Corte di Cassazione sentenza n. 4479 del 21 marzo 2012
LAVORO (RAPPORTO DI) – PUBBLICO IMPIEGO – DIRIGENTI (CARRIERA) – REVOCA INCARICO
massima della sentenza
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E’ illegittima la revoca dell’incarico di direzione per carenza di risultati soddisfacenti.
E’ illegittima la revoca di un incarico dirigenziale nelle amministrazioni locali al di fuori dei casi previsti dall’art. 51, comma 6, della L. 142/1990 e successive modifiche anche quando il dipendente pubblico in questione non possegga la qualifica di dirigente. Siffatto provvedimento occasiona per il dipendente rimosso sia il diritto al risarcimento del danno patrimoniale – per violazione degli artt. 2 e 41 Cost. e 2087 c.c. – alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il riflesso che la dequalificazione professionale, ha sia nell’ambiente di lavoro sia all’esterno, sulla dignità dell’uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di carriera, sull’immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche allo “status” sociale (c.d. danno alla personalità morale), sia il diritto – Trib. Treviso, 13/10/2000 – al risarcimento del danno alla professionalità (tutelata dall’art. 2103 c.c.), che consiste nel mancato incremento delle conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle conoscenze e capacità acquisite, nonché – quando sussistente – del danno biologico, inteso come lesione anatomico-funzionale del soggetto e del danno morale ove la condotta costituisca anche reato. Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità) sono intrinseche e consequenziali al demansionamento secondo l'”id quod plerumque accidit” e hanno una dimensione patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 23.9.2009-11.10.2009 la Corte di appello di Lecce confermava la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da T.L. nei confronti dell’ASL (già AUSL …) per l’accertamento dell’illegittimità della revoca dell’incarico di direzione dell’unità operativa appalti e contratti e per la condanna della convenuta al pagamento delle conseguenti differenze retributive e dei relativi danni, da liquidarsi in via equitativa.
Osservava in sintesi la corte territoriale che tanto l’unità operativa appalti e contratti, quanto l’unità di farmacosorveglianza (cui pure il dipendente era addetto) non costituivano strutture complesse, quanto unità operative semplici (giacché entrambe inerenti all’Area gestione servizio farmaceutico) e che, pertanto, nulla era dovuto in relazione alla supposta superiore classificazione; quanto, poi, alla revoca dell’incarico di direzione della prima unità, che nessun danno era risarcibile, per la mancata allegazione di alcun concreto pregiudizio, essendo stata la richiesta di liquidazione formulata solo in via equitativa.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso T.L. con sei motivi. Resiste con controricorso l’Azienda intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione del decreto legge n. 502 del 30.12.1992, della legge Reg. Puglia n. 36 del 1994, degli artt. 2, 15 bis e 15 ter della deliberazione della GR Puglia n. 229 del 16.2.1996, della deliberazione della GR Puglia n. 2918 dell’8.7.1996, nonché degli artt. da 51 a 54 del CCNL della Dirigenza sanitaria per il quadriennio 1994-1997 e del CCNL 8.6.2000 ed, al riguardo, osserva che il giudice di appello, ove avesse correttamente interpretato tali disposizioni, avrebbe dovuto riconoscere la natura di struttura complessa delle unità operative cui il ricorrente era stato preposto.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 1103 c.c., dell’art. 50 del CCNL della dirigenza sanitaria e del CCNL 8.6.2000, osservando che la corte di appello non aveva in alcun modo preso in considerazione alcuno degli elementi di valutazione offerti dal ricorrente ed, in particolare, il prospetto di retribuzione dell’Area personale e le prove testimoniali acquisite al processo.
Con il terzo motivo prospettando vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere acriticamente affermato che le unità operative cui il ricorrente era stato preposto fossero qualificabili come strutture semplici, senza in alcun modo specificare quali documenti aziendali, fra quelli genericamente richiamati, confortassero, in realtà, tale affermazione.
Con il quarto motivo il ricorrente, lamentando violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 112, 342 e 346 c.p.c. e all’art. 1226 c.c.) e vizio di motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.), rileva che la corte di merito, nell’assumere la carenza di prova sull’an debeatur, fosse incorsa nel vizio di ultrapetizione, essendosi l’Azienda, nelle proprie difese limitata a sostenere l’insussistenza di ragioni di danno, non per i criteri di liquidazione adottati ma solo in considerazione delle altre mansioni svolte dal dipendente.
Con il quinto motivo, prospettando ancora violazione di legge (artt. 1223 e 1226 c.c. e 112 c.p.c.) e vizio di motivazione, il ricorrente osserva che se il ricorso alla liquidazione equitativa non esonera il danneggiato dall’onere di provare il danno sofferto, non può esimere, tuttavia, il giudice dall’obbligo di ricorrere ad elementi presuntivi, soprattutto in relazione ad un danno, quale quello morale, idoneo ad incidere sulla “dignità dell’uomo e del lavoratore”.
Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente denuncia violazione degli artt. da 51 a 54 del CCNL della Dirigenza sanitaria per il quadriennio 1994-1997 e del CCNL 8.6.2000, nonché vizio di motivazione, osservando come erroneamente la corte territoriale avesse escluso il diritto del ricorrente a percepire la somma di euro 794,56, pur trattandosi di somma spettante in virtù della direzione della unità operativa appalti e contratti, la cui revoca lo stesso giudice di appello aveva ritenuto illegittima, e, comunque, anche in virtù della concorrente direzione della unità di farmacosorveglianza.
2. Il primo motivo è inammissibile, fondandosi lo stesso su documenti (deliberazioni della Giunta regionale n. 229 e 2918 del 1996) che né risultano trascritti, per come prescritto dalla regola della necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione, né risultano indicati nella loro esatta collocazione fra i documenti di causa, per come previsto dal combinato disposto degli artt. 366, primo comma n. 6 e 369 secondo comma n. 4 c.p.c.
Deve al riguardo, ribadirsi che, in tema di ricorso per cassazione, l’art. 366, primo comma, n. 6 c.p.c., novellato dal decreto legge n. 40 del 2006, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso (e, quindi, la descrizione specifica di tali atti secondo il canone dell’autosufficienza del ricorso per cassazione: cfr. ad es. Cass. n. 18854/2010) , esige, altresì, che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto; tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 secondo comma n. 4 c.p.c., per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta, qualora il documento sia stato prodotto, nella fase di merito, dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo dello stesso, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; ovvero, qualora il documento sia stato prodotto dalla controparte, mediante indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di tale parte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento in copia, ai sensi dell’art. 369 comma 2 n. 4 c.p.c., per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o il documento, infine, qualora si tratti di documento non prodotto nella fase di merito relativo alla nullità della sentenza o all’ammissibilità del ricorso (art. 372 c.p.c.) oppure di documento inerente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione ed indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso (cfr. SU ord. n. 7161/2010; v. anche SU n. 22726/2011).
3. Inammissibile, e per le stesse ragioni, è pure il secondo motivo.
A fronte, infatti, dell’accertamento contenuto nella impugnata sentenza, la quale ha ritenuto che la documentazione in atti (non contestata) invocata dalla Asl escludeva la qualificazione delle unità operative cui era preposto il ricorrente in termini di unità complesse e che pertanto, nessun rilievo poteva assumere l’atteggiarsi in concreto della sua prestazione, lo stesso, da un lato non ha documentato il contenuto di tale produzione, dall’altro ha fatto riferimento a propri documenti (in particolare, il prospetto di retribuzione dell’area personale) neppure essi trascritti e a prove testimoniali ritenute dalla corte territoriale, con apprezzamento di fatto in questa sede insindacabile, ininfluenti alla luce degli ulteriori riscontri offerti dall’istruttoria.
4. L’inammissibilità del secondo motivo assorbe le censure svolte con il successivo (terzo) mezzo di impugnazione mentre va affermata l’inammissibilità pure del quarto motivo, dal momento che con lo stesso si denuncia contestualmente, e, quindi, contraddittoriamente, sia il vizio di omessa pronuncia che di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. E ciò sebbene il primo implichi la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, traducendosi in una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 n. 4 c.p.c. e non con la violazione di norme di diritto sostanziale, ovvero del vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.; il secondo l’erroneo apprezzamento da parte del giudice di merito delle questioni prospettate dalla parte e dal primo esaminate, che va denunciato, invece, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. (per come è da costante insegnamento di questa Corte: . ad es. Cass. n. 15882/2007).
Non senza, comunque, osservare che pure con tale motivo si fa riferimento ad atti difensivi (la memoria depositata il 7.5.2008) nemmeno trascritti, né indicati nella loro collocazione fra i documenti di causa.
5. Meritevole di accoglimento è, invece, il quinto motivo.
Ha ritenuto la corte salentina che, sebbene la revoca dell’incarico di direzione del settore appalti e contratti “per carenza di risultati soddisfacenti” dovesse ritenersi illegittima, non poteva riconoscersi in favore del ricorrente alcun risarcimento, stante la mancata allegazione di alcun concreto pregiudizio e per essersi lo stesso limitato “a richiederne tout court la liquidazione in via equitativa”.
Si deve, tuttavia, osservare che il ricorrente aveva, sin dal ricorso introduttivo, allegato che la revoca dell’incarico lo aveva “privato di funzioni confacenti al livello di preparazione acquisito nei lunghi anni di servizio svolto con spirito di assoluta abnegazione e che tale comportamento dell’amministrazione risultava “ancor più illegittimo oltre che mortificante della personalità e delle professionalità del dirigente, ove si consideri che, a fronte dell’infondata e pretestuosa considerazione che i compiti connessi all’incarico affidato al predetto dirigente sono stati disattesi nessuna contestazione gli è stata mossa dal suo superiore gerarchico e, prospettando pertanto, quale conseguenza, un danno alla sua, personalità e professionalità, ne aveva richiesto la liquidazione in via equitativa.
Risulta, pertanto, evidente come il ricorrente, lungi dal non prospettare alcun concreto pregiudizio, avesse puntualmente allegato la lesione di diritti fondamentali della persona a contenuto non patrimoniale (in altri termini un pregiudizio “sulla dignità dell’uomo e del lavoratore sulla aspettativa di carriera, sull’immagine e sulla vita di relazione ‘: così nella decisione di primo grado, richiamata in ricorso), suscettibili di prova anche a mezzo di presunzioni semplici e di ristoro anche in via equitativa, in particolare evidenziando la motivazione del provvedimento, che faceva leva su una presunta incapacità gestionale e la sua adozione in assenza di alcun valido procedimento.
Ciò premesso, va ribadito, in conformità all’insegnamento di questa Suprema Corte, come, in tema di demansionamento e di dequalificazione, se il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ben può, tuttavia, la sua dimostrazione in giudizio essere fornita con tutti i mezzi offerti dall’ordinamento, assumendo, peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità nell’ambiente di lavoro dell’attuato demansionamento, frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale ecc), la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico, si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire all’esistenza del danno, facendosi ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c. a quelle nozioni generali di comune esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr. SU n. 6572/2006 e, nella giurisprudenza successiva, ad es. Cass. n. 29832/2008, Cass. n. 10527/2011)
In particolare, si è puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 17654/2006, Cass. n. 1472912006. Cass. n. 29832/2008) come il lavoratore ha diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte e, pertanto, ha non solo il dovere, ma anche il diritto alla esecuzione della prestazione lavorativa, costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, e che la violazione di tale diritto ben può costituire fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro, in conformità alle regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni.
Più in generale, si è osservato che già la legislazione del lavoro (art. 2087 c.c.), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettibili di valutazione economica (quali l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore), aveva aperto la via al risarcimento dei danni non patrimoniali e che la Costituzione ha rafforzato tale tutela, elevandoli a diritti inviolabili della persona, come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, “che si risolvono nelle compromissioni delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa” (così SU n. 26973/2008); ragion per cui, ancorché in tali casi si parli di danno esistenziale (v. SU n. 6572/2006), tale definizione assume valenza eminentemente nominalistica, poiché i danni-conseguenza che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e, quindi, danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e, quindi, di ingiustizia costituzionalmente qualificata ( cosi ancora SU n. 2693712008 cit.).
In questo contesto, e con riferimento al pubblico impiego, merita di essere sottolineata, in particolare, la rilevanza che assume il “giusto procedimento” quale condizione necessaria della revoca dell’incarico di funzione dirigenziale, essendosi ribadito come la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato” (cfr. Corte Cost. sent. n. 103 e 104 del 2007) e, più in generale, che la valutazione dell’idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e procedure di carattere oggettivo assistite da un’ampia pubblicità e garanzia del contraddittorio” (così Corte Cost. n. 313 del 1996).
Da tali considerazioni ne discende, in conclusione, che pure la revoca illegittima dell’incarico dirigenziale può essere causa di danno alla personalità e professionalità del lavoratore e che se ai fini della reintegrazione del pregiudizio non patrimoniale sofferto non si può prescindere, per come è regola generale, da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno, ben può la sua dimostrazione in giudizio essere fornita con tutti i mezzi offerti dall’ordinamento, assumendo, peraltro, precipuo rilievo la prova per presunzioni, alla luce dalla complessiva valutazione di precisi elementi in tal senso significativi (motivazioni e ragioni dell’illegittimità del provvedimento di revoca, caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità nell’ambiente di lavoro dell’attuato demansionamento, frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale. eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale ecc), la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di merito.
La sentenza impugnata non si è attenuta agli indicati principi interpretativi e, pertanto, meritevole di accoglimento appare il motivo in esame.
6. Fondato è anche l’ultimo motivo.
Si osserva nella sentenza impugnata che la somma di euro 794,56 non risulta compresa nel petitum né, comunque, risulta attribuibile. quale mancata retribuzione, in quanto non collegata all’espletamento della funzione presso l’unità operativa appalti e contratti.
Tale motivazione non dà conto, tuttavia, con la dovuta esaustività, della decisione adottata avuto riguardo a quanto richiesto dallo stesso ricorrente a quanto prospettato dalla stessa Azienda e cioè che la parte variabile della retribuzione era stata ridotta dalla tipologia B, quale responsabile di struttura semplice,a quella C “in via di autotutela a motivo del livello delle prestazioni rese” (v. sentenza), e sebbene tale trattamento retributivo competesse sia in virtù dell’illegittimità della revoca della direzione dell’unità appalti e contratti, e comunque, per effetto della responsabilità di direzione dell’ulteriore unità operativa (di farmacosorveglianza) allo stesso affidata.
7. Rigettati i motivi dal primo al quarto, la sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione agli ulteriori motivi accolti (quinto e sesto) e la causa rinviata ad altro giudice di pari grado, il quale la deciderà, provvedendo anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio, attenendosi al seguente principio di diritto:
“In caso di illegittima revoca di un incarico dirigenziale da parte del datore di lavoro pubblico, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ma ben può la sua dimostrazione in giudizio essere fornita con tutti i mezzi offerti dall’ordinamento, assumendo, peraltro, precipuo rilievo la prova per presunzioni, alla luce dalla complessiva valutazione di precisi elementi in tal senso significativi (motivazioni e ragioni dell’illegittimità del provvedimento di revoca, caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità nell’ambiente di lavoro dell’attuato demansionamento, frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nel confronti del datore di lavoro comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale ecc.), la cui isolata considerazione si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico e valutativo seguito dal giudice di merito”.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto e sesto motivo di ricorso, rigetta i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Bari.
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