CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2013, n. 23719
Tributi – IRAP – Rimborso – Avvocato – Requisito autonoma organizzazione – Collaborazione con lo studio associato – Prova – Limiti
Svolgimento del processo
In relazione alle distinte istanze presentate in data 17.9.2002 ed in data 8.8.2003 dal contribuente P.P.B., volte ad ottenere il rimborso delle imposte indebitamente versate a titolo IRAP, rispettivamente, per gli anni 1998-2002 (primo semestre) e 2002 (secondo semestre)-2003, l’Ufficio finanziario opponeva alla prima il silenzio-rifiuto, mentre provvedeva sulla seconda emettendo formale atto di diniego.
Il ricorso proposto dal contribuente era accolto dalla CTP di Milano con sentenza 22.3.2004 n. 34 che condannava l’Amministrazione finanziaria al rimorso della complessiva somma di € 7.368,48 oltre interessi.
Con sentenza in data 9.6.2006 n. 20 l’appello principale dell’Ufficio finanziario era parzialmente accolto dalla Commissione tributaria della regione Lombardia ed era, invece, rigettato l’appello incidentale del contribuente.
I Giudici territoriali:
– dichiaravano la decadenza del contribuente ex art. 38 Dpr n. 602/1973 dal rimborso del versamento IRAP, pari a lire 1.275.000, eseguito in data 8.6.1998, essendo stata presentata la istanza di rimborso soltanto in data 19.9.2002;
– dichiaravano non dovuto il rimborso IRAP relativo alla imposta versata per l’anno 2003, non avendo il contribuente assolto all’onere della prova della mancanza del requisito della autonoma organizzazione nello svolgimento della propria attività professionale di avvocato
– confermavano la sentenza di prime cure quanto al diritto del contribuente al rimborso della imposta indebitamente versata per la complessiva somma di € 5.383,48 oltre interessi, ritenendo provata per gli anni 1998-2002 l’assenza di una autonoma struttura collegata all’attività professionale e dunque la mancanza del presupposto impositivo.
Avverso la sentenza di appello ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il contribuente deducendo otto mezzi di impugnazione corredati di quesito di diritto.
Ha resistito la Agenzia delle Entrate con controricorso e contestuale ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, in ordine al quale il contribuente ha controdedotto depositando controricorso.
Motivi della decisione
1. La sentenza di appello dopo aver rilevato che l’elemento caratterizzante la imposta va individuato nell’utilizzo di una autonoma struttura idonea ad incrementare la ricchezza prodotta e che grava sul contribuente che svolga attività di lavoro autonomo dimostrare di non essersi avvalso di tale struttura, ha ritenuto raggiunta detta prova con riferimento agli anni di imposta 1998-2002, in quanto dall’esame delle dichiarazioni dei redditi (quadro RE) risultava che il professionista nello svolgimento dell’attività lavorativa utilizzava soltanto un computer ed una stampante – avendo dedotto quote di ammortamento per beni strumentali per importi minimi e proporzionalmente insignificanti rispetto al reddito annuale dichiarato, non disponeva di personale alle proprie dipendenze, e negli anni 2001 e 2002 aveva corrisposto compensi di modesta entità a terzi per rapporti occasionali di collaborazione.
I Giudici di merito non ritenevano invece, raggiunta tale prova per l’anno d’imposta 2003, non essendo stata prodotta per tale anno copia del quadro RE della relativa dichiarazione dei redditi, ed accertavano inoltre che il contribuente era incorso nella decadenza biennale ex art. 38 Dpr n. 602/1972 quanto alla istanza di rimborso concernente le somme versate a titolo di IRAP in data 8 giugno 1998.
Il ricorrente con i primi tre motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente attesa la stretta connessione logica, censura la sentenza di appello, in relazione all’art. 360 co 1 n. 4) c.p.c., deducendo vizi di nullità dell’attività processuale per violazione degli arti. 49, 53, 56 D.lgs n. 546/1992, 112, 324 e 329 c.p.c. (primo motivo); dell’art. 53 D.lgs n. 546/1992 (secondo motivo); degli artt. 23 e 61 Dlgs n. 546/1992, 115 c.p.c. e 2697 c.c. (terzo motivo).
I Giudici territoriali, secondo l’assunto del ricorrente, avrebbero illegittimamente esteso l’oggetto del giudizio anche all’accertamento compiuto dai primi giudici secondo cui risultava provato che il contribuente, negli anni in questione, aveva svolto “attività di avvocato presso terzi come dipendente, senza dotazione personale” e non aveva affrontato spese per personale dipendente o beni strumentali. Tale accertamento, che non era stato investito dai motivi dell’atto di appello – atto nel quale difettava la sommaria esposizione di quei fatti e che, dunque, avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, doveva ritenersi coperto dal giudicato interno, atteso che l’Amministrazione finanziaria aveva impugnato la sentenza di primo grado limitatamene alla questione di diritto concernente il riconoscimento in “re ipsa” dell’elemento della autonoma organizzazione nell’esercizio della attività di lavoro autonomo svolta dal professionista.
2.1. l motivi sono infondati.
2.2. Il carattere non formalistico della disposizione di cui all’art. 53 del Dlgs n. 546/1992 è stato ampiamente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato come la esposizione degli specifici motivi di gravame non sia condizionata ad un contenuto topografico vincolato nel ricorso di appello, né a rigidi canoni formali, con la conseguenza che “gli elementi idonei a rendere “specifici” i motivi d’appello possono essere ricavati, anche per implicito, purché in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni (cfr. Corte cass. V sex. 19.1.2007 n. 1224; id. Vsez. 12.1.2009 n. 346; id. V sez. 31.3.2011 n. 7393).
La “esposizione sommaria dei fatti”, quale elemento costitutivo dell’atto processuale, assolve, pertanto, ad una funzione esplicativa ed integrativa del “requisito di specificità” dei motivi di gravame, essendo diretta a portare a conoscenza del Giudice della impugnazione, in modo chiaro e preciso, i fatti che assumono rilevanza in relazione all’oggetto del giudizio (nei limiti dell’effetto devolutivo) in quanto indispensabili a comprendere nei suoi esatti termini la critica che viene mossa ai capi o punti della sentenza investiti dal gravame (cfr. Corte cass. I sez. 22.6.1999 n. 6312; vedi: Corte cass V sez. 17.7.2008 n. 19639 secondo cui l’errore nella esposizione del fatto è irrilevante qualora “la sentenza impugnata sia correttamente individuata e i motivi di gravame siano congruenti da ultimo Corte cass. SU 11.4.2012 n. 5698, con riferimento all’art. 366 co 1 n. 3) c.p.c., secondo cui la esposizione dei fatti processuali non deve riguardare la intera vicenda processuale, palesandosi in tal guisa superflua, ma solo quegli elementi che risultino necessari alla comprensione dei motivi).
Ne consegue che l’esposizione sommaria dei fatti nell’atto di appello può dirsi soddisfatta quando l’atto di appello fornisca, sia pure indirettamente attraverso l’argomentazione dei motivi di doglianza, gli elementi necessari per l’individuazione dell’oggetto del giudizio e dei termini della controversia (cfr. Core cass. IlI sez. 13.11.2002 n. 15930; id. sez, lav. 3.1.2005 n. 21, entrambe con riferimento all’art. 342 c.p.c.).
Né è dato pervenire a diversa conclusione in considerazione della formulazione testuale dell’art. 53 comma 1 Dlgs n. 546/1992, laddove viene comminata la sanzione della inammissibilità dell’atto di appello “se manca od è assolutamente incerto uno degli elementi sopra indicati”.
La formulazione lessicale della norma, apparentemente diversa dal corrispondente art. 342 c.p.c., non può, infatti, dare luogo – in considerazione della identica funzione processuale svolta dall’atto di impugnazione nel giudizio civile ed in quello tributario, che è quella di formulare in modo chiaro ed univoco la critica rivolta alla sentenza impugnata da devolvere all’esame del Giudice della impugnazione – ad interpretazioni di tipo formalistico che prescindano dalla esigenza oggettiva cui la norma processuale intende soddisfare mediante la disciplina dei requisiti dell’atto di impugnazione.
Tale orientamento trova fondamento, nel giudizio tributario, in una attenta rimeditazione sulla applicazione delle norme processuali che comminano sanzioni di inammissibilità. Pertanto, anche sulla scorta delle pronunce 13.6.2000 n. 189 e 6.12.2002 n. 520 emesse dal Giudice delle Leggi (che hanno ribadito la necessità di una interpretazione di tali norme “in armonia con un sistema processuale che deve garantire la tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità che si risolvano a danno del soggetto che si intende tutelare”), questa Corte è pervenuta ad elaborare principi interpretativi restrittivi delle predette norme (“in base al canone ermeneutico secondo il quale è necessario dare alle norme processuali in genere, ed a quelle sul processo tributario in particolare, una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia che è istituzionalmente propria del processo e, però, consenta, per quanto possibile, di limitare al massimo l’operatività di irragionevoli sanzioni di inammissibilità in danno delle parti che di quella garanzia dovrebbero giovarsi”: Corte cass V sez. 8.9.2004 n. 18088; Corte cass V sez. 10.3.2006 n. 5356; Corte cass. V sez.
n. 6391; Corte cass. V sez. 15.6.2010 n. 14389) affermando il principio che il definitivo sacrificio dell’interesse ad agire del contribuente può essere giustificato (id est reso compatibile con il diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.) soltanto nei casi in cui la particolare gravità del vizio che affligge l’atto introduttivo ed il conseguente impedimento alla prosecuzione del giudizio siano giustificati dal preminente interesse pubblico alla soddisfazione di quelle esigenze (appunto la tutela effettiva dei diritti) che la legge persegue nell’interesse generale attraverso il regolare svolgimento della funzione giudiziaria (ed il processo), e dunque soltanto nei casi in cui il vizio di forma sanzionato a pena di inammissibilità corrisponda ad un vizio di sostanza, o perché l’atto viziato viene a pregiudicare altri interessi di natura sostanziale o processuale (ritenuti dalla legge prevalenti), o perché il vizio è tale da non consentire di ricondurre l’atto, come in concreto compiuto, nello schema del modello legale della fattispecie disciplinata dalla norma processuale.
2.3. Tanto premesso la circostanza dedotta dal ricorrente principale secondo cui l’Amministrazione finanziaria appellante avrebbe omesso di riferire nell’atto di impugnazione che il contribuente si era difeso sostenendo di non impiegare una propria organizzazione di capitale o lavoro altrui, svolgendo prestazioni forensi nell’ambito di studi legali organizzati da altri professionisti dai quali percepiva compensi, si palesa irrilevante ai fini della ammissibilità dell’appello ex art. 53 Dlgs n. 546/1992, sia in quanto tale asserita lacuna non rende “ex se” inintelligibili i motivi di gravame (non avendo la CTR lombarda incontrato alcuna difficoltà ad esaminare e decidere nel merito i motivi di impugnazione), sia in quanto la pur stringata indicazione della natura dell’attività (lavoro autonomo) e dell’oggetto del giudizio (rimborso IRAP) contenuta nell’atto di appello assolve al requisito minimo della norma processuale.
2.4. Il secondo motivo è dunque infondato, avendo la CTR lombarda correttamente ritenuto implicitamente ammissibile il gravame.
2.5. Infondati sono anche gli altri motivi (primo e terzo) non potendo ravvisarsi la intervenuta formazione del giudicato interno in relazione all’accertamento dei fatti costitutivi della pretesa di rimborso compiuto dal Giudice di prime cure.
Premesso che la statuizione del Giudice di prime cure, valutata nel suo complesso, appare fondata, non sulla esclusione della soggettività passiva del contribuente quale “lavoratore dipendente” estraneo alle categorie assoggettabili ad imposta di cui all’art. 3 co 1 Dlgs n. 446/1997 (circostanza che avrebbe reso superflua qualsiasi ulteriore indagine in fatto), quanto piuttosto sull’accertamento negativo di altri elementi costitutivi della fattispecie tributaria (e specificamente l’assenza di autonoma organizzazione: cfr. sentenza 1° grado, riportata a pag. 4 ricorso per cassazione: “la posizione del ricorrente, pertanto, rientra pienamente nel concetto di assenza di organizzazione…”) che, all’opposto, presuppongono la soggettività passiva del contribuente in quanto appartenente alla categoria dei lavoratori autonomi (art. 3 co 1 lett. c Dlgs n. 446/1997), tanto premesso rileva il Collegio che dalla lettura dello stesso ricorso per cassazione (pag. 5) emerge che la Amministrazione finanziaria, con l’atto di appello, aveva investito la sentenza di primo grado censurandola proprio in punto di accertamento in fatto relativo alla insussistenza del requisito della “autonoma organizzazione” (cfr. atto appello: “…il contribuente non è totalmente privo di elementi di organizzazione risulta che lo stesso possedeva beni strumentali di un certo rilievo…lo dimostra il fatto che ammortizzava per quote nel tempo il valore degli stessi e in certi anni di imposta si serviva di collaboratori … si veda il quadro RE delle varie dichiarazioni dei redditi …”).
Tanto è sufficiente, avuto riguardo alla richiamata giurisprudenza di questa Corte in tema di specificità dei motivi di gravame, a ritenere che non via stata alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il “quantum appellatum” ed il “tantum devolutimi”, dovendo ritenersi ricompresa nell’oggetto del giudizio di gravame la verifica degli elementi costitutivi della fattispecie tributario sotto entrambi i profili del dato organizzativo – materiale e della capacità soggettività del lavoratore autonomo di realizzare ed autogestire l’apparato di supporto.
Ed infatti anche a volere rimarcare nella statuizione del primo giudice – come sembra sottolineare il ricorrente – l’affermazione della esclusione della autonomia soggettiva del contribuente in quanto soggetto ad “etera – direzione” ed ipotizzare riferita a soggetti terzi la organizzazione del lavoro svolto dal professionista (cfr. motivazione sentenza di 1° grado riportata in stralcio a pag. 4 ricorso per cassazione: il contribuente “svolge attività di avvocato presso terzi come dipendente…”), rileva il Collegio che la censura dell’Ufficio appellante ha devoluto al Giudice del gravame la questione del presupposto impositivo della “autonoma organizzazione” nella sua complessità e dunque in relazione ad entrambi gli elementi fattuali che compongono tale definizione normativa: il requisito impositivo è infatti inerente, tanto al fatto organizzativo considerato nella sua oggettività (individuazione del complesso dei beni e delle risorse umane strumentalmente impiegati nell’attività lavorativa), quanto al fatto organizzativo considerato nel suo aspetto dinamico di attività di predisposizione di mezzi e risorse umane, strumentali all’attività professionale, imputabile a scelte decisionali proprie del lavoratore autonomo (capacità di direzione ed integrazione di un apparato di supporto funzionale ad incrementare lo svolgimento della propria attività lavorativa), che costituisce l’indefettibile presupposto del risultato organizzativo.
Orbene avendo l’Ufficio finanziario, con il motivo di gravame (come peraltro emerge dallo stesso ricorso per cassazione del contribuente), contestato la statuizione dei primi giudici, da un lato, indicando gli elementi indiziari della “autonoma organizzazione” desunti dalle stesse dichiarazioni dei rediti e documenti depositati dal contribuente – che i Giudici di merito avrebbero trascurato di esaminare, e, dall’altro, deducendo l’argomento in diritto secondo cui il mero svolgimento di attività di lavoro “autonomo” integrerebbe “ex se” il fenomeno della cd. “auto-organizzazione” (id est: a prescindere da ogni ulteriore indagine sulla esistenza di una struttura organizzativa “esterna”, idonea ad incrementare il risultato economico dell’attività lavorativa), ne consegue che la impugnazione dell’Ufficio, in quanto rivolta alla dimostrazione dell’indicato requisito del presupposto impositivo unitariamente considerato, non può ritenersi limitata al solo momento statico-oggettivo ma si estende anche all’indefettibile momento dinamico – soggettivo, venendo quindi a sottoporre, nuovamente, all’esame del Giudice di appello anche l’accertamento della imputabilità al contribuente delle modalità organizzative dell’attività professionale.
2.7 Correttamente, pertanto, i Giudici territoriali hanno sottoposto a nuovo esame le evidenze processuali dei fatti allegati dalle parti rispettivamente a sostegno e negazione della esistenza di una “autonoma organizzazione” dell’attività lavorativa svolta dal contribuente, non essendosi formato giudicato interno su tale punto controverso.
La pronuncia del Giudice di appello va, pertanto, esente dal denunciato vizio di extrapetizione.
Con il quarto motivo il ricorrente censura la sentenza di appello per violazione della regola generale del riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 co 1 n. 3) c.p.c., in quanto i Giudici territoriali avrebbero erroneamente addossato al contribuente, vittorioso in primo grado, anziché all’Ufficio appellante l’onere della dimostrazione della mancanza di una autonoma struttura organizzativa.
II motivo è infondato.
Il ricorrente, infatti, viene a trasporre impropriamente nella presente controversia il principio enunciato nel precedente di questa Corte reso a SS.UU. 23.12.2005 n. 28498 secondo cui dal carattere ‘‘chiuso” del giudizio di appello – in quanto circoscritto all’esame di quei soli capi o punti della sentenza impugnata investiti dagli specifici motivi di gravame – viene fatto derivare l’onere per l’appellante di fondare probatoriamente le allegazioni in fatto poste a base della critica mossa alla decisione di prime cure, con la conseguenza che “è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame o comunque attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ., di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, perché questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, per cui egli subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte (nella specie rimasta contumace), quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice di appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare”.
Tale affermazione di principio -che vede schierata la prevalente dottrina su posizioni nettamente contrarie-, nel caso specifico sottoposto all’esame delle SS.UU., veniva a risolvere la questione concernente l’onere della prova -nel giudizio di appello – dei fatti costitutivi della domanda proposta dalla parte vittoriosa in primo grado, statuendo che il Giudice di secondo grado – avuto riguardo alla evoluzione processuale della disciplina normativa che era venuta a configurare il giudizio di appello come “revisio prioris istantiae” – non deve estendere la propria cognizione, “nuovamente” su tutti indifferentemente gli elementi costitutivi della fattispecie normativa nella quale sono stati sussunti i fatti come allegati e provati nel precedente grado di giudizio, ma deve limitarsi all’esame di quei soli elementi della fattispecie portati alla sua conoscenza dalla parte appellante (principale od incidentale) nonché dalla eventuale riproposizione delle “domande ed eccezioni non accolte” ex art. 346 c.p.c. (in applicazione del principio “tantum devolutimi, quantum appellatimi”).
Ne consegue che a fronte di un accertamento del diritto contenuto nella sentenza di primo grado, il Giudice di appello non dovrà procedere sempre e comunque ad una nuova verifica probatoria dei fatti costitutivi dei diritto, ma dovrà limitarsi a vagliare la consistenza probatoria di quei soli fatti rilevanti, accertati in primo grado, che siano oggetto di specifica critica dell’appellante il quale adduca la pretermissione o la errata valutazione dei fatti costitutivi (in caso di impugnazione proposta dall’attore) ovvero dei fatti impeditivi od estintivi (in caso di impugnazione proposta dal convenuto) del diritto, secondo quanto è emerso dalla istruttoria del giudizio di primo grado (id est dalle prove prodotte da entrambe le parti ed acquisite al processo). Ne deriva quale necessitata conseguenza che l’appellante è tenuto -in virtù della generale regola del riparto di cui all ‘art. 2697 c.c.- non soltanto ad individuare specificamente le statuizioni della sentenza impugnata che ritiene affette da vizi od errori, ma anche a fornire la prova dei fatti indispensabili a sostenere tale critica (e non pare dubbio che se tale critica sia incentrata su asseriti errori nell’attività di selezione e valutazione del materiale probatorio, l’appellante dovrà indicare puntualmente i fatti allegati ed i mezzi di prova esperiti in primo grado che. se correttamente considerati, avrebbero determinato un diverso accertamento del rapporto controverso), con l’ulteriore corollario per cui l’appellante è altresì tenuto a premunirsi, anche all’occorrenza richiedendo copia degli atti e documenti contenuti nel fascicolo processuale della controparte, dal rischio della dispersione del mezzo di prova ritenuto determinate (documento), acquisito al giudizio di primo grado ma inserito nel fascicolo processuale ritirato dalla controparte e non restituito in Cancelleria.
3.3. Il principio affermato dalle SS.UU., ricondotto al suo esatto contenuto, non modifica affatto, come sembra invece ritenere il ricorrente, la disciplina del riparto dell’ “onus probandi” di cui all’art. 2697 c.c., né intende attribuire all1 accertamento del diritto compiuto nella sentenza impugnata una efficacia di prova legale non prevista dall’ordinamento, ma intende piuttosto applicare la regola del riparto calandola nella dinamica processuale che vede l’alternanza di ciascuna delle parti nel fornire la prova dei fatti allegati (costitutivi, ovvero impeditivi, estintivi, modificativi), secondo che -nel continuo progredire della fase istruttoria – vengano man mano dimostrati i rispettivi assunti (nel quadro allegatorio definito dalla affermazione di un diritto di credito e dalla eccezione di estinzione dello stesso per decorso del termine prescrizionale e alla allegazione di un fatto interruttivo. insorgerà dapprima l’onere per l’attore di dimostrare la esistenza del titolo giustificativo, quindi l’onere per il convenuto di fornire la prova del tempo inutilmente decorso dalla esigibilità del credito, sull’attore nuovamente graverà la prova dell’eventuale fatto interruttivo della prescrizione, e quindi sul convenuto la dimostrazione di quei fatti che inficino la efficacia dell’atto interruttivo), sicché la parte che è rimasta soccombente in ordine all’accertamento dei fatti allegati a sostegno della domanda o della eccezione, ha l’onere di riprodurre nel giudizio di appello le prove ritualmente acquisite nel giudizio in primo grado necessarie a confutare le statuizioni della sentenza impugnata ed a consentire al Giudice del gravame di accertare nel merito della parte del rapporto controverso” devoluta alla sua cognizione, senza che ciò determini, in alcun modo, una modifica del regime legale di diritto sostanziale della specifica fattispecie dedotta in giudizio, con l’ulteriore conseguenza che, nel caso in cui tale disciplina regolamenti anche la prova dell’intero rapporto giuridico o dì taluni elementi costitutivi della fattispecie, disponendo all’uopo presunzioni legali “iuris tantum” con conseguente inversione dell’onere probatorio, tale disciplina permarrà immutata anche nel giudizio di appello, indipendentemente dall’esito della lite in primo grado (se dunque l’attore è vittorioso in primo grado in base alla presunzione legale, il convenuto appellante dovrà dimostrare che era stata fornita la prova contraria; se invece è risultato vittorioso in primo grado il convenuto – avendo i primi giudici ritenuto efficacemente confutata la presunzione legale-, sarà l’attore appellante a dover dimostrare la inefficacia della prova contraria fornita dal convenuto).
3.4. Tanto premesso occorre rilevare che la domanda di rimborso IRAP implica fatta valere in giudizio dal contribuente implica a suo carico l’onere di allegazione e dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa, individuabili nell’assenza del presupposto di imposta (autonoma organizzazione) che, secondo la interpretazione della norma fornita da questa Corte, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’”id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (ex pluribus: Corte cass. V sez. 16.2.2007 nn. 3672, 3673, 3674, 3675, 3676; id. SU 26.5.2009 nn. 12108 e 12111; id. V sez. 13.10.2010 nn. 21122 e 21123).
3.5. Ne segue che l’Ufficio appellante, a sostegno della impugnazione della statuizione della sentenza di prime cure che aveva escluso la sussistenza del presupposto d’imposta – affermando che dalla documentazione risultava il contribuente svolgeva attività di avvocato presso terzi come dipendente senza dotazione di personale e beni strumentali-, poteva addurre tanto la prova positiva – eventualmente acquisita in primo grado- degli elementi anche indiziari dimostrativi della “autonoma organizzazione”, quanto la mera contestazione – veicolata dalla censura di vizi logici nell’apprezzamento del materiale istruttorio da parte del primo giudice – della inesistenza od insufficienza delle prove della assenza di organizzazione che erano state fornite dal contribuente a sostegno della pretesa di rimborso.
In quest’ultimo caso, appare evidente come l’Ufficio appellante non era evidentemente tenuto ad indicare e fornire, avanti al Giudice di appello, alcuna prova ulteriore o diversa da quelle già dedotte in primo grado dal contribuente e poste a fondamento della decisione impugnata, con la conseguenza che l’oggetto del sindacato del Giudice del gravame veniva ad essere – come in effetti è stato – necessariamente ricondotto alla valutazione della efficacia dimostrativa di quegli stessi fatti allegati dal contribuente in primo grado e della correttezza della selezione dei mezzi di prova operata dal Giudice di primo grado ai fini dell’accertamento del requisito dell’ “autonoma organizzazione”.
3.6. Pertanto, investito con il motivo di gravame proposto dall’Ufficio della questione relativa alla dedotta inidoneità od inesistenza delle prove documentali poste a fondamento della decisione di prime cure che aveva riconosciuto il diritto al rimborso IRAP per tutti gli anni dal 1998 al 2003, e considerato che l’Ufficio con il motivo di gravame aveva esplicitato i contrari elementi indiziari che emergevano da quelle medesime prove (dichiarazioni dei redditi e quadro RE: possesso di beni strumentali dimostrate dalle quote di ammortamento: pagamento di corrispettivi per collaborazioni professionali. Cfr. sentenza CTR motiv. pag. 2 che riporta in sintesi il contenuto dei motivi di gravame), legittimamente il Giudice di appello ha pronunciato su tale motivo di censura verificando se quegli stessi elementi di prova addotti dal contribuente – e valorizzati dalla CTP – fossero stati correttamente valutati e potessero essere quindi considerati sufficienti a ritenere compiutamente assolto il relativo onere probatorio, pervenendo a riformare la sentenza impugnata -relativamente alla pretesa di rimborso IRAP avanzata per l’anno 2003- rilevando che con riferimento a tale anno il contribuente non aveva fornito la necessaria prova documentale (quadro RE della dichiarazione UNICO 2004).
3.7. La decisione impugnata deve pertanto ritenersi conforme a diritto, non avendo violato i principi enunciati nei precedente (SU n. 28498/2005) richiamato dal ricorrente.
4. Con il quinto motivo il ricorrente deduce la insufficienza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 co 1 n. 5) c.p.c., avendo ritenuto Giudici territoriali non assolto l’onere probatorio relativo alla istanza di rimborso per l’anno 2003, per
mancata produzione in giudizio del quadro RE allegato alla dichiarazione
dei redditi per l’anno 2003, omettendo tuttavia di considerare che erano stati prodotti numerosi altri documenti (copie di 13 fatture, con cadenza mensile, emesse nell’anno 2003 per prestazioni rese nei confronti dello Studio legale (…) ; estratto Albo avvocati di Milano in cui lo studio del contribuente coincideva con quello dello Studio associato (…) : estratto del registro onorari
“libro Iva ad H.DD da cui risultavano anche le liquidazioni IVA ed i corrispondenti versamenti trimestrali tutti per importi modesti, dovendo peraltro imputarsi a compensi professionali esterni soltanto il versamento relativo al terzo trimestre, come risultante anche dal mod. 770/2004 semplificato relativo alla dichiarazione del sostituto d’imposta) determinanti ai fimi della prova della esclusione del requisito della “autonoma organizzazione” dell’attività professionale anche per l’anno d’imposta 2003.
4.1. La censura è fondata.
4.2. Il motivo soddisfa al requisito di autosufficienza avendo il ricorrente fornito la specifica indicazione dei documenti decisivi trascurati dal giudice di merito, nonché ha evidenziato il nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr. Corte cass. I sez. 17.5.2006 n. 11501), provvedendo altresì alla completa trascrizione del contenuto dei documenti, in modo da rendere immediatamente apprezzabile da parte della Corte il vizio dedotto (cfr. Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. VI sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. IlI sez. 4.9.2008 n. 22303; id. IlI sez. 31.5.2006 n. 12984; id. I sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav.
n. 8388).
4.3. Osserva il Collegio che spetta, in via esclusiva, ai Giudice di merito, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sortesi; pertanto non è sindacabile per vizio di motivazione la sentenza di merito che abbia adeguatamente e logicamente valorizzato le circostanze ritenute decisive e gli elementi necessari per chiarire e sorreggere la “ratio decidendi” (cfr. Corte cass. SU 27.12.1997 n. 13045; id. V sez. 1.7.2003 n. 10330; id. IlI sez. 27.10.2005 n. 20911; sez. lav. 6.3.2006 n. 4766; sez. lav. n. 15489).
Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ., non equivale alla revisione del ”ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice dei merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Il sindacato di legittimità su tale vizio logico deve, invece, mantenersi nell’ambito della sequenza argomentativa svolta dal Giudice di merito, venendo a risolvendosi nella verifica, “interna” alla motivazione, della coerenza logica delle singole proposizioni nelle quali si articola la detta sequenza nonché della idoneità delle stesse a rappresentare ed a giustificare adeguatamente la soluzione adottata a sostegno della decisione.
Tale controllo postula, pertanto, un “errore concernente il fatto” che si verifica quando il giudice di merito abbia formulato un apprezzamento nel senso che, dopo avere rilevato esattamente i fatti di causa negli esatti termini materiali in cui sono stati prospettati dalla parte, abbia omesso di valutarli, in modo che l’omissione venga a risolversi in un implicito accertamento negativo sulla rilevanza dei fatti stessi, ovvero li abbia valutati in modo insufficiente o illogico (cfr. Corte cass. IlI sez. 8.9.2006 n. 19298).
4.4. Il vizio logico indicato emerge palese dalla sentenza impugnata, essendosi limitati i Giudici di merito al rilievo della mancata produzione del quadre RE della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2003, omettendo del tutto di valutare alla stregua degli altri documenti prodotti dal contribuente se il requisito della autonoma organizzazione dell’attività lavorativa dovesse ritenersi escluso anche per l’anno d’imposta in questione.
La sentenza va pertanto cassata “in parte qua”, con rinvio della causa per nuovo esame del materiale probatorio, relativamente alla pretesa di rimborso IRAP concernente l’anno 2003.
5. La sentenza appello viene censurata altresì con il sesto motivo in ordine al vizio di nullità determinato da eccesso di pronuncia per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 co 1 n.4) c.p.c., avendo la CTR lombarda dichiarato il contribuente decaduto dal diritto al rimborso delle somme, pari a lire 1.275.000, versate a titolo IRAP in data 8.6.1998, sebbene tale credito non fosse stato richiesto con istanza di rimborso e neppure azionato con il ricorso introduttivo.
Con il settimo motivo la sentenza viene impugnata sul medesimo punto di decisione, rilevando il ricorrente la contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360 co 1 n. 5) c.p.c., laddove, da un lato, viene dichiarato indebito il rimborso delle somme versate a giugno 1998 e, dall’altro, viene invece riconosciuto il rimborso delle somme corrisposte a titolo secondo acconto e saldo 1998.
5.1. II sesto motivo è fondato.
5.2. Come illustrato nella parte espositiva del motivo, con il ricorso introduttivo era stato richiesto il rimborso delle somme versate a titolo IRAP a far data dal 30.11.1998 (seconda rata acconto anno 1998 di lire 1.275.000) fino al 20.6.2003 (prima rata acconto anno 2003) e con la memoria illustrativa depositata il 19.1.2004 il ricorrente integrava la domanda richiedendo il rimborso anche della seconda rata di acconto e della rata di saldo relative all’anno 2003 versate nelle more del giudizio. Il Giudice di primo grado riconosceva l’intero importo dei rimborsi richiesti liquidando la somma complessiva di € 7.368.48 pari agli importi corrisposti dal contribuente dall’8.11.1998 fino al 2003, e dunque correttamente non aveva preso in esame il rimborso – non richiesto dal contribuente – della somma di lire 1.275.000 versata a giugno 1998 e non oggetto del giudizio.
5.3. La sentenza di appello avendo pronunciato “ultra petita” deve essere, in conseguenza cassata, in parte qua senza rinvio, rimanendo assorbito in tale pronuncia l’esame del settimo motivo.
6. Con l’ottavo ed ultimo motivo di ricorso, il contribuente deduce il vizio di motivazione della sentenza di appello in ordine al rigetto – statuito implicitamente nel dispositivo con la “conferma nel resto della semenza impugnata” – del motivo di appello incidentale con il quale era stata investita la pronuncia di primo grado sul capo della liquidazione delle spese di lite dichiarate interamente compensate.
6.1. Sostiene il ricorrente la illogicità della conferma della pronuncia sulle spese dei primi giudici atteso che in quel grado di giudizio il contribuente era risultato totalmente vittorioso.
6.2. Il motivo è inammissibile ex art. 366 co 1 n. 3) c.p.c., e comunque infondato in quanto:
a)- non viene trascritto il capo della sentenza di primo grado impugnato, né il motivo di gravame incidentale, rimanendo impedito alla Corte di verificare se e quali ragioni, condivise dal Giudice di appello, abbiano assistito la pronuncia del primo giudice sulle spese b)- la consolidata giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ribadire il principio secondo cui, con riferimento alle sentenze rese sotto la vigenza dell’art. 92 comma 2 c.p.c. (“se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero le spese tra le parti”) nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 2 co 1 lett. a) della legge 28.12.2005 n. 263 (applicabili ai procedimenti instaurati dopo il 1.3.2006 per effetto della proroga del termine inizialmente fissato al 1 gennaio 2006 disposta dall’art. 39 quater del DL 30.12.2005 n. 273 conv. in legge 23.2.2006 n. 51) ed alle modifiche introdotte dall’art. 45co 11 legge 18.6.2009 n. 69 (applicabili ai giudizi instaurati dopo la entrata in vigore della legge), la pronuncia che dispone la regolamentazione delle spese di lite è riservata alla piena discrezionalità del giudice di merito con l’unico limite di non imputarle alla parte interamente vittoriosa. Il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.) va inteso, infatti, nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese processuali, con la conseguenza che esula dal sindacato della Corte e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (cfr. Corte cass. IlI sez. (1.1.2008 n. 406, id. III sez. 11.6.2008 n. 15483; id. I sez. 22.7.2009 n. 17145; id. III sez. 1.12.2009 n. 25270).
6.3. Tanto premesso, essendo stato instaurato il giudizio tributario in data anteriore all’1.3.2006 trovano applicazione i principi di diritto sopra enunciati, dai quali non vi è ragione di discostarsi in difetto di specifica individuazione da parte del ricorrente del contenuto motivazionale della pronuncia da sottoporre a critica.
7. L’accoglimento del ricorso principale impone l’esame dell’unico motivo di ricorso incidentale proposto dalla Agenzia delle Entrate, con il quale viene dedotto il vizio di violazione degli artt. 2, 3 ,4 ed 8 del Dlgs 15.12,1997 n. 446, in relazione all’art. 360 co 1 n. 3) c.p.c.
7.1. Il motivo che rasenta la inammissibilità (il ricorso incidentale è privo di numerazione della pagine, presenta una cesura nella esposizione – rilevata anche dal ricorrente principale nel controricorso-, in quanto nella quarta pagina il discorso risulta già iniziato) per difetto di una chiara esposizione dei fatti e delle ragioni che supportano la critica mossa alla sentenza di appello nella parte in cui -ritenendo raggiunta la prova della inesistenza di una autonoma organizzazione- ha riconosciuto il diritto del contribuente al rimborso delle somme versate a titolo IRAP, è palesemente infondato.
7.2. La tesi in diritto sostenuta dalla Agenzia delle entrate, peraltro identica a quella già dedotta con i motivi di gravame, secondo cui il presupposto impositivo della “autonoma organizzazione”, nel caso di attività di lavoro autonomo per professione abituale si realizzerebbe “in re ipsa” essendo, per definizione, “autonomo” tale lavoratore che è in grado di organizzare da sé la propria attività professionale, artigianale od artistica, deve ritenersi priva di fondamento ed in contrasto con i principi enunciati in materia dalla Corte di legittimità secondo cui gli elementi integrativi del presupposto di imposta (autonoma organizzazione) ricorrono quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile
dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’ “id quod plerumque accidit”, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui (ex pluribus: Corte cass. V sez. nn. 3672, 3673, 3674, 3675, 3676; id. SU 26.5.2009 nn. 12108 e 12111; id. V sez. 13.10.2010 nn. 21122 e 21123). Ne consegue che il requisito della “autonoma organizzazione” – che a differenza dell’attività svolta in forma di impresa non è un elemento connaturato all’attività svolta dal lavoratore autonomo per professione abituale, la quale bene può essere imperniata esclusivamente sulla persona del lavoratore senza ricorrere ad ausili di altri mezzi o persone: cfr. Corte cost. sent. 21.5.2001 n. 156, in motivaz. paragr. 9.2 – non può essere implicitamente desunto dalla nozione di abitualità, né deve essere inteso in senso soggettivo come “auto-organizzazione” creata e gestita direttamente dal professionista in quanto esente da vincoli di subordinazione (propri del lavoro dipendente), ma deve essere intesa in senso oggettivo come apparato distinto dalla persona del professionista, costituito dall’aggregazione di beni strumentali e/o risorse umane (cfr. Corte cass. V sez. 16.2.2007 n. 3673 e n. 3674, n. 3675; Corte cass. SU 26.5.2009 n. 12111). L’assunto della Agenzia ricorrente incidentale secondo cui la organizzazione va riferita alla attività svolta personalmente dal professionista, non occorrendo l’impiego di ulteriori beni strumentali o servizi resi da terzi, è smentito proprio dalla espressa introduzione – D.lgs 10.4.1998 n. 137 – del requisito della “autonoma organizzazione” nell’originario testo normativo che definiva il presupposto impositivo con riferimento esclusivamente alla attività lavorativa degli esercenti professioni che presentasse il connotato della abitualità. Tale modifica non è priva di significato, ma ha inteso eliminare ogni incertezza sulla natura reale e non reddituale della imposta specificando in positivo (mediante la indicazione di un “quid pluris” – la organizzazione di beni e prestazioni di cui il titolare ha la piena disponibilità- che si aggiunge all’attività lavorativa personale del professionista) il preesistente limite negativo del presupposto impositivo costituito dallo svolgimento di attività di lavoro professionale esercitato in modo occasionale ovvero di attività professionale etero-diretta in quanto esercitata nell’ambito di un sistema organizzativo riferibile all’esercizio di poteri gestionali ed amministrativi di terzi (cfr., in motivazione. Corte cass. V sez. 16.2.2007 n. 3672).
Il motivo dedotto con il ricorso incidentale deve, dunque, essere rigettato.
8. In conclusione il ricorso principale deve essere accolto, quanto al quinto e sesto motivo, assorbito il settimo e rigettati gli altri motivi; il ricorso incidentale deve essere rigettato; la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua, come indicato in parte motiva (paragr. 4 e 5), e la causa rinviata ad altra sezione della Commissione tributaria della regione Lombardia per nuovo esame, affinché provveda ad emendare i vizi logici riscontrati nonché a liquidare le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa senza rinvio la sentenza impugnata relativamente alla pronuncia di decadenza dal rimborso del versamento IRAP eseguito in data 8 giugno 1998, cassa la medesima sentenza in ordine alla statuizione di rigetto della domanda di rimborso IRAP relativa all’anno 2003 e rinvia la causa per nuovo esame ad altra sezione della Commissione tributaria della regione Lombardia che provvederà ad emendare i vizi logici riscontrati nonché a liquidare le spese del presente giudizio.
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