CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2013, n. 23771
Lavoro – Licenziamento – Reintegra o indennità sostitutiva – Requisito dimensionale – Raggiungimento – Materiale probatorio
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, confermata la statuizione di illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore L.K. dalla S.A. di S.C. S.p.A., in parziale riforma della decisione di primo grado, ritenuti i presupposti per la tutela reale in luogo di quella obbligatoria applicata dal giudice di prime cure, ha condannato la società datrice a corrispondere le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino al novembre 2007 incluso, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; rilevato che il lavoratore aveva rinunziato alla reintegra optando per la indennità risarcitoria ha condannato la società al pagamento di ulteriori 15 retribuzioni globali di fatto quantificate in € 48.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria ed al versamento degli oneri sociali e delle tasse maturate sui detti importi.
La Corte territoriale ha premesso che alla luce del consolidato orientamento del giudice di legittimità, l’onere della prova in ordine alla insussistenza del requisito dimensionale prescritto ai fini della tutela reale, quale fatto impeditivo del diritto del lavoratore alla reintegra, era a carico della parte datoriale e ciò anche in ragione dell’esigenza di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore, privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa. Ha quindi puntualizzato che il calcolo a riguardo doveva essere effettuato considerando il numero di persone normalmente occupate come dipendenti nell’impresa nel periodo antecedente il licenziamento, senza riconoscere rilievo alle contingenti e occasionali contrazioni o anche espansioni del livello occupazionale aziendale; ha ritenuto congruo periodo di riferimento al fine della verifica della media occupazionale l’anno precedente il licenziamento. Ha osservato che la società appellata nella memoria conclusionale di primo grado in applicazione di tali criteri era pervenuta all’affermazione che nell’anno antecedente il licenziamento la media occupazionale era di 14,94 dipendenti, soglia che diminuiva a 14,52 al netto della posizione del collaboratore M.B., iscritto nel libro matricola.
Muovendo da tali dati considerati definitivi il giudice d’appello ha rilevato che nella memoria in secondo grado della società mancava la chiara contestazione che M.B. non dovesse essere ricompreso nel computo dei dipendenti; ha inoltre sottolineato la mancanza di contratto scritto ai sensi dell’art. 62 d.lgs n. 276 del 2003 e richiamato la deposizione del detto B. il quale sentito come teste aveva confermato di lavorare come controllore svolgendo anche il compito di rilevare dati statistici sull’impiego delle capacità produttive dell’impianto. In base a tali elementi è pervenuto alla conclusione che il contenuto principale dell’attività lavorativa espletata dal suddetto B. era di natura subordinata per cui il suddetto andava annoverato tra i dipendenti della società
Quanto al R., la sentenza impugnata ha ritenuto in base ad elementi tratti dalla relativa deposizione nonché da quella dei testi M. e Ma. che lo stesso aveva lavorato in maniera non occasionale alle dipendenze della società datrice della evidenziando che non erano state osservate le norme procedurali e formali per la costituzione di un eventuale rapporto accessorio. Analogamente in base alla deposizione del F. e di altri testi ha ritenuto che il detto F. avesse lavorato alle dipendenze della società per periodi non insignificanti, nell’anno precedente il licenziamento in controversia. A tal fine ha ritenuto non decisiva la emissione di fatture mancando un contratto a progetto ex art. 62 d. lgs. ed escluso la riconducibilità di tale rapporto all’ambito del lavoro intermittente di cui all’art. 33 d.lgs n. 276 del 2003. Alla luce di tali rilievi anche il F. ed il R. sono stati ritenuti computabili nell’organico dell’impresa. La considerazione di tali rapporti parziali unitamente a quelli risultano dal libro matricola, corrispondente alla media di 14,94 ha indotto il giudice di appello a ritenere superata la media dei quindici dipendenti nell’anno precedente il recesso conseguendone l’applicabilità della tutela reale. Rilevato che il lavoratore aveva esercitato l’opzione in luogo di reintegra con la domanda di cui al ricorso di primo grado, ha riconosciuto fino a tale data ed a decorrere dal licenziamento le relative retribuzioni e quindi la indennità in luogo di reintegra quantificata in €. 48.000,00.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la S.A. di S.C. s.p.a. sulla base di quattro motivi.
L’intimato ha depositato controricorso con ricorso incidentale condizionato affidato a tre motivi.
Motivi della decisione
Con il primo motivo del ricorso principale la società S.A. di S.C. S.p.A. deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art.2967 cod. civ. . Sostiene che la Corte territoriale non avrebbe fatto corretta applicazione del principio affermato da Sezioni unite n. 141 del 2006 in tema di ripartizione dell’onere probatorio tra lavoratore e datore di lavoro con riferimento al requisito dimensionale, in quanto avrebbe posto a carico della parte datrice non solo la prova diretta e positiva del numero di lavoratori impiegati ma anche la prova “negativa” della non ricorrenza del requisito dimensionale esigendo la dimostrazione che il F. e il R., non figuranti nel libro matricola, non rientrassero nel novero dei dipendenti dell’impresa.. Sostiene che era onere del lavoratore dimostrare che le persone sopraindicate erano dipendenti della società e che tale prova non poteva dirsi raggiunta avendo i testi confermato pienamente la tesi datoriale sulla natura autonoma di tali rapporti.
Con il secondo motivo di ricorso deduce la manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine al fatto decisivo e controverso relativo al calcolo dei lavoratori dipendenti occupati dalla società nel periodo di riferimento. Sostiene che in contraddizione con i criteri enunciati, il giudice di appello aveva fatto rientrare nel novero dei lavoratori dipendenti due soggetti i quali del tutto occasionalmente, per far fronte ad esigenze straordinarie e temporanee limitate al periodo natalizio e pasquale, avevano svolto a dolo di collaborazione autonoma servizio di custodia presso il parcheggio della funivia gestita dalla società. In ogni caso – afferma- il computo doveva essere effettuato in proporzione della sola quota oraria osservata. La sentenza era inoltre incorsa in errore nell’annoverare tra i dipendenti M.B.; ciò sia perché a differenza di quanto ritenuto dal giudice di appello la società aveva contestato la natura dipendente del rapporto sia perché non risultava che questi avesse lavorato come controllore di biglietti.
Con il terzo motivo di ricorso principale parte ricorrente deduce la manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione in merito alle dimensioni occupazionali dell’impresa. Assume che l’impiego di altre due persone per 30 giorni potrebbe determinare, al più, il raggiungimento di una media di occupati pari a 15,11 inferiore quindi alle 16 unità richieste per l’applicazione della tutela reale.
Con il quarto morivo deduce la manifesta contraddittorietà ed illogicità della motivazione in mento al computo dei lavoratori nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 cod. proc. civ. Contesta di avere ammesso che il numero dei dipendenti era pari a 14,94; evidenzia che i calcoli effettuati nelle memorie di primo e secondo grado pur partendo da diversi presupposti tendevano a dimostrare che qualunque criterio ipotizzato non determinava il superamento della soglia dei 15 dipendenti. Censura la decisione per aver ritenuto il B. fra i lavoratori subordinati. Sostiene che il riferimento alla media dei lavoratori indicata da essa società nel numero di 14,94 rappresentava un ipotesi di calcolo sommaria che includeva tra i lavoratori dipendenti anche detto B.
Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato il lavoratore deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. Civ. la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 187,188, 209, 420 e 421 cod. proc. civ. e degli artt. 2967 e sgg. con riferimento alla mancata ammissione di prova testimoniale.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale condizionato il lavoratore deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 187, 188, 209, 420 e 421 cod. proc. civ. e degli artt. 2967 e sgg.. con riferimento alla mancata ammissione della richiesta consulenza tecnica d’ufficio in relazione al numero di lavoratori occupati alle dipendenze della società.
Con il terzo motivo di ricorso incidentale condizionato il lavoratore deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 187, 188, 209, 420 e 421 cod. proc. civ. e degli artt. 2967 cod. civ. e sgg.. con riferimento al mancato accoglimento della richiesta di ordine di esibizione alla società datrice delle liste di presenza e delle liste di tutti gli occupati presso la S.A. di S.C. S.p.A.
Il primo motivo di ricorso principale non è fondato. Il criterio di riparto dell’onere probatorio in tema di requisito dimensionale ai fini della tutela reale adottato dal giudice di appello è coerente con la giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. n. 6344 del 2009, n. 15948 del 2006, 13945 del 2006, n. 12722 del 2006 ) consolidatasi dopo la pronunzia a sezioni unite n. 141 del 2006, espressamente evocata nella sentenza di secondo grado, secondo la quale in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò essere provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa”. In sintonia con tale orientamento era quindi la società datrice di lavoro a dovere dimostrare la insussistenza del requisito dimensionale per l’accesso alla tutela reale. Parte ricorrente non contesta la correttezza in astratto di tale ripartizione ma sostiene che in concreto l’interpretazione dell’onere probatorio a carico della parte datoriale ha indotto il giudice di appello a porre a carico della società anche la prova negativa della natura non dipendente di soggetta non figuranti nel proprio libro matricola. L’assunto non è aderente alle ragioni della decisione. Invero I’affermazione della esistenza di ulteriori rapporti di lavoro dipendente, oltre a quelli risultanti dal libro matricola della società, non è frutto della regola di riparto dell’onere probatorio soprarichiamata ma nasce dalla concreta verifica del carattere subordinato degli ulteriori rapporti scaturente dall’esame del materiale probatorio. In altri termini, la considerazione fra i lavoratori dipendenti della società anche dei collaboratori F. e R., non indicati nel libro matricola, non scaturisce dalla mancata dimostrazione da parte della società che si trattava di rapporti autonomi, ma dal positivo riscontro in base alle deposizioni testimoniali puntualmente evocate in sentenza che i suddetti rapporti, per le loro caratteristiche intrinseche, andavano qualificati come di lavoro dipendente.
Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso . La Corte territoriale è pervenuta all’accertamento della natura subordinata della collaborazione instaurata dal R. e dal F. sulla base di elementi acquisiti dalle deposizioni degli stessi nonché di altri testi . Per contrastare tale valutazione, espressione di accertamento di fatto insindacabile in cassazione, patte ricorrente avrebbe dovuto dedurre la incongruità o illogicità dei parametri utilizzati al fine di qualificare come di lavoro dipendente la relativa prestazione. Né vale ad escludere la natura subordinata di detti rapporti la circostanza che le attività in questione, come sostenuto dalla società, avessero carattere occasionale e fossero concentrate nei periodi delle festività pasquali e natalizie, posto che la durata maggiore o minore della collaborazione ha valenza neutra al fine della qualificazione come subordinata o autonoma dell’attività prestata. Quanto alla posizione del B., la Corte non ha ritenuto la natura dipendente del relativo rapporto solo sul rilievo della inadeguata contestazione della circostanza da parte della società, ma sulla base di una serie di elementi – iscrizione nel libro matricola, attività dichiarata dal medesimo B. sentito come teste, mancanza di atto scritto del preteso rapporto di lavoro a progetto – che hanno condotto all’accertamento del giudice di appello, frutto di valutazione di fatto insindacabile, in sede di legittimità. Invero secondo l’insegnamento costante di questa Corte la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonché scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008; n.5489 del 2007; n. 20455 del 2006; n. 20322 del 2005; n. 2537 del 2004). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato ( o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del ” ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Quanto ora osservato preclude pertanto ogni nuovo apprezzamento del materiale probatorio .
Infondato è il terzo motivo di ricorso in quanto con le doglianze espresse parte ricorrente sollecita un diverso apprezzamento probatorio degli elementi in atri con riferimento specifico alla durata dei rapporti di lavoro ritenuti in sentenza di natura dipendente non risultanti dal libro matricola. E’ inoltre da rilevare quanto al raggiungimento del requisito dimensionale che il ricorrente medesimo conviene che l’impiego di altre due persone per trenta giorni aveva comportato il raggiungimento di una media i 15,11 lavoratori nell’anno precedente il licenziamento riconoscendo implicitamete il superamento della soglia numerica prescritta dalla legge (art. 18 St. lav. come modificato dall’art. 1 L. n. 108 del 1990 ) essendo a tal fine sufficiente il superamento delle 15 unità e non, come sostenuto, il raggiungimento della media delle 16 unità.
Il quarto motivo di ricorso principale è anch’esso infondato. Parte ricorrente si limita apoditticamente a contrastare la ricostruzione della sentenza in ordine al contenuto delle difese svolte da essa società con riferimento alla posizione del B.. La deduzione tuttavia alla luce delle argomentazioni del giudice di appello, non assume rilievo decisivo in quanto, come già puntualizzato con riferimento al secondo motivo di ricorso, l’accertamento della natura dipendente del rapporto di lavoro del B. non è stata fondata esclusivamente sulla non contestazione della stessa da parte della società ma anche su ulteriori elementi quali iscrizione nel libro matricola, le dichiarazioni del B. sull’attività prestata, la mancanza di atto scritto del preteso rapporto di lavoro a progetto. Nel censurare il calcolo numerico dei lavoratori impiegati nell’anno precedente il licenziamento la società fa riferimento a prove documentali che assume offerte. La censura è generica in quanto non chiarisce con riferimento ai singoli soggetti ritenuti dipendenti quali sono le prove documentali che assume trascurate. In ogni caso, in violazione dell’onere prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 cod. proc. civ., non indica la sede di produzione di tali documenti (libro matricola e contratti part-time) né ne riproduce il contenuto. Tantomeno, in violazione del principio di autosufficienza, specifica se ed in che termini , siano state dedotte le circostanze che assume suffragate dalle prove documentali.
Consegue il rigetto del ricorso principale con effetto di assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.
Condanna la ricorrente società alle spese del giudizio di cui € 50,00 per esborsi e € 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
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