Corte di Cassazione sentenza n. 15738 del 18 luglio 2011
LAVORO SUBORDINATO – RAPPORTO DI LAVORO – MANSIONI – INQUADRAMENTO SPETTANTE AL LAVORATORE – CRITERI – IDENTIFICAZIONE DELLE QUALIFICHE O CATEGORIE PREVISTE DALLE DISPOSIZIONI COLLETTIVE – ACCERTAMENTO DELLE MANSIONI DI FATTO ESERCITATE DAL LAVORATORE
massima
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Ai fini della determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva, il giudice del merito deve dapprima identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c.; deve poi accertare le mansioni di fatto esercitate e deve infine confrontare le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto dal lavoratore. Di queste, mentre la prima operazione logica può essere censurata in sede di legittimità anche per violazione dei canoni ermeneutici anzidetti, le altre due operazioni logiche, che attengono ad apprezzamenti di fatto, sono censurabili solo per vizi di motivazione, restando peraltro escluso che sia la censura di violazione di legge che quella di vizio per motivazione possano fondarsi sulla mera deduzione, da parte del ricorrente, di un convincimento opposto a quello del giudice del merito.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Cagliari ha respinto l’appello proposto da G.A. avverso la sentenza del Tribunale di Sassari, che aveva rigettato la domanda proposta dallo stesso G.A., dipendente della Banca di S. spa con la qualifica di quadro e mansioni di vice direttore dell’Agenzia 1 di Sassari, per sentir dichiarare il suo diritto alla qualifica di funzionario a decorrere dal 12.6.1995, con la condanna della Banca a corrispondergli le relative differenze retributive. A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta osservando che il ricorrente non aveva mai avuto un potere di firma in rappresentanza dell’azienda e non aveva svolto mansioni proprie della qualifica di funzionario, ma solo compiti di vicario del direttore di un’agenzia, come quella di Sassari, non assimilabile, se non per alcuni profili marginali, ad una “capogruppo”.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione G.A. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la Banca di S. spa. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, deve respingersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla società resistente sul rilievo che questo non conterrebbe una sufficiente esposizione dei fatti di causa, dovendo ritenersi che il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c., secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, sia rispettato anche quando nel ricorso sia stata integralmente riportata l’esposizione dei fatti di causa contenuta nella sentenza impugnata, particolarmente se, come riscontrabile nel caso in esame, mediante tale trascrizione vengano forniti gli elementi indispensabili per una precisa cognizione della vicenda processuale, sotto tutti i profili rilevanti ai fini del giudizio di cassazione, ivi comprese le posizioni in essa assunte dalle parti.
1. – Con il primo motivo si deduce la violazione e/o errata applicazione degli artt. 99 e segg., 345 c.p.c., con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 13 CCNL per il personale delle aree professionali dipendente dalle banche del 19.12.1994, sia sotto il profilo della violazione di norme di diritto che come vizio della motivazione, censurando l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la questione dell’applicabilità del CCNL del 1990 (in forza della clausola di cui all’art. 13 del CCNL del 19.12.1994) non sarebbe entrata a far parte del tema della disputa nel giudizio di primo grado, nel quale sarebbe stata affrontata (e risolta positivamente), invece, solo la questione dell’applicabilità del CCNL del 1994.
2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione e/o errata applicazione degli artt. 9 e 23 CCNL quadri delle aziende di credito del 23.11.1990, e CCNL dirigenti aziende di credito del 22.11.1990, 21 CCNL personale aree professionali banche del 19.12.1994, anche in relazione all’art. 2103 c.c., sia sotto il profilo della violazione di norme di diritto che come vizio della motivazione, sostenendo che, in base alla declaratoria contrattuale di cui all’art. 2 del CCNL del 1990 (ma anche a quella di cui all’art. 17 del CCNL del 1994), la Corte territoriale avrebbe dovuto riconoscere il diritto del ricorrente alla qualifica di funzionario, ricorrendone tutti i presupposti previsti dalla citata norma contrattuale.
3. – Le censure espresse con il primo motivo devono ritenersi inammissibili in quanto palesemente inidonee ad investire di valido gravame il decisum della Corte d’appello e la ragione posta a suo fondamento, ragione che la Corte territoriale individua non già nella applicabilità delle disposizioni di un certo contratto collettivo piuttosto che di un altro, quanto in una serie di considerazioni – attinenti essenzialmente all’esame delle mansioni concretamente svolte dal ricorrente – che conducono tutte alla insussistenza, nella fattispecie in esame, dei presupposti necessari per l’attribuzione della qualifica di funzionario, “quale che sia la disciplina collettiva applicabile” (come si legge nella motivazione della sentenza) – e quindi anche se questa dovesse individuarsi in quella invocata dal ricorrente – e questo dopo aver precisato che “comunque, anche nell’economia della decisione del primo giudice, il riferimento ad una certa contrattazione collettiva è stato (se non del tutto marginale) accompagnato dalla considerazione che mai il G.A. ha usato del potere di firma per esprimere la volontà dell’Istituto, in piena autonomia, ma sempre in veste di vicario del direttore” (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). Queste essendo le ragioni poste a fondamento del decisum della Corte d’appello, sono evidentemente inammissibili le censure (di cui al primo motivo del ricorso) che attengono invece ad una affermazione della Corte territoriale – quella con la quale viene negato che nel corso del giudizio di primo grado sia stata prospettata la questione dell’applicabilità del CCNL del 1990 – che non ha avuto alcun rilievo pratico ai fini della decisione.
4. – Il secondo motivo è infondato. Giova premettere che, secondo il costante insegnamento della S.C., l’attribuzione al lavoratore della qualifica corrispondente alle mansioni svolte deve avvenire seguendo un procedimento logico articolato in tre fasi successive, occorrendo accertare in fatto le attività concretamente svolte dal lavoratore, individuare poi la qualifica rivendicata e le mansioni alla stessa riconducibili secondo la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, e verificare infine che le prime corrispondano a queste ultime (cfr. ex plurimis Cass. 5128/2007, Cass. 18214/2006, Cass. 3069/2005, 17561/2004, Cass. 5942/2004). A tal proposito, si è precisato che, ai fini della determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva, il giudice del merito deve dapprima identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli artt. 1362 ss. C.C.; deve poi accertare le mansioni di fatto esercitate e deve infine confrontare le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto dal lavoratore. Di queste, mentre la prima operazione logica può essere censurata in sede di legittimità anche per violazione dei canoni ermeneutici anzidetti, le altre due operazioni logiche, che attengono ad apprezzamenti di fatto, sono censurabili solo per vizi di motivazione, escluso peraltro che entrambe le censure possano fondarsi sulla mera deduzione da parte del ricorrente di un convincimento opposto a quello del giudice di merito (Cass. 26234/2008, Cass. 26233/2008, Cass. 17896/2007, Cass. 11037/2006, Cass. 2174/99, Cass. 9874/98, Cass. 5899/91). L’accertamento del giudice del merito in ordine alla corrispondenza delle mansioni svolte dal lavoratore a quelle proprie della qualifica riconosciutagli si risolve, invero, in una valutazione di fatto, che è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e rispettosa dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (cfr. explurimis Cass. 18214/2006, Cass. 1093/2003, Cass. 11461/2000, Cass. 8652/99, Cass. 3528/99, Cass. 3195/99, Cass. 12219/98, Cass. 6344/98, Cass. 5684/98, Cass. 4380/97, Cass. 1027/97).
5. – Nella specie, come risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, il giudice d’appello, nel negare il diritto del ricorrente alla qualifica di funzionario, si è rigorosamente attenuto ai principi sopra indicati, accertando le mansioni svolte in concreto dal lavoratore e confrontandole con le qualifiche previste dal contratto collettivo, per escludere che, anche alla luce delle risultanze della prova testimoniale, il ricorrente abbia mai avuto “un potere di firma negoziale di valenza generale, proprio del funzionario”, così come richiesto dall’art. 2 del CCNL del 1990, invocato dal ricorrente, o abbia esercitato in via continuativa, con i caratteri di autonomia e discrezionalità previsti dallo stesso art. 2, funzioni e compiti propri della qualifica di funzionario. Come si è detto, si tratta di accertamenti che si risolvono in una valutazione di fatto, devoluta al giudice del merito, non censurabile nel giudizio di cassazione in quanto comunque assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; d’altra parte, a fronte di una sentenza così motivata, il ricorrente ha denunciato la violazione di diverse norme del contratto collettivo (sia di quello del 1990 che di quello del 1994), senza tuttavia specificare il canone o i canoni ermeneutici in concreto violati, nonché lo specifico punto e il modo in cui il giudice del merito si sarebbe da essi discostato, finendo così per proporre una critica della interpretazione operata dalla Corte territoriale che investe il merito della valutazione della stessa Corte ed è perciò inammissibile in sede di legittimità. A tal proposito, va rimarcato anche che le censure concernenti la motivazione devono avere ad oggetto l’obiettiva insufficienza di essa o la contraddittorietà del ragionamento su cui si fonda l’interpretazione accolta, potendo il sindacato di legittimità riguardare esclusivamente la coerenza formale della motivazione, ovvero l’equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, sicché non può ritenersi idonea ad integrare valido motivo di ricorso per cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito che si risolva solamente nella contrapposizione di una diversa interpretazione ritenuta corretta dalla parte (Cass. 5359/2004); né possono ritenersi ammissibili istanze volte, in definitiva, all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione, dovendo ribadirsi, al riguardo, che il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito, ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto alla base della decisione (cfr. ex plurimis Cass. 10657/2010, Cass. 9908/2010, Cass. 27162/2009, Cass. 13157/2009, Cass. 6694/2009, Cass. 18885/2008, Cass. 6064/2008).
6. – Il ricorso va dunque rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite, in quanto sinora detto, tutte le censure non espressamente esaminate.
7. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in € 54,00 oltre € 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 28 aprile 2011.
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