CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 novembre 2013, n. 25194
Lavoro – Lavoro subordinato – Licenziamento – Giusta causa – Tangenti – Rapporto fiduciario
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 8 del 19 ottobre 2010 – 25 gennaio 2011, pronunciando sull’impugnazione proposta da P. C., nei confronti della società ABB spa (già ABB P. T. spa), avverso la sentenza di Tribunale di Milano n. 2268/07, rigettava l’appello e condannava l’appellante a rimborsare alla controparte le spese del grado, come liquidate nel dispositivo.
2. Il Tribunale di Milano aveva rigettato sia la domanda con la quale P. C., con la qualifica di dirigente e direttore, licenziato per giusta causa dalla società ABB spa il 21 giugno 2004, aveva chiesto la condanna della suddetta società, ex datrice di lavoro, al pagamento delle indennità di preavviso e supplementare, oltre al risarcimento dei danni, sia la domanda riconvenzionale proposta dalla società ABB spa per la legittimità del recesso.
3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre C., prospettando sei motivi di ricorso,
4. Resiste con controricorso la società ABB spa (già ABB P. Thec no logica spa), deducendo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per tardività.
5. In prossimità dell’udienza pubblica entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dalla società ABB spa (già ABB P. T. spa).
La controricorrente invoca l’art. 360-bis c.p.c., introdotto dall’art 47, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69, deducendone l’applicabilità alla fattispecie in esame, atteso che la legge da ultimo richiamata è entrata in vigore il 4 luglio 2009.
Detta norma stabilisce che “Il ricorso è inammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;
2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo”.
Va ricordato che ai sensi dell’art. 58, comma 1, della medesima legge n. 69 del 2009: “Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”.
Il successivo comma 5 stabilisce: “Le disposizioni di cui al l’articolo 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
L’eccezione non è fondata atteso che i motivi di ricorso non si limitano ad una mera contestazione delle statuizioni della sentenza di appello e dei principi della giurisprudenza di legittimità dalla stessa applicati, ma svolgono una prospettazione difensiva critica (cfr., Cass., S.U., ord. 6 settembre 2010, n. 19051) che impinge, nella prospettazione del ricorrente la sussistenza della giusta causa di licenziamento.
2. Con il primo motivo di ricorso è dedotta:
omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata (art. 360, n. 5, c.p.c.) circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nella parte in cui la Corte d’Appello ha affermato la responsabilità (e di conseguenza la legittimità del licenziamento) di esso ing. P., in ordine alla contestazione (contenuta nella lettera di licenziamento del 21 giugno 2004) della vicenda delle tangenti Enipower., per il fatto che – a dire di essa Corte – “non sarebbe contestata la conclusione dell’accordo corruttivo” e per il fatto che – sempre a dire della Corte — non potrebbe “sostenersi da parte dell’appellante (P.) che egli fosse mero esecutore di ordini”;
omessa valutazione da parte della Corte d’Appello del coinvolgimento e del ruolo (delle prove e/o comunque degli indizi gravi, precisi e concordanti presenti in giudizio in ordine al coinvolgimento ed al ruolo) del superiore gerarchico nella vicenda del pagamento della tangente Enipower;
omessa valutazione da parte della Corte d’Appello delle prove della (e/o comunque indizi gravi, precisi e concordanti acquisiti al giudizio in ordine alla) conoscenza, consapevolezza, autorizzazione e consenso della ABB quanto al pagamento della tangente e della prassi tangentizia in generale.
La Corte d’Appello, nel confermare la sentenza di primo grado in ordine alla ritenuta responsabilità dell’attuale ricorrente quanto al pagamento della tangente Enipower, assumeva non contestata la conclusione dell’accordo corruttivo per assicurare l’aggiudicazione di appalti alla propria società, oltre al pagamento di due tranche, come, secondo la Corte, confermato anche nell’interrogatorio in sede penale, laddove l’appellante aveva patteggiato la pena – vantando di avere ottenuto una riduzione rispetto alla richiesta dell’altra parte, ancorché il danaro fosse stato materialmente versato da altro funzionario e che, non poteva sostenersi da parte dell’appellante che esso fosse mero esecutore di ordini, in ragione della carica di amministratore delegato da lui ricoperta al momento della conclusione dell’accordo corruttivo in una delle società del gruppo, mentre all’atto del secondo pagamento non aveva certo un superiore gerarchico.
Nel fare ciò, il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto di vari plurimi fatti dedotti e comprovati in causa da esso ricorrente, come ampiamente illustrati nel presente ricorso, dai quali emergeva, ad avviso di esso ricorrente, quanto segue.
Il coinvolgimento del superiore gerarchico del ricorrente con il quale quest’ultimo accettava di pagare una commissione del 2% al funzionario tecnico Enipower, come indicato nella lettera di licenziamento del 21 giugno 2004, costituirebbe circostanza da cui, ad avviso di esso ricorrente, sarebbe dimostrato che esso aveva agito con la piena consapevolezza ed approvazione della ABB, rispettando il vincolo fiduciario.
L’accordo corruttivo con il funzionario Enipower era stato ideato ed organizzato dal superiore gerarchico del P. come si rilevava dall’interrogatorio reso dal funzionario Enipower davanti alla Procura della Repubblica di Milano il 6 settembre 2004.
Il soggetto corruttore era il superiore gerarchico del P. e quest’ultimo era stato coinvolto in tale vicenda per curare l’esecuzione di un accordo corruttivo già concluso.
Assume il ricorrente la sussistenza di una prassi tangentizia di ordinaria pratica in ABB e più in generale nell’aggiudicazione degli appalti nei settori dell’energia, per cui esso ricorrente non aveva disatteso una ipotetica metodologia di ABB, ma al contrario era stato coinvolto da ABB in prassi usuali, come si poteva rilevare dalla documentazione prodotta nei precedenti gradi di giudizio e riportata, illustrandola e riproducendola, nell’odierno ricorso.
La società ABB, espone il ricorrente, era stata indagata, sia in relazione all’episodio di corruzione che dava luogo al licenziamento, sia in relazione agli ulteriori episodi di corruzione emersi, in qualità di ente, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 per “non avere adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, con ciò traendo dalla condotta delittuosa del sottoposto – il quale non ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi – un profitto di rilevante entità”. In ordine a tale imputazione il P. espone che la ABB con sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.c., del 27 aprile 2000, patteggiava la pena di euro 200.000,00.
La suddetta società, quindi, prospetta il ricorrente, non era estranea ai fatti corruttivi commessi dai propri dipendenti.
Deduce il ricorrente che il pagamento di tangenti era prassi diffusa in tutto il settore dell’energia.
Conclusivamente il ricorrente evidenzia che dalla documentazione versata in atti, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, emerge che esso non aveva violato il vincolo fiduciario che, in qualità di dirigente lo legava alla società ABB, ma al contrario aveva osservato tale vincolo, eseguendo le direttive impartite dal superiore ed adeguandosi alle prassi largamente invalse nel gruppo ABB e nel settore dell’energia.
3. Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1419 (in relazione all’art. 1420), 2094, 2104, comma 2, c.c. (in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.). Vizio logico e di motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.), nella parte in cui la Corte territoriale afferma che “l’avere eseguito un ordine superiore illegittimo, addirittura costituente reato, non può giustificare l’inadempimento”.
Espone il ricorrente che la nullità delle direttive del datore di lavoro, impartite ai sensi dell’art. 2104, comma 2, cc, non comporta, all’evidenza, la nullità del rapporto di lavoro nella sua interezza, e la illiceità nell’esecuzione delle direttive in parola, intese alla dazione di tangenti, non comporta inadempimento della prestazione lavorativa dovuta dal lavoratore in forza del contratto, non pregiudicato da nullità parziale.
Nella sentenza non sarebbe contenuta alcuna motivazione che giustifichi l’asserito inadempimento della prestazione principale, per effetto dell’adempimento della prestazione illecita richiesta dal datore di lavoro.
4. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta contraddittoria, comunque, insufficiente motivazione riguardo un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale afferma che “eventuali prassi invalse nel gruppo (ancorché emergenti dagli atti penali, che vedono la società citata per la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ai sensi del d.Igs. n. 231 del 2001), non possono far venir meno la responsabilità dell’appellante per i fatti commessi – sia pure senza ritrarre alcun vantaggio personale, come pure è emerso in sede penale – idonei, trattandosi pur sempre di reati, a far venire meno la fiducia e a giustificare il recesso immediato”.
Ad avviso del ricorrente sarebbe viziata la motivazione della Corte d’Appello che ritiene atto idoneo a far venire meno la fiducia del datore di lavoro l’esecuzione da parte del dirigente di ordini impartiti dal datore di lavoro, nell’interesse economico dell’impresa.
5. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata (in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.) circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, quanto all’affermata responsabilità dell’ing. P. in ordine alle irregolarità contabili accertate nella Unità di Media Tensione di ABB, sull’assunto che – a dire della Corte – esso P. “essendo al corrente delle irregolarità, avrebbe omesso di intervenire nei confronti dei manager coinvolti… e di informare il presidente della società se non in modo lacunoso e parziale”.
Espone il ricorrente, ripercorrendo le difese svolte nei precedenti gradi di giudizio, di aver impugnato il licenziamento evidenziando, tra l’altro, di non essere a conoscenza già nella primavera del 2003 del buco di 70 milioni di euro della Unità di Media Tensione, e di avere avuto conoscenza di tale buco solo nell’aprile 2004 e che aveva provveduto ad informare i suoi superiori ed era divenuto responsabile della suddetta unità solo dal 1° maggio 2002.
Il ricorrente impugna, per vizio di motivazione, anche la statuizione della Corte d’Appello relativa alle manipolazioni contabili. La Corte d’Appello, in proposito non avrebbe preso in considerazione plurime circostanze documentate in giudizio e non aveva accolto la richiesta di prova testimoniale.
In particolare il ricorrente richiama le prove illustrate nelle difese dei diversi gradi di giudizio, della esistenza delle manipolazioni contabili (recte: della esistenza di una vera e propria prassi riguardo alle manipolazioni contabili) nella Unità di Media Tensione, molto prima che esso ricorrente divenisse responsabile di detta unità dal 1° maggio 2002, nonché le prove del coinvolgimento (e o comunque della conoscenza di) tali manipolazioni (recte: di tale prassi) da parte dei superiori gerarchici di esso ricorrente; le prove che esso ricorrente era stato tenuto all’oscuro e non era dunque a conoscenza della (anzi era stato ingannato nonostante le sue richieste di chiarimenti e trasparenza riguardo alla) reale situazione della suddetta Unità fino all’aprile 2004 e che pertanto le iniziative dallo stesso intraprese, sia intermini di informazione sia in termini di provvedimenti, prima di detta data, erano state del tutto adeguate alla posizione dall’esponente ricoperta e alle false rappresentazioni dei fatti allo stesso fomite e delle quali (sole), lo stesso P. era a conoscenza.
6. Con il quinto motivo di ricorso è prospettata omessa motivazione (in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.) su un fatto decisivo per il giudizio, quanto alla non ammissione delle istanze istruttorie di prova per testimoni formulate da esso P. nelle difese depositate nel corso del giudizio di primo grado (non ammesse) e riproposte davanti alla Corte territoriale.
Esso ricorrente, sin dal primo grado di giudizio, aveva chiesto prova testimoniale su capitoli di prova aventi ad oggetto la esatta ricostruzione dei fatti in relazione alle contestazioni in base alle quali la società ABB aveva intimato il licenziamento.
In particolare, il ruolo del superiore gerarchico di esso ricorrente e il fatto che in ABB e in generale nel settore dell’energia, fosse prassi il pagamento di tangenti per acquisire appalti. Sia il giudice di primo grado che la Corte d’Appello non ammettevano le prove richieste senza offrire motivazione in merito.
7. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta erroneità della sentenza nella parte in cui la Corte d’Appello ha affermato che “risultano assorbite le domande risarcitorie dell’appellante, che, a differenza delle indennità contrattuali, non sembrano essere state riproposte”. Violazione e falsa applicazione (ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.) (tra l’altro) delle norme di cui all’art. 277 c.p.c., in relazione agli artt. 434 e 414, n. 4 c.p.c.. Omessa e/o insufficiente motivazione (ai sensi dell’art. 360, n.5. c.p.c.).
II ricorrente rileva come nella motivazione della sentenza la Corte d’Appello afferma che le domande risarcitorie non sembrano essere state riproposte. Ciò non troverebbe riscontro negli atti processuali tenuto conto del contenuto del ricorso in appello le cui conclusioni sono riportate nell’’odierno ricorso, da cui la dedotta violazione delle norme sopra indicate e del vizio di motivazione.
8. Il primo, il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, come esposti in ricorso, devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati e devono essere rigettati.
Questa Corte (Cass, n. 7838 del 2005, n. 18247 del 2009) ha affermato – e qui ribadisce- che la giusta causa di licenziamento, quale fatto il che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.
Quindi, occorre distinguere; è solo l’integrazione giurisprudenziale a livello generale ed astratto della nozione di giusta causa che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria.
Nel caso di specie, il ricorrente non estrae dalla applicazione che la sentenza impugnata fa della nozione di “giusta causa” una puntualizzazione generale ed astratta per poi censurarla (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) come errata in diritto e quindi sub specie del vizio di violazione di legge, ma si limita a ripercorrere la valutazione degli addebiti contestati al lavoratore al fine di prospettare a questa Corte che la valutazione (di merito) operata dalla Corte d’Appello – e prima ancora (in termini conformi) dal tribunale – è stata contraddittoria o insufficiente e che viceversa i comportamenti in questione non sarebbero potuti rientrare nella nozione di “giusta causa” di licenziamento.
Questo tipo di critica alla sentenza impugnata rimane nell’ambito del merito, laddove, sotto i diversi profili illustrati nei motivi di ricorso, si espone che la condotta contestata al P., sia per gli accordi corruttivi che per le irregolarità contabili, non poteva ledere il vincolo fiduciario, in particolare, in ragione della riferibilità al superiore gerarchico e delle assunte prassi aziendali, e quindi le censure mosse dalla ricorrente con i primi cinque motivi di ricorso, pur se rubricate anche e soprattutto come vizio di violazione di legge, non vanno al di là della deduzione di un vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria della sentenza impugnata.
Tanto osservato, dunque, è opportuno ricordare come, con riguardo al vizio di motivazione, questa Corte ha affermato che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., n. 6288 del 2011).
Con specifico riguardo alla valutazione delle risultanze istruttorie la giurisprudenza di legittimità ha, già prima, affermato che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass., n. 7394 del 2010).
La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza impugnata, ha precisato che a norma dell’art. 2396 cc, nei confronti dei direttori generali, sono fatte salve le azioni esercitagli in base al rapporto di lavoro con la società. In tal modo, si è sottolineata l’analogia del rapporto del direttore generale e dell’amministratore con la società sotto il profilo della responsabilità, che presuppone un’autonomia della società di capitali, come soggetto dotato di personalità giuridica, dagli amministratori e dal direttore generale.
L’art. 2396 c.c., infatti, estende la disciplina della responsabilità degli amministratori ai “direttori nominati dall’assemblea o per disposizione dell’atto costitutivo, in relazione ai compiti loro affidati”.
La giurisprudenza di questa Corte ha conseguentemente affermato che “al direttore generale può essere estesa la stessa disciplina prevista per la responsabilità degli amministratori qualora la sua nomina sia stata prevista nell’atto costitutivo o sia stata deliberata dall’assemblea, entrando in questi casi la sua figura a far parte della struttura tipica della società” (Cass., n. 28819 del 2008).
Il legislatore nell’art. 2396 c.c., non ha offerto una definizione di direttore generale legata al contenuto intrinseco delle mansioni, ma ha ricollegato la responsabilità di tale soggetto alla sua posizione apicale all’interno della società, desunta dal dato formale della nomina da parte dell’assemblea o anche da parte del consiglio di amministrazione, in base ad apposita previsione statutaria (citata Cass., n. 28819 del 2008).
Posta questa precisazione, la Corte d’Appello ha ritenuto, confermando la sentenza di primo grado, che la condotta del P., relativa al pagamento della tangente Enipower, integrante fattispecie di reato, faceva venir meno la fiducia del datore di lavoro e giustificava il recesso immediato.
Il Tribunale aveva ritenuto sussistere la giustificatezza del recesso non essendo risultato che gli accordi corruttivi, di cui si era reso protagonista il ricorrente, gli fossero stati imposti da superiori gerarchici avendovi invece personalmente concordato le tangenti con le relative modalità di pagamento per l’assegnazione dei contratti da Enipower alla ABB, anche in forza delle cariche ricoperte nella società, come era stato accertato in sede penale e che le ragioni interne non potessero giustificare il superamento dei limiti di liceità, giudicando assorbiti gli altri fatti contestati.
Ha ritenuto la Corte d’Appello:
non essere contestata la conclusione dell’accordo corruttivo per assicurare l’aggiudicazione di appalti alla propria società e il pagamento di due tranche;
che non poteva sostenersi il ruolo di mero esecutore di ordini, per l’incarico ricoperto;
che l’esecuzione di un ordine superiore illegittimo, addirittura costituente reato non poteva giustificare l’inadempimento;
che le eventuali prassi invalse nel gruppo (ancorché emergenti dagli stessi atti penali, che vedono la società citata per la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001), non possono far venire meno la responsabilità dell’appellante per i fatti commessi, sia pure senza trame vantaggio personale, idonei, trattandosi pur sempre di reati, a far venire meno la fiducia e a giustificare il recesso immediato;
che anche la contestazione riguardante le manipolazioni contabili poteva ritenersi provata avendo il P. omesso di intervenire nei confronti dei manager coinvolti, ciò tenuto conto altresì, che come esposto dalla società appellata il P. aveva ammesso all’auditor nell’intervista del 18 aprile, oltre all’esistenza del fatto corruttivo, anche la conoscenza in epoca anteriore del reale ammontare delle prefatturazioni.
Nell’articolare la motivazione si può rilevare che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato come nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l’intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento (Cass., n. 22798 del 2012, n. 17092 del 2011). La valutazione delle prove ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare contestato al lavoratore, la idoneità di tali illeciti a configurare giusta causa di licenziamento e l’apprezzamento della proporzionalità della sanzione espulsiva agli illeciti contestati, si sostanziano in valutazioni di fatto riservate al giudice di merito e non suscettibili di riesame in sede di legittimità se non per vizi di motivazione. Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.
In particolare, non vale ad escludere la congruità ed adeguatezza della motivazione il fatto che la condotta del P. dovesse inscriversi in una prassi di settore, dal momento che ciò non esclude l’illiceità della condotta e la responsabilità del ricorrente circa i fatti in questione che integrano una grave violazione dei doveri di fedeltà da parte del lavoratore idonea, per le modalità concrete con cui essa si
manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali, tra i quali non può annoverarsi il procacciare affari tramite accordi corruttivi integranti fattispecie di reato o l’effettuazione di manipolazioni contabili per far apparire utili fittizi o coprire minusvalenze patrimoniali. Né la correttezza e congruità della motivazione viene scalfita dai motivi di appello relativi alle deduzioni istruttorie, in ragione della suddetta violazione dei doveri di fedeltà propri del P. in ragione della qualifica dello stesso.
Alla non fondatezza dei primi cinque motivi di ricorso consegue l’assorbimento del sesto motivo di ricorso.
Il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro quattromila per compenso professionale, euro cinquanta per esborsi, oltre accessori.
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