. VI, 23.11.10, Marini, Rv. 248956; Sez. V, 9.10.09, Sortino, Rv. 245727) ma è anche vero che ciò non va inteso nel senso che debba essere il Tribunale ad eseguire materialmente i calcoli del caso.
Una volta ottenuto dal G.i.p. il provvedimento di sequestro preventivo per equivalente, la sua esecuzione materiale – nel senso della individuazione dei beni da apprendere e della quantificazione del loro valore – compete al P.M. (che, a tal fine, si avvale legittimamente della P.G.) (sez. 111,8.2.12, Genovese, Rv. 252344) ed é fin troppo evidente che, né, il G.i.p., né, il Tribunale per il Riesame disporrebbero dei mezzi per operare in detta direzione.
Ciò che, invece, il Tribunale per il Riesame può, e deve, fare è controllare che, appunto, non vi sia sproporzione tra il presunto profitto e quanto vincolato.
Nella specie, tale adempimento risulta svolto correttamente e risolto con motivazione ineccepibile ponendo a confronto i risultati delle indagini e l’assenza di contrarle deduzioni, o accertamenti tecnici difensivi, ed, osservando che il profitto del reato ammonta a 13.839.742,47 € (somma che risulta dalla somma dell’IVA e delle accise evase) si da potersi affermare la congruità del sequestro che ha aggredito i beni analiticamente indicati nei verbali di sequestro.
P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria.
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