FONDAZIONE STUDI CDL – Circolare 21 marzo 2013, n. 3
I crediti ed i debiti si trasmettono ai soci delle società estinte
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza nr. 6070 depositata il 12 marzo 2013 sono state chiamate a prendere posizione sugli effetti della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in seguito alla riforma del diritto societario avvenuta dal 2004.
I principi sanciti sono due: I soci succedono alla società estinta nella misura prevista nel precedente rapporto societario; la cancellazione dal registro imprese, che coincide con l’estinzione, impedisce che la società possa agire o essere convenuta in giudizio.
La questione.
Con la riforma del diritto societario, è stato modificato l’art. 2495 del c.c. prevedendo che con la cancellazione di una società dal registro imprese, ne consegua l’estinzione trasformandola da soggetto esistente a soggetto inesistente. La disposizione così formulata ha dato rilievo alla cancellazione della società come istituto sostanziale, al pari di ogni altra «vicenda societaria», quali ad esempio la costituzione, la trasformazione ovvero l’organizzazione dell’impresa, per le quali solo la pubblicità, attuata mediante l’iscrizione al registro, le rende opponibili ai terzi.
Per la prima volta, quindi, in seguito alle suddette modifiche, si introduce l’estinzione quale effetto della cancellazione. Tale circostanza produce la perdita della personalità o soggettività giuridica della società, venendo meno, da quel momento, tutti i diritti e doveri in capo alla stessa, a prescindere dall’eventuale esistenza di rapporti non definiti.
Con tre sentenze delle Sezioni Unite nr. 4060, 4061 e 4062 del 2010 è stata chiarita la giusta interpretazione e portata della norma riformulata. In particolare era stato precisato che la cancellazione è da considerarsi produttiva dell’effetto estintivo ed è valevole tanto alle società di capitali quanto a quelle di persone. Per queste ultime, infatti, nonostante siano in un qualche modo escluse dall’art. 2495 del c.c., le Sezioni Unite hanno ritenuto applicabile la disposizione per ragioni di ordine sistematico, desunte anche dalla legge fallimentare. Ne consegue, dunque, che sia nei casi di società di capitali sia nelle società di persone, con la cancellazione dal registro imprese ne avviene l’estinzione, perdendo la capacità giuridica.
I debiti ed i crediti di natura civile
Le Sezioni Unite con la sentenza depositata il 12 marzo 2013 hanno affrontato le “sorti” di debiti e crediti originariamente facenti capo alla società cancellata, che non risultino definiti nella fase di liquidazione.
L’art. 2495 c.c. prevede una rivalsa da parte dei creditori sia nei confronti dei soci, nella misura in cui questi abbiano riscosso denaro o altri beni, sia nei confronti del liquidatore, qualora il mancato pagamento sia dipeso da quest’ultimo. Analoga situazione è disposta per le società di persone, con la differenza della responsabilità illimitata (fatta salva la posizione dell’accomandante) conseguente al diverso tipo societario.
I Supremi Giudici rilevano che escludere la successione dei soci nei debiti pregressi porterebbe alla conclusione che la volontaria estinzione dell’ente collettivo imponga un ingiustificato sacrificio del diritto dei creditori, che non potrebbero agire nemmeno nei confronti dei soci.
Pertanto, perché tale circostanza non si verifichi è necessario escludere che la cancellazione dal registro determini la “sparizione” dei debiti insoddisfatti, dovendo quindi necessariamente concludere che ci sia un trasferimento di questi in caso ai successori (soci), fatti salvi i limiti di responsabilità. È oltremodo chiarito che il debito a cui potrebbe essere chiamato a rispondere il socio non si configura come un debito nuovo, ma come lo stesso facente capo alla società prima dell’estinzione.
Una conferma giunge dallo stesso legislatore quando dispone che i creditori insoddisfatti possano notificare la domanda ai soci entro un anno dalla cancellazione della società presso l’ultima sede della medesima (art. 2495 c.c.). Pare che si sia ispirato all’art. 303 c.p.c. che prevede che entro l’anno dalla morte della parte, si possa notificare l’atto di riassunzione agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto. È quindi evidente una visione in chiave successoria.
Da ciò discende, quindi, che il socio della società di capitali risponde limitatamente alla quota ricevuta dal bilancio finale di liquidazione; mentre il socio della società di persone, proprio in conseguenza della diversa caratteristica del tipo societario, ne risponde illimitatamente. La Corte ha precisato che non esiste alcun pregiudizio ai creditori delle società di capitali, che possono rivalersi su cifre limitate, proprio perché per tipo di società solo la capienza del patrimonio sociale è utile (anche in vita dell’ente) a soddisfare i debiti.
Per quanto riguarda i rapporti attivi, invece, la situazione appare più complessa. In primo luogo i Giudici di legittimità sottolineano che manca un’espressa previsione normativa. Descrivono due possibili circostanze. La prima quando l’attivo sia relativo a crediti o beni liquidabili solo in seguito ad un’ulteriore attività da parte del liquidatore. Si pensi al caso in cui esista un credito senza garanzie nei confronti di un soggetto apparentemente poco solvibile. In questa ipotesi, infatti, è ragionevole ritenere che l’estinzione della società senza svolgere alcuna azione volta al recupero delle somme, può “ragionevolmente” essere interpretata come la volontà di rinunciare al credito privilegiando una rapida conclusione del rapporto estintivo.
La seconda, è relativa a residui o sopravvenienze sopraggiunti. In tal caso, la Corte rileva che così come è corretto il subingresso dei soci nei debiti sociali, in perfetta analogia, è evidente che anche nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale venga a determinarsi un analogo maccanismo successorio. È così chiarito che venendo meno il vincolo sociale, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti si instauri tra i soci medesimi in un regime di comunione, seguendone le relative regole e disposizioni. I debiti ed i crediti di natura fiscale.
La sentenza delle Sezioni Unite affronta in linea generale la sorte di debiti e crediti in seguito alla cancellazione della società. Tuttavia, in un passo fa un esplicito richiamo a quelli di natura tributaria. In particolare, quando rileva tanto corretta quanto doverosa l’interpretazione successoria delle pendenze, richiama la sentenza della Corte di Cassazione nr. 11968/2012 che bloccava tale automatico trasferimento in forza dell’art. 36 del D.P.R. 602/73. Tale norma, dispone che i soci, che abbiano ricevuto nel corso degli ultimi due anni precedenti la messa in liquidazione denaro o altri beni, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dalla società cancellata, fatte salve le ulteriori responsabilità previste dal codice civile. Era così chiarito che è consentito al Fisco agire nei confronti dei soci solo previa dimostrazione che il socio abbia effettivamente riscosso parte dell’attivo. I giudici concludevano quindi precisando che in base alle disposizioni tributarie e civilistiche non è previsto alcun subentro automatico nei rapporti con il fisco. La nuova pronuncia delle sezioni Unite, richiamando espressamente tale sentenza, pare confermare che ai fini tributari, non esiste una successione automatica, ma vige un ulteriore onere probatorio a carico dell’Amministrazione espressamente previsto dal citato art. 36 del D.P.R. 602/73.
Di recente la Direzione Regionale della Lombardia, con una nota operativa del 17 ottobre 2012 ha affrontato la questione sottolineando, innanzitutto, che la responsabilità deve essere accertata con atto autonomo nel quale devono emergere i presupposti di fatto e di diritto dai quali, a parere dell’ufficio, scaturiscono gli estremi della responsabilità in questione.
Ne consegue che in ambito tributario, la notifica dell’atto a nome della società cancellata ovvero a nome del socio, ma carente dell’idonea motivazione circa i limiti della responsabilità riscontrata a suo carico, è passibile di nullità.
Le Sezioni Unite si sono espresse anche in merito alla questione relativa a debiti e crediti rimasti pendenti in capo alla società cancellata. Trasferendo la questione in ambito tributario, si può pensare a crediti di imposta rimasti inevasi. Nella pronuncia è precisato che “sparita la società” si instaura tra i soci medesimi un regime di contitolarità o di comunione indivisa. Al riguardo si ricorda che l’Agenzia già con la ris. 27 luglio 2011, n. 77/E ha fornito indicazioni sulle sorti del rimborso spettante alla società estinta. E precisamente che sia per le società di persone che per quelle di capitali, il credito può essere rimborsato pro quota ai soci della società, ritenendo opportuna la nomina di un unico rappresentante per tutti i soci.
Il giudizio della società estinta
Il secondo principio chiarito nell’importante pronuncia è relativo all’estinzione con riguardo agli effetti sul giudizio. La questione affrontata è relativa alla cancellazione della società a causa iniziata. Preliminarmente la Corte precisa che una società non più esistente perché cancellata, non può validamente intraprendere una causa né tantomeno esservi convenuta. Ciò comporta, infatti, l’inammissibilità dell’impugnazione proposta, in quanto alla cancellazione consegue la “perdita della capacità di stare in giudizio”.
Citando pronunce precedenti, è chiarito che nei processi in corso anche se non interrotti da parte del difensore, la legittimazione sostanziale e processuale attiva e passiva, si trasferisce automaticamente ex. art. 110 c.p.c. ai soci e quindi ne diventano parti del processo, pur se estranei ai precedenti gradi. Si ricorda che il citato articolo dispone che quando la parte vien meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. C’è ancora l’assimilazione con la fase successoria. In particolare, però, è chiarito che l’assunto “o per altra causa” può includere anche l’ipotesi della cancellazione dell’ente collettivo e quindi della trasformazione da soggetto esistente a soggetto inesistente. Le basi dell’istituto dell’interruzione sono radicate nella tutela garantita al successore e nel principio per cui il giudizio d’impugnazione deve essere sempre instaurato nei confronti della “giusta parte”. Nella sentenza è chiarito che quando l’impugnazione non è diretta nei confronti della “giusta parte” o non provenga da essa, deve essere dichiarata inammissibile. Accade sovente, che il giudizio sia stato promosso oppure che in esso sia stata chiamata una parte (ad esempio la società estinta) diversa da quella “giusta” (i relativi soci). In questa ipotesi, proprio per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale ne consegue l’inammissibilità dell’atto che lo promuove.
Le sezioni Unite concludono quindi che quando l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio si determina un evento interruttivo del processo, la cui prosecuzione è possibile solo da parte o nei confronti dei soci. Nel caso, invece, il giudizio si sia concluso senza che tale interruzione sia stata fatta valere, l’eventuale impugnazione della pronuncia deve provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibilità, dai soci o nei confronti degli stessi.
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