CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2013, n. 22010
Tributi – Imposte sui redditi – Accertamento – Elusione fiscale – Transfer pricing – Sussiste
Ritenuto in fatto
1. A seguito di una verifica fiscale effettuata presso la S.G.L. C. s.p.a., relativamente all’ anno di imposta 2004, i cui risultati venivano trasfusi nel processo verbale di accertamento del 5.7.07, veniva notificato alla contribuente, in data 17.9.01, un avviso di accertamento, emesso dall’Amministrazione finanziaria ai fini IRAP ed IRES per l’anno in questione.
1.1. Con l’atto impositivo – per quel che interessa nel presente giudizio – l’Ufficio recuperava a tassazione, ai fini IRES, gli interessi passivi indebitamente dedotti, in misura di 6 267.621,86, su un finanziamento erogato dalla società capogruppo tedesca S.G.L. C. A. G. alla società italiana S.G.L. C. s.p.a. L’Amministrazione finanziaria riteneva, infatti, che il tasso di interesse applicato alla suddetta operazione infragruppo fosse notevolmente superiore a quello medio praticato nel mercato tedesco, e risultante dai relativi bollettini ufficiali, sì da ingenerare il convincimento che si trattasse di un’operazione elusiva (in violazione dell’art. 110, co. 7 d.P.R. 917/86) diretta, mediante levitazione dei costi, a ridurre il reddito imponibile della contribuente ai fini IRES, incrementando quello della capogruppo tedesca.
2. L’avviso di accertamento veniva, quindi, impugnato dalla S.G.L. C. s.p.a. dinanzi alla CTP di Milano, che accoglieva il ricorso. L’appello dell’Agenzia delle Entrate veniva, tuttavia, accolto dalla CTR della Lombardia con sentenza n. 162/32/10, depositata il 20.12.10, con la quale – in riforma della decisione di primo grado – il giudice di seconde cure riteneva indeducibili, per la sussistenza dì un’evidente operazione di transfer pricing, gli interessi passivi sul predetto finanziamento, poiché il tasso pattuito nella transazione sarebbe stato superiore a quello praticato mediamente sul mercato finanziario tedesco. E ciò, al fine di abbattere – mediante la deduzione del relativo costo – gli utili prodotti in Italia, in conseguenza della più severa tassazione italiana rispetto a quella tedesca.
3. Per la cassazione della sentenza n. 162/32/10 ha proposto ricorso la contribuente, articolando tre motivi, ai quali l’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Considerato in diritto
1. Con i tre motivi di ricorso – che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – la S.G.L. C. s.p.a. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 110, co. 7 d.P.R. 917/86, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
1.1. La CTR sarebbe, invero, pervenuta – con motivazione insufficiente e contraddittoria – alla conclusione dell’esistenza, ne«l caso di specie, di un’operazione di transfer pricing, avente ad oggetto la levitazione dei scosti di impresa ottenuta dalla contribuente italiana corrispondendo alla società mutuante tedesca interessi passivi ad un tasso superiore a quello di mercato, senza, peraltro, accertare – ai fini di stabilire il carattere elusivo dell’operazione – se effettivamente la fiscalità in Italia fosse superiore, all’epoca dell’erogazione del mutuo, di quella in vigore in Germania, Paese di residenza del soggetto mutuante.
1.2. Il che non avrebbe consentito al giudice di appello – a parere della S.G.L. C. s.p.a., – di stabilire quale sarebbe stato il vantaggio fiscale ottenuto in termini di gruppo societario; e ciò in violazione anche del principio secondo cui l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava in ogni caso sull’Amministrazione finanziaria che intenda operare le relative rettifiche reddituali.
2.Il ricorso è infondato.
3. La vicenda in esame ripropone, invero, la complessa e delicata problematica del ed. transfer price o transfer pricing (la prima espressione pone l’accento sul profilo statico del fenomeno, la seconda su quello dinamico), che si incentra sulla corretta applicazione della normativa in materia di prezzi di trasferimento tra parti correlate. Tale normativa ha – per vero – la finalità di consentire all’Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti “artificiali” di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite.
3.1. Un ruolo centrale in tale prospettiva assume oggi, nel nostro ordinamento, l’art. 110, co. 7 del d.P.R. n. 917/86, a norma del quale “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente controllano l’impresa o ne sono controllate, o che sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa nazionale, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato a norma del comma 2 (che richiama l’art. 9 del medesimo decreto) se ne deriva aumento del reddito”. La ratio della disposizione in oggetto è del tutto evidente.
3.1.1. La norma succitata costituisce, di fatti, – in conformità con le linee guida fissate dall’art. 9 del modello di convenzione fiscale OCSE del 1995-1996 – una deroga al principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale (art. 109 del d.P.R. 917/86). Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del Fìsco italiano, come nel caso degli scarabi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono – per vero – sostituiti, per volontà di legge, dal “valore normale” dei beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco italiano.
3.1.2. L’art. 9 del succitato modello di convenzione fiscale OCSE, al quale, come detto, si è ispirata la normativa nazionale, difatti, recita: “quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza”.
3.1.3. Sotto il profilo in esame, dunque, può dirsi che la previsione in parola completi il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell’Erario, con riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito – data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra articolazioni dello stesso gruppo – può non riflettere il reale valore dei beni e dei servizi scambiati. La disposizione di cui al co. 7 dell’art. 110 d.P.R. 917/86, pertanto, in presenza di norme specificamente dirette ad impedire il dirottamento di flussi reddituali, ad esempio verso Paesi a fiscalità agevolata (co. 10, 11 e 12 dell’art. 110, artt. 167 e 166 d.P.R. 917/86), mediante condotte “simulatorie” danti luogo a fenomeni di tipo “evasivo”, ha la finalità ulteriore di evitare che, mediante fenomeni non simulatori – e perciò “elusivi” come l’alterazione del prezzo di trasferimento del bene o di cessione del servizio, l’Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio.
3.2. Per tali essenziali connotazioni, pertanto, deve ritenersi che la disciplina succitata costituisca – secondo l’interpretazione più diffusa anche nella giurisprudenza di questa Corte – una “clausola antielusiva”, in linea con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare che all’ interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine dì sottrarli all’ imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori (cfr. Cass. 22023/06, 11226/07, 11949/12), o comunque a favore di situazioni che rendano fiscalmente conveniente l’imputazione dì utili ad articolazioni del gruppo diverse da quelle nazionali. 3.3. Da quanto fin qui esposto, si deduce, pertanto, che il profilo più complesso e delicato, in relazione all’applicazione della disciplina in esame – e la cui corretta impostazione si palesa decisiva per la risoluzione del caso di specie – è costituito dall’ individuazione del “valore normale”, ai sensi dell’art. 9, co. 3 d.P.R. 917/86, al quale l’Amministrazione finanziaria ancora la determinazione del componente del reddito dì impresa, costituito dal corrispettivo derivante dalla cessione di beni o servizi effettuata tra società appartenenti allo stesso gruppo. Il problema che si pone al riguardo, sul piano interpretativo, concerne anzitutto il rapporto tra la prima e la seconda parte del co. 3 dell’art. 9 del decreto cit.
3.3.1, Ed invero, va osservato, in proposito, che la disposizione di cui al co. 3 dell’art. 9, nella prima parte, definisce il “valore normale” come “il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”. La seconda parte della medesima disposizione, poi, enuncia i criteri “per la determinazione del valore normale”, disponendo che debba farsi riferimento, a tal fine, “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”. Ne discende che, tra i diversi criteri indicati dal modello OCSE del 1995, per la valutazione dei corrispettivi delle transazioni commerciali tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, il legislatore italiano ha prescelto quello del “confronto del prezzo” (comparable uncontrolled price method), la cui disciplina si articola nella prima e seconda parte – summenzionate – del co. 3 dell’art. 9 del d.P.R. 917/86.
3.3.2. Orbene, deve ritenersi che il criterio prioritario per stabilire il “valore normale” dei corrispettivi, nelle operazioni intercorse tra imprese appartenenti ad un gruppo multinazionale, non possa essere che quello enunciato dalla seconda parte del co. 3 dell’ art. 9 d.P.R. 917/86, che disciplina specificamente le modalità “per la determinazione” del valore in questione – secondo cui deve farsi riferimento “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso”. La norma, in altri termini, impone all’Amministrazione di prendere in considerazione, nell’accertamento del reddito dì impresa, in via principale, i “listini” e le “tariffe” del venditore dei beni o del prestatore di servizi a società dello stesso gruppo, tenuto conto anche degli sconti che il medesimo è usualmente disposto a praticare nel mercato di appartenenza. Quindi – in caso di inesistenza, di inapplicabilità, o di inattendibilità del listino o della tariffa – la medesima disposizione dispone di prendere in esame, in via subordinata, i “mercuriali” ed i “listini delle camere di commercio”, o le “tariffe professionali”.
3.3.3. Ne discende che la definizione del “valore norma le” contenuta nella prima parte del co. 3 del citato art. 9 – sebbene non possa essere intesa come una mera declaratoria di principio, avendo anch’ essa un innegabile valore precettivo – svolge, tuttavia, un ruolo sussidiario e suppletivo, rispetto a quello prioritario svolto dai criteri per la “determinazione” del valore normale dei prezzi per le cessioni infragruppo. Siffatta definizione opera, cioè, nel solo caso in cui il riferimento ai listini, alle tariffe ed ai mercuriali, in uso nel mercato del cedente, si riveli di nessuna utilità pratica, per la loro inesistenza, inapplicabilità, o inattendibilità.
3.3.4. In considerazione di quanto suesposto, è – pertanto – del tutto evidente che nell’applicazione del metodo del “confronto di prezzo” occorre dare preferenza al ed. confronto interno, basato sui listini e le tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi nel rapporto tra tale soggetto ed un’impresa indipendente, atteso che è ai suddetti elementi documentali di raffronto che l’Amministrazione deve anzitutto riferirsi, “in quanto possibile”, e tenuto conto di eventuali “sconti d’uso”. In seconda battuta, l’Amministrazione dovrà fare riferimento alle mercuriali ed ai listini delle camere di commercio, ovvero alle tariffe professionali, nell’esame delle transazioni comparabili tra imprese indipendenti (cd. confronto esterno) appartenenti allo stesso mercato, ossia a quello del soggetto fornitore dei beni o dei servizi. Infine, ed in via del tutto sussidiaria e suppletiva, l’Ufficio potrà fare ricorso – ai sensi della prima parte del co. 3 dell’art. 9 succitato – al prezzo “mediamente praticato” ed in “condizioni di libera concorrenza” per beni o servizi similari, “nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”.
3.4. Tutto ciò premesso, risulta – di conseguenza -del tutto evidente che, nel caso concreto, l’Amministrazione finanziaria si è correttamente uniformata ai criteri suesposti.
3.4.1. Ed invero, l’Ufficio ha proceduto – come si desume dall’avviso di accertamento, trascritto nel ricorso nei suoi punti essenziali – a verificare il valore normale del tasso di interesse relativo alla transazione intercorsa tra le due società, facendo riferimento al mercato del mutuante, e sulla base dei bollettini ufficiali della BundesBank tedesca, in conformità al disposto dell’art. 9, co. 3, seconda parte del d.P.R. 917/86.
3.4.2. Sulla scorta di tali dati, quindi, l’Ufficio ha accertato che il tasso d’interesse medio praticato sul mercato finanziario-creditizio tedesco, ovvero dello Stato di residenza del soggetto mutuante, “è inferiore a quello adottato per l’operazione di finanziamento in commento”. Se ne , pertanto, tratta la conclusione – del tutto corretta, per quanto dianzi esposto – della indeducibilità fiscale, dal reddito societario rilevante ai fini IRES, dei costi rappresentati da detti interessi, evidentemente maggiorati allo scopo di accrescere gli utili della capogruppo tedesca, diminuendo quelli della consorella italiana per sottrarli alla tassazione nazionale, in palese violazione dell’art. 110, co. 7 del decreto cit.
3.5. Né giova alla ricorrente dedurre il difetto di prova, da parte dell’Amministrazione, in ordine al presunto trattamento fiscale più favorevole in capo alla capogruppo tedesca.
Ed invero, l’onere della prova gravante sull’ Ufficio – nella materia in esame – resta limitato alla dimostrazione dell’esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell’operazione. Per contro, a fronte degli elementi probatori offerti dall’Amministrazione, incombe sul contribuente l’onere di dimostrare – in forza del principio di vicinanza della prova, desumibile dall’art. 2697 c.c. – non soltanto l’esistenza e l’inerenza dei costi dedotti, ma anche ogni altro elemento che consenta all’Ufficio di ritenere che la transazione sia intervenuta per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua del disposto di cui all’art. 9, co. 3 del d.P.R. 917/86 (cfr. Cass. 11949/12, 10742/13).
Ebbene, nel caso di specie, a fronte dell’ allegazione, da parte dell’ Ufficio, di dati desumibili – in conformità alla disposizione succitata – dai listini ufficiali della BundesBank, non risulta siano stati offerti dalla contribuente elementi di prova di segno contrario, atti a far ritenere che il corrispettivo (interessi passivi) del mutuo erogato dalla società tedesca fosse in linea con quello medio praticato sul mercato della mutuante.
4. Per tutte le ragioni suesposte, pertanto, il ricorso proposto dalla S.G.L. C. s.p.a. deve essere rigettato, con conseguente condanna della medesima al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in €. 8.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
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