CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 settembre 2013, n. 39096
Reati fiscali – Omesso versamento dell’Iva – Rimanenze di magazzino – Rilevanza
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 31 maggio 2012, il Tribunale di Caltanissetta ha confermato il decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso dal Gip dello stesso Tribunale il 24 aprile 2012 in relazione ai reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 4 e 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000 ed avente ad oggetto le somme presenti su conti correnti bancari intestati all’indagato per complessivi 31.000 euro circa.
2. – Avverso l’ordinanza l’indagato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione delle norme incriminatrici e degli artt. 2426 cod. civ. e 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, nonché l’insussistenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora. Premette la difesa che la Guardia di Finanza avrebbe ipotizzato un’evasione dell’Iva sul rilievo che le rimanenze finali al 31 dicembre 2005 erano pari a euro 1.348.888, mentre quelle indicati al 31 dicembre 2006 erano pari a euro 201.325,00. L’importo della presunta evasione corrisponderebbe, secondo la Guardia di Finanza, alla differenza tra tali due ammontari, per l’anno di imposta 2007, nel quale il valore delle rimanenze era stato azzerato. La difesa contesta tale ricostruzione sostenendo che sulle rimanenze finali di ogni anno ha un ruolo determinante sia l’ammontare delle giacenze iniziali che l’entità degli acquisti e delle vendite effettuate nell’anno stesso; entità trascurata dalla Guardia di Finanza, la quale avrebbe erroneamente affermato che le giacenze indicate nel bilancio del 2006 rappresenterebbero semplicemente l’indebita svalutazione delle rimanenze di magazzino che erano rimaste tali e quali. La stessa Guardia di Finanza avrebbe altresì trascurato di considerare che ogni anno le imprese hanno l’obbligo di procedere alla valutazione delle rimanenze dì magazzino ai sensi dell’art. 2426 cod. civ., secondo il criterio per cui le materie prime ausiliarie e i prodotti finiti sono iscritti al minore tra il costo di acquisto o di fabbricazione e il valore di realizzo desunto dall’andamento del mercato. Non si sarebbe considerato, in particolare, che l’assemblea dei soci, proprio in considerazione dei rilievi effettuati dal collegio sindacale che non aveva approvato il bilancio, aveva preteso dall’amministratore chiarimenti circa i criteri della corretta valutazione delle giacenze di magazzino. Vi sarebbe, inoltre, secondo la difesa, una contraddittorietà nel ragionamento seguito dalla Guardia di Finanza, la quale aveva escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 in considerazione del fatto che la società aveva realizzato, nel periodo di imposta 2006, una perdita d’esercizio che, anche se rettificata, non avrebbe portato comunque a ritenere configurabile un utile fiscalmente imponibile su cui applicare l’IRES. La difesa evidenzia, poi, che l’asserita illegittima svalutazione delle rimanenze di magazzino sarebbe stata effettuata dalla società alla data del 31 dicembre 2006, con la conseguenza che non avrebbe potuto essere applicato nel caso dì specie l’istituto della confisca per equivalente, esteso alle violazioni finanziarie solo con la legge n. 244 del 2007. Mancherebbe il requisito del periculum in mora, perché il presupposto della confisca per equivalente sarebbe comunque un rapporto di pertinenza dei beni che ne sono oggetto con il reato; pertinenza la cui sussistenza deve essere adeguatamente motivata. Non si sarebbe proceduto, inoltre, a svolgere accertamenti o indagini sulla consistenza dei beni della società prima di attivare il sequestro per equivalente; e ciò, in evidente violazione del carattere residuale del sequestro dei beni degli asseriti errori materiali delle condotte; né si sarebbe considerato che vi era un cospicuo patrimonio immobiliare dei soci della società che avrebbe consentito un adeguato ristoro delle conseguenze del reato.
Considerato in diritto
3. – Il ricorso è inammissibile.
Con l’unico, articolato, motivo di impugnazione si svolgono, infatti, argomentazioni del tutto sganciate dalla motivazione dell’ordinanza impugnata ed aventi comunque ad oggetto profili esaminati e puntualmente disattesi dal Tribunale.
La circostanza pacifica da cui il Tribunale e il Gip prendono le mosse è la fortissima svalutazione delle rimanenze di magazzino che, alla fine dell’esercizio relativo all’anno 2005 ammontavano ad euro 1.348.000, mentre alla fine dell’esercizio dei 2006 venivano indicate in euro 201.325, con un abbattimento di tale posta attiva pari a euro 1.147.563. Del pari pacifico è il fatto che il collegio sindacale avesse espresso parere sfavorevole all’approvazione del bilancio, ritenendo che l’amministratore non avesse fornito idonea documentazione giustificativa del decremento delle rimanenze come indicato. Nel bilancio dell’esercizio successivo (anno 2007) le rimanenze indicate nella relativa voce dell’attivo dello stato patrimoniale erano poi divenute pari a zero; dato dal quale si era desunto che la società avesse effettuato la vendita dell’intera giacenze di magazzino nel corso dell’anno 2007 senza riportare i ricavi e le cessioni avvenute nelle dichiarazioni ai fini dell’imposta sul valore aggiunto presentata nell’anno 2008, con conseguente omesso versamento dell’Iva dovuta, da calcolarsi sul valore dì euro 1.147.563,00 derivante dalla differenza tra l’ammontare delle rimanenze di magazzino alla fine del 2005 e quello alla fine del 2006.
Tale essendo la situazione di fatto, correttamente il Tribunale ha fatto applicazione dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, sulla premessa che la fattispecie incriminatrice punisce la condotta di chi non versa l’imposta sul valore aggiunto così come riportata in dichiarazione, essendo di per sé elemento costitutivo del reato l’intervenuta presentazione della dichiarazione con l’indicazione dell’Iva a debito e non assumendo alcun rilievo lo stato di difficoltà finanziaria in cui eventualmente versi l’impresa. Per quanto poi concerne il reato di dichiarazione infedele, il Tribunale evidenzia l’assoluta inconsistenza della ricostruzione difensiva – pedissequamente reiterata in sede di legittimità – secondo cui vi sarebbe stata una cessione di parte delle rimanenze che avrebbe diminuito il loro valore. Tale ricostruzione è infatti smentita dalla relazione allegata al bilancio redatto dall’amministratore, nella quale si fa riferimento ad una non meglio precisata e, dunque, inverosimile rapida obsolescenza dei beni in oggetto cui conseguirebbe la difficoltà di porre gli stessi sul mercato. Nessun rilievo possono assumere, dunque, gli intervenuti acquisti o vendite effettuati – in entità peraltro non precisate dallo stesso ricorrente – dalla società nel periodo in oggetto, perché, secondo quanto affermato dallo stesso amministratore oggi indagato, la diminuzione del valore delle rimanenze non era dovuta a tali acquisti o vendite. Quanto, poi, al tempus commissi delicti, deve rilevarsi che il periodo Iva che viene in rilievo è il periodo 2007, con la conseguenza che la confisca per equivalente è stata correttamente applicata ratione temporis, essendosi la relativa condotta consumata nell’anno 2008, con la presentazione della dichiarazione Iva, appunto per l’anno 2007.
Manifestamente infondate, in punto di diritto, risultano, poi, le considerazioni del ricorrente circa la necessaria pertinenzialità rispetto al reato dei beni che sono oggetto di sequestro preordinato alla confisca per equivalente e circa la necessità di escutere preventivamente il patrimonio della società.
Sotto il primo profilo, è sufficiente ricordare che, secondo quanto disposto dall’articolo 322 ter, primo comma, ultima parte, cod. pen., tale particolare tipologia di sequestro ha per oggetto beni di cui il reo ha la disponibilità che sono, per definizione, diversi da quelli che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, cui si riferisce la prima parte dello stesso comma in relazione all’ordinaria tipologia di sequestro.
Sul secondo di tali profili, questa Corte ha, poi, ampiamente chiarito che, in ipotesi di reati tributari commessi dall’amministratore di una società a responsabilità limitata, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente disposto ai sensi dell’art. 322 ter cod. pen., che abbia ad oggetto beni appartenenti a società medesima, è illegittimo, per l’inapplicabilità della confisca nei confronti di un soggetto diverso dall’autore del fatto. E ciò, in ragione della natura di sanzione penale di detta confisca e, ovviamente, salvo che la struttura societaria rappresenti un apparato fittizio utilizzato dal reo proprio per porre in essere reati di frode fiscale, sicché ogni cosa fittiziamente intestata alla società sia immediatamente riconducibile alla disponibilità dell’autore del reato. Deve, del resto, rilevarsi sul punto che gli artt. 24 e seguenti del decreto legislativo n. 231 del 2001 non prevedono i reati fiscali fra le fattispecie in grado di giustificare l’applicazione del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente previsto dall’art. 19, comma 2, del medesimo decreto legislativo (ex multis, sez. 3, 14 giugno 2012, n. 25774; sez. 3, 4 luglio 2012, n. 33371).
Quanto alla capienza dei patrimoni personali dei soci, deve rilevarsi che la stessa è meramente asserita dal ricorrente, a fronte di un sequestro che è riuscito a colpire somme corrispondenti a circa un decimo dell’imposta evasa. E ciò, a prescindere da! fatto che i soci sono soggetti estranei al presente procedimento.
Quanto, più in generale, all’asserita mancanza del periculum, deve rilevarsi che – anche a prescindere dall’assoluta genericità della relativa censura – la giurisprudenza di questa Corte ha ampiamente chiarito che il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente non richiede alcuna verifica in concreto della pericolosità attuale della disponibilità del bene sequestrato in capo all’imputato (ex plurimis, sez. 1, 27 ottobre 2009, n. 42894; sez. 3, 9 giugno 2011, n. 26389).
4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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