Corte di Cassazione sentenza n. 6501 del 26 aprile 2012
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO – SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ FISICA DEL LAVORATORE – LEGITTIMITA’ DEL RECESSO – ACCERTAMENTO – OGGETTO
massima
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Lo Statuto dei lavoratori non trova applicazione nei confronti dei soci di cooperative. Infatti, all’estensione della disciplina recata dalla legge 20 maggio 1970, n. 300, ostano la “ratio” della normativa, che direttamente si occupa dei prestatori d’opera subordinati, nonché il tratto di specialità che connota le disposizioni di cui, in particolare, al Titolo V del predetto Statuto, che si dirigono ai datori di lavoro, tra i quali non possono ricomprendersi le società cooperative, che non intrattengono con i soci lavoratori rapporti diversi da quelli sociali. Siffatta conclusione trova ulteriore conforto nel nuovo assetto assetto legislativo della materia cooperativistica – non applicabile “ratione temporis” alla controversia in esame – ma utilmente richiamabile – con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore (legge 3 aprile 2001, n. 142), nel quale risulta nettamente distinto il rapporto sociale da quello di lavoro (subordinato o autonomo in qualsiasi forma), obbligando le società cooperative alla stipulazione di distinti contratti di lavoro (art. 1, comma 2), con la previsione specifica dell’applicabilità della legge n. 300/1970 nella sua interezza – fatta eccezione per l’art. 18 ove la cessazione del rapporto sia conseguenza della cessazione del rapporto sociale – ai soli soci che stipulano un contratto di lavoro subordinato (art. 2, comma 1), mentre, per gli altri, è prevista l’applicazione dei soli artt. 1, 8, 14 e 15 e sancendo, infine, la competenza del giudice del lavoro sulla controversie inerenti ai rapporti di lavoro dei soci (subordinati o autonomi), ma non su quelle inerenti al rapporto associativo (art. 5, comma 2).
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- La sentenza attualmente impugnata rigetta l’appello di E.C. avverso la sentenza del Tribunale di Tivoli del 25 giugno 2007, la quale a sua volta ha rigettato la domanda dell’E. volta ad ottenere la dichiarazione di inefficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – intimatogli dalla I.H. Group s.p.a. (d’ora in poi: IHG) il 16 marzo 2004 – con la conseguente condanna della suddetta società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a corrispondergli l’importo delle retribuzioni dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, oltre agli accessori di legge.
La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:
a) il lavoratore lamenta l’errata valutazione del proprio stato di salute da parte del giudice di primo grado, in quanto questi ha considerato l’E. inidoneo al lavoro in modo permanente, mentre in nessun documento agli atti del giudizio è presente simile qualificazione della propria incapacità lavorativa;
b) tale censura è infondata perché dal complesso della motivazione della sentenza di primo grado si desume chiaramente che il Tribunale non ha effettuato la suddetta qualificazione avendo, anzi, evidenziato l’esistenza – in astratto – di mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, sull’evidente presupposto – non esplicitato, ma univoco – di una residua capacità lavorativa del ricorrente;
c) l’E. sostiene, poi, che il Tribunale ha omesso di pronunciarsi sulla propria istanza di nomina di c.t.u., ritualmente avanzata nel corso del giudizio di primo grado;
d) in effetti, nella sentenza di primo grado, non vi è espressa menzione di tale richiesta, però, dal complesso della motivazione si ricava in modo univoco un implicito rigetto della stessa da confermare in questa sede perché l’accertamento della sussistenza di una residua capacità lavorativa del ricorrente sarebbe comunque irrilevante, per le ragioni di seguito precisate;
e) del pari infondate sono la censure relative alla asseritamente errata valutazione delle prescrizioni mediche della ASL Roma G del gennaio 2004 e del medico di fiducia della società dell’ottobre 2002 nonché delle risultanze istruttorie in ordine all’obbligo di c.d. repechage;
f) quanto alle prescrizioni mediche, infatti, il lavoratore non considera nel dovuto modo il fatto che tra i due accertamenti medici si è verificato l’episodio dell’ictus cerebrale (avvenuto nel marzo 2003) che lo ha colpito e che giustifica un valutazione datoriale più prudente rispetto al passato in merito alla compatibilità delle mansioni con lo stato di salute del dipendente, in armonia con l’art. 32 Cost. e l’art. 2087 c.c.;
g) peraltro le due suddette prescrizioni non hanno contenuto identico: nella prima (del 2002) il lavoratore è considerato “idoneo con prescrizioni, esclusi lavori e turni gravosi”, nella seconda (del 2004) vi è l’espressa prescrizione di “evitare …. turni stressanti, stress psico-sociali e attività gravose” e vi è la specifica indicazione di assegnare “comunque al lavoratore compiti sedentari”;
h) quanto al c.d. repechage, bene ha fatto il Tribunale a considerare assolto il relativo obbligo datoriale, visto che, da un lato, la prova testimoniale ha dimostrato l’inesistenza di posti scoperti in organico comportanti lo svolgimento di compiti equivalenti o inferiori a quelli propri della qualifica di appartenenza dell’E., compatibili con l’adibizione a mansioni sedentarie, non stressanti e senza turni di lavoro notturni, come prescritto dalla ASL e dall’altro lato, dal libro matricola è emerso che le nuove assunzioni richiamate dall’E. compresa quella di Ca.P. – riguardano settori e mansioni non compatibili con lo stato di inidoneità fisica del ricorrente e con il profilo professionale da questi posseduto (in quanto sia il Pisani, sia il D.M. e il C. sono stati assunti come impiegati addetti all’ufficio contabilità e bilancio).
2 – Il ricorso di Cesare E. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, IHG.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1.- Con il primo motivo di ricorso si denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1463, 1464 e 2110 c.c., nonché dell’art. 15 del c.c.n.l. per il personale non medico dell’area privata, in relazione all’art. 2110 c.c.
Si contesta la affermazione della Corte d’appello secondo cui l’asserita impossibilità temporanea dell’E. allo svolgimento delle specifiche mansioni assegnategli è stata qualificata come “inidoneità permanente”.
Si sostiene che a tale erronea conclusione il Giudice del merito è pervenuto a causa della omessa ammissione della richiesta c.t.u. nonché della “insufficiente e distorta valutazione delle risultanze processuali” e, in particolare, delle testimonianze rese in primo grado e del libro matricola della società.
Si sottolinea che il lavoratore, sin dall’atto introduttivo del giudizio, ha chiesto che venisse stabilito se l’accertata inidoneità a svolgere le proprie mansioni avesse carattere “permanente” ovvero “temporaneo”, in quanto nel secondo caso non avrebbe potuto trovare applicazione l’art. 15 del menzionato c.c.n.l., per mancanza di una idonea causale di risoluzione del rapporto.
Al suindicato fine il lavoratore ha chiesto reiteratamente l’ammissione di una c.t.u., tanto più che le risultanze delle prove testimoniali (in particolare dei medici con i quali l’E. aveva lavorato) non erano coerenti con quanto emergeva dalle prove documentali, a loro volta di contenuto contrastante, come dimostrato dal confronto tra il referto medico dell’azienda che aveva affermato l’inidoneità del lavoratore e il referto della ASL di Tivoli che, invece, aveva accertato l’idoneità, seppure con prescrizioni aggiuntive e con l’esclusione di turni stressanti e notturni. La Corte d’appello, pur dando atto della omessa pronuncia del Tribunale sulla suddetta richiesta, ha contraddittoriamente desunto il rigetto implicito della stessa dalle complessive motivazioni della sentenza di primo grado.
In questo modo la Corte territoriale ha omesso di effettuare la verifica considerata essenziale dalla giurisprudenza di legittimità – della effettiva sussistenza della sopravvenuta incapacità parziale allo svolgimento della prestazione lavorativa qualificabile come “inidoneità permanente”.
Ciò si è tradotto in un errore dell’iter logico della motivazione, dato il carattere essenziale della suddetta verifica ai fini dell’esatta qualificazione della fattispecie sub judice.
2.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 15 del c.c.n.l. per il personale non medico dell’area privata e degli artt. 1463 e 1464 c.c., nell’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, in riferimento alla scorretta valutazione del libro matricola della società resistente. Si sottolinea, in particolare, come la Corte d’appello abbia ritenuto provato l’assolvimento del c.d. obbligo di repechage da parte della società datrice di lavoro in base all’esame del libro matricola di IHG, ma senza effettuare un’indagine comparativa tra le mansioni che l’E., nonostante la ridotta capacità lavorativa, avrebbe potuto svolgere e quelle concretamente svolte dal nuovo personale assunto nell’imminenza e successivamente al licenziamento del ricorrente, con particolare riguardo a Carlantonio Pisani – formalmente inquadrato nel libro matricola come “contabile” (qualifica presupponente delle competenze non in possesso dell’E.) in realtà adibito al “servizio reception” e, quindi, allo svolgimento di compiti di “portiere”, come tali del tutto compatibili con lo stato di salute dell’E.
II – Esame delle censure
3.- I motivi – da trattare congiuntamente, data la loro intima connessione non sono da accogliere, per le ragioni di seguito precisate.
In linea generale, va detto che tutte le doglianze si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni del materiale probatorio e dei convincimenti del Giudice del merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.
3.1.- Nel primo motivo la suddetta inammissibile richiesta è oltretutto formulata attraverso la prospettazione di vizi di violazione di legge e di norme della contrattazione collettiva, pur consistendo sostanzialmente nella contestazione della valutazione delle risultanze processuali operata dalla Corte d’appello, sull’assunto che una “insufficiente e distorta” disamina della prove testimoniali rese in primo grado e del libro matricola della società avrebbe indotto la Corte stessa a non ammettere la richiesta di c.t.u. dell’E..
Tale tipo di censura si pone, di per sè, in contrasto con il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. SU 5 maggio 2006, n. 10313; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 21 settembre 201 l,n. 19234).
3.2.- Peraltro, anche nel secondo motivo – ove il richiamo alla violazione di norme di legge e della contrattazione collettiva, contenuto nella relativa intestazione, appare del tutto formale, dato il tenore della esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che è l’elemento che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21484) – tutte le lagnanze, benché prospettate come vizi di motivazione, risultano in realtà dirette a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, si risolvono nel proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti. Sicché, anche in questo caso si tratta di doglianze non accoglibili, atteso che i suddetti aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (vedi, per tutte: Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064).
3.3.- Nella specie, peraltro, le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello – effettuate in conformità con i principi affermati da questa Corte in materia – sono congruamente motivate e l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Va, in particolare, ricordato che, in linea generale, secondo un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, in tema di prova spetta in via esclusiva al Giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (vedi per tutte: Cass. 15 luglio 2009, n. 16499 e Cass. 21 settembre 2011, n. 19234 cit.). La suddetta regola non subisce eccezioni nel rito del lavoro e vale, mutatis mutandis, anche con riguardo alla nomina del consulente tecnico d’ufficio.
Infatti, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 124 del 1995, dichiarativa della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 201 c.p.c., per la parte in cui autorizza la nomina dei consulenti tecnici di parte solo nel caso di nomina del consulente tecnico d’ufficio:
a) le consulenze tecniche (sia d’ufficio sia di parte) non costituiscono mezzi di prova perché non sono preordinate ad accertare fatti rilevanti ai fini della decisione, bensì ad acquisire elementi di valutazione ovvero a ricostruire circostanze attraverso una specifica preparazione, a scopo di controllo sugli elementi di prova acquisiti al processo e (nel caso della c.t.u.) in funzione ausiliaria del giudice;
b) esse tuttavia ineriscono all’istruzione probatoria;
c) comunque, la norma dell’art. 201 c.p.c., lascia sempre salva la possibilità per la parte di produrre in causa perizie stragiudiziali, integranti anch’esse semplici mezzi di difesa come le deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, soggette al libero apprezzamento del giudice.
Alle suesposte considerazioni va aggiunto che, in base ad una altrettanto consolidata giurisprudenza di questa Corte:
1) quando la nomina di un consulente tecnico non sia imposta dalla legge in considerazione della particolare natura della controversia, il giudice ha solo una facoltà di fare ricorso, anche di ufficio, al parere di un suo perito per le valutazioni che richiedono specifiche conoscenze tecniche (vedi per tutte: Cass. 14 febbraio 2006, n. 3187);
2) in materia di procedimento civile, la consulenza tecnica d’ufficio non costituisce un mezzo di prova, ma è finalizzata all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario, o quanto meno utile, per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze. La nomina del consulente rientra quindi nel potere discrezionale del giudice, che può provvedervi anche senza alcuna richiesta delle parti, sicché ove la parte ne faccia richiesta non si tratta di un’istanza istruttoria in senso tecnico ma di una mera sollecitazione rivolta al giudice affinché questi, avvalendosi dei suoi poteri discrezionali, provveda al riguardo (tra le molte: Cass. 21 aprile 2010, n. 9461). Né va omesso di considerare che, in linea generale, il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso e si traducano in un inutile dispendio di energie processuali e in formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass. SU 3 novembre 2008, n. 26373; Cass. 8 febbraio 2010, n. 2723; Cass. 23 febbraio 2010, n. 4342; Cass. 18 febbraio 2010, n. 3830; Cass. 18 dicembre 2009, n. 26773; Cass. 6 agosto 2010, n. 18375).
3.4.- La Corte romana, con riferimento alla valutazione dello stato di salute dell’E., ha confermato la statuizione di rigetto dell’istanza della c.t.u. (implicita nella sentenza di primo grado) sul rilievo della inutilità della effettuazione dell’esame, desunta dal materiale probatorio già acquisito.
Tale statuizione risulta supportata da idonea motivazione in quanto la Corte territoriale ha considerato che, dalle risultanze probatorie in atti, emergeva con chiarezza che: a) le condizioni di salute del lavoratore (che aveva la qualifica di infermiere) erano tali per cui egli avrebbe potuto svolgere solo mansioni aventi determinate caratteristiche (cioè di tipo sedentario, non stressanti e che non comportassero turni di notte); b) la società datrice di lavoro aveva dimostrato l’impossibilità di reimpiegare l’E. in mansioni equivalenti a quelle di appartenenza o anche inferiori, ma compatibili con il suo stato di salute, nell’ambito dell’organizzazione aziendale (dedicata al ricovero e cura di malati psichiatrici).
In questa situazione la richiesta c.t.u. sarebbe stata una “formalità superflua”, visto che a prescindere da questioni terminologiche, nella realtà la consulenza sarebbe stata finalizzata ad accertare dati che già emergevano con evidenza dalle risultanze istruttorie, in quanto non era in discussione l’esistenza di una generica residua capacità lavorativa dell’E. (elemento che, in ipotesi, la c.t.u. avrebbe potuto confermare), visto che anche l’azienda non la contestava.
Però era altrettanto provato che tale residua capacità lavorativa non avrebbe potuto essere più esplicata nell’ambito dell’azienda, avendo il datore di lavoro assolto adeguatamente l’obbligo del repechage posto a suo carico dimostrando, con la prova testimoniale e l’esibizione del libro matricola, che non esistevano posti scoperti in organico comportanti lo svolgimento di compiti equivalenti o inferiori a quelli propri della qualifica di appartenenza dell’E. (compatibili con le prescrizioni della ASL) e che le nuove assunzioni richiamate dall’E. – compresa quella di C.P. – riguardavano settori e mansioni non compatibili con lo stato di inidoneità fisica del ricorrente e con il profilo professionale posseduto (in quanto sia il Pisani, sia il D.M. e il C. sono stati assunti come impiegati addetti all’ufficio contabilità e bilancio).
3.5.- Le suddette statuizioni risultano conformi ai consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte secondo cui:
a) nel caso in cui per la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, venga intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per stabilire se la suddetta motivazione del recesso sia autentica, è necessario effettuare un accertamento congruo delle condizioni di salute del lavoratore, in quanto il licenziamento si può giustificare soltanto come soluzione estrema (arg. ex Cass. 20 maggio 2009, n. 11720; Cass. 27 marzo 2010, n. 7381);
b) la sopravvenuta inidoneità fisica e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso, non possono essere ravvisate nella sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore e restano escluse dalla possibilità di svolgere un’altra attività riconducibile alle mansioni assegnate o ad altre equivalenti ovvero, qualora ciò non sia possibile, a mansioni inferiori, sempre che questa attività sia utilizzabile all’interno dell’impresa, senza alterazioni dell’organigramma aziendale (Cass. 18 aprile 2011, n. 8832; Cass. 6 novembre 2002, n. 15593; Cass. 13 ottobre 2009, n. 21710);
c) è a carico del datore di lavoro l’onere di provare, con riferimento alla organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva (Cass. 20 maggio 2009, n. 11720; Cass. 27 marzo 2010, n. 7381);
d) il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040);
e) inoltre, può concorrere a provare la mancata effettuazione di altre assunzioni nel periodo seguente il licenziamento per le medesime mansioni già assegnate al lavoratore licenziato anche l’esibizione da parte del datore di lavoro del libro matricola, se completo e tenuto in conformità con la legge (arg. ex Cass. 8 marzo 2011, n. 5512; Cass. 26 gennaio 1984, n. 624).
3.6.- A tale ultimo riguardo, deve essere precisato che i libri contabili che il datore di lavoro privato è obbligato a tenere (cioè il libro paga e il libro matricola previsti dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 20 e 21, sostituiti, con decorrenza 10 febbraio 2012, dal libro unico del lavoro, di cui al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 39, convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133) sono formati dallo stesso datore di lavoro. Ciò implica che i dati in essi contenuti hanno una diversa efficacia probatoria a seconda del contesto in cui si utilizzano, cioè in particolare se a favore o contro il datore di lavoro.
Se la loro utilizzazione avviene in favore del datore di lavoro, non solo la tenuta dei libri deve risultare regolare e completa, ma le registrazioni in essi contenute (di cui, ad esempio, si voglia giovare il datore di lavoro per dimostrare il numero complessivo e la qualifica dei dipendenti occupati) possono essere validamente contestate dalla controparte, con eventuali contrari mezzi di difesa o semplicemente con specifiche deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, che ne dimostrino l’inesattezza e la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (arg. ex Cass. 18 luglio 1985, n. 4243; Cass. 29 maggio 1998, n. 5361; Cass. 1 ottobre 2003, n. 14658).
Nel libro matricola, in particolare, devono essere “iscritti, nell’ordine cronologico della loro assunzione in servizio e prima dell’ammissione al lavoro, tutti i prestatori d’opera” (vedi art. 20 del D.P.R. n. 1124 del 1965 cit.).
Nella specie, il ricorrente non riferisce di aver contestato in modo efficace le risultanze del libro matricola esibito dalla società IHG, ma sostiene apoditticamente e senza supportare adeguatamente il suo assunto in questa sede, con il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che le mansioni in concreto svolte da uno dei neoassunti (il Pisani) sarebbero state diverse da quelle indicate nel libro matricola stesso. Ne consegue che, per questo profilo, la censura è inammissibile.
IV – Conclusioni
4.- In sintesi, per le suesposte ragioni, il ricorso deve essere rigettato.
La natura delle questioni trattate e la qualità delle parti giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
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