CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 dicembre 2013, n. 49472
Reati societari – Bancarotta fraudolenta – Patrimoniale – Consulente dell’imprenditore – Fattispecie
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 6-10-2011, in parziale riforma di quella emessa dal Tribunale di Lodi, ha condannato A. M. a pena di giustizia per avere, in concorso con P. R., amministratore e legale rappresentante della P. P. srl, dichiarata fallita il 12-11-1996, eseguito pagamenti preferenziali per £ 39.137.150 a favore di P. R. e per £ 115.335.000 a favore di sé stessa, nonché altri tre pagamenti preferenziali per complessive £ 155.725.83 (capo d). Inoltre, per avere, in concorso con P. R. e con M. L., amministratore della Costruzioni P. srl, distratto beni della fallita P. P. srl, dandoli in affitto alla Costruzione P. srl nell’imminenza della dichiarazione di fallimento (capo e).
La responsabilità dell’A. è stata ricollegata alla sua posizione di ragioniera e fiduciaria dell’amministratore di diritto, a cui fu molto vicina nella fase terminale della società, contribuendo in tal modo all’assunzione delle decisioni che portarono ai pagamenti preferenziali di cui al capo d) e alla stipula, in data 1/10/1996, dei contratto di locazione di cui al capo e) – avente ad oggetto beni mobili ed immobili – con cui la società si spogliò di buona parte delle sue attività. Quanto al M., già dipendente della società fallita, nell’aver contribuito alla costituzione della Costruzioni P. srl, divenendone quotista di minoranza insieme ad altri dipendenti, nonché amministratore, e nell’avere, in tale qualità, stipulato il contratto di locazione di cui al capo e) nonostante la consapevolezza del grave dissesto della P. P. srl.
2. Ha proposto ricorso per Cassazione nell’interesse di entrambi gli imputati l’avv. N. D., avvalendosi di cinque motivi per A. M. e di un motivo per M. L..
2.1. Quanto ad A., lamenta:
– la violazione degli artt. 521 e 522 del cod. proc. pen., per contrasto tra contestazione e sentenza. Deduce che l’A. era stata citata a giudizio quale amministratrice di fatto, mentre è stata condannata come concorrente nel reato proprio dell’amministratore, con immutazione dell’elemento materiale e di quello psicologico;
– Il vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato di cui al capo d) (bancarotta preferenziale), non essendo ravvisabile l’intenzione di favorire taluno dei creditori nei pagamenti effettuati per far fronte a istanze di fallimento o per ricompensare l’attività dell’amministratore o del consulente;
– il vizio di motivazione in relazione al capo e) (bancarotta per distrazione). In maniera del tutto irragionevole, deduce, è stata ravvisata nel contratto di affitto d’azienda l’intenzione di P. di mantenere il controllo della società, posto che fu lo stesso P. a richiedere, poco tempo dopo, il fallimento dell’impresa. Inoltre, il contratto d’affitto non ebbe esecuzione, per cui dallo stesso non derivò alcun danno. Lamenta, infine, che non siano state spese parole a dimostrazione dell’elemento soggettivo;
– la violazione di legge per mancata assunzione di prove decisive art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. penale. Deduce che il Tribunale fece limitato uso dei poteri conferitogli dall’art. 507 cod. proc. pen. ed accolse solo in parte le richieste difensive formulate all’esito dell’istruttoria dibattimentale (tra cui quella di sentire il liquidatore della P. P. spa e di acquisire documentazione varia) e che il giudice d’appello, sebbene sollecitato a rimediare, abbia errato nel ritenere le nuove prove non decisive;
– il vizio di motivazione in ordine al giudizio di equivalenza (invece che di prevalenza) tra attenuanti e aggravanti, motivato col comportamento processuale dell’imputata, che si limitò ad esercitare il proprio diritto di difesa.
2.2. Quanto a M. L., lamenta l’illogicità della motivazione resa in punto di responsabilità per il reato a lui ascritto al capo e). Deduce che, contro ogni logica, la Corte d’appello ha ravvisato nella costituzione della nuova società (la Costruzioni P. srl) e nel contratto di locazione dell’1/10/1996 l’intenzione di P. R. di mantenere il controllo dei beni necessari allo svolgimento dell’attività da tempo esercitata in altro ambito societaria, giacché tate ricostruzione contrasta con le emergenze processuali, dalle quali si evince che fu lo stesso P. R. a chiedere il fallimento della P. P. srl.
Lamenta, inoltre, che la Corte abbia riconosciuto il ruolo marginale svolto dal M. e ravvisato nella sua iniziativa lo scopo di mantenere il posto di lavoro e che, nonostante questo, abbia ritenuto sussistente l’elemento soggettivo della banca rotta.
2.3. In data 19/09/2013 l’avv. D. ha depositato, nell’interesse di A. M., memoria con “motivi nuovi”, con cui ha nuovamente argomentato sui punti toccati dal ricorso. Ha sottolineato, in ordine al capo e (terzo motivo di ricorso), il fatto che i beni oggetto del contratto di locazione non appartenevano alla società fallita, ed ha eccepito la prescrizione dei reati.
Considerato in diritto
Nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento, anche se, essendo nel frattempo maturata la prescrizione per il reato di cui al capo d), va disposto per A. il rinvio al giudice a quo per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
Motivi di A. M.. 1. Il primo motivo è infondato, essendo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui si ha violazione del principio di corrispondenza tra accusa e decisione solo nel caso l’imputato risulti concretamente pregiudicato nel suo diritto di difesa. Per accertare se la modifica dell’addebito nella sentenza determini un vulnus di tale diritto non è sufficiente il mero confronto letterale fra l’imputazione e la decisione, ma bisogna accertare se sia mutato il fatto, vale a dire se risulti radicalmente trasformata la fattispecie concreta contestata, in maniera tale da risultare incerto l’oggetto della contestazione. Al contrario, deve escludersi la violazione del diritto de quo allorquando l’originaria contestazione, considerata nella sua interezza, contenga gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza e si accerti che l’indagato si è trovato, in concreto, nella condizione di difendersi. Inoltre, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 c.p.p., deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione.
Alla luce di tanto nessuna violazione di legge può dirsi consumata. Basti osservare, in proposito, che – come si legge nell’impugnato provvedimento – all’imputata era stato contesto di aver eseguito personalmente i pagamenti preferenziali di cui al capo d) e di aver posto in essere personalmente, quale amministratore di fatto, le operazioni di cui al capo e), e che rispetto a tali contestazioni l’A. si è difesa nel corso di tutto il procedimento, negando un suo ruolo nelle operazioni sopra descritte e contestando la stessa qualificazione dei fatti. La sua difesa, pertanto, non ha subito alcun pregiudizio dall’accertata compartecipazione ai fatti di P. R., amministratore di diritto, giacché la fattispecie originariamente contestata è più ampia e coinvolgente di quella ritenuta in sentenza, essendo quest’ultima della stessa natura giuridica ma più circoscritta in fatto, con conseguente delimitazione del thema probandum.
Un quadro, quindi, che esclude sia l’ignoranza che l’ampliamento (o il mutamento) della sostanza accusatoria.
2. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso, concernente l’elemento psicologico della bancarotta preferenziale, che è integrato dal dolo specifico di favorire taluno dei creditori in danno degli altri, ma non occorre che il danno alla massa sia voluto direttamente dall’agente, essendo sufficiente l’accettazione della sua eventualità (Cass., 20/5/2009, n. 31168; N. 4431 del 4/3/1998. Conf. N. 7856 del 1987, Rv. 176284; N. 6681 del 1988, Rv. 178537; N. 7230 del 1991, Rv. 187698). Pertanto, è vero che l’esecuzione, da parte dell’imprenditore, di pagamenti in un periodo di difficoltà dell’impresa non concreta sempre un’ipotesi di bancarotta preferenziale, potendo essere mosso dalla prospettiva di superare difficoltà contingenti in vista di un presumibile riequilibrio finanziario e patrimoniale (prospettiva che esclude, sotto l’aspetto psicologico, l’intenzione di discriminare i creditori); tuttavia, tale finalismo non è invocabile di fronte ad un dissesto grave e irreversibile, che lascia Intravedere, in termini più che probabilistici, il dissolvimento dell’impresa. In questo caso non solo i pagamenti eseguiti a favore dell’amministratore e a coloro che lo coadiuvano sono da ricondurre – com’è costantemente affermato in giurisprudenza – al l’ipotesi della bancarotta fraudolenta (quantomeno di quella preferenziale), ma anche quelli eseguiti a favore dei creditori – e anche quelli fatti per ottenere desistenze dall’iniziativa di fallimento – devono ricevere analoga qualificazione, essendo logicamente accompagnati dalla consapevolezza, anche solo a livello di dolo eventuale, di alterare, in prospettiva, l’ordinato concorso dei creditori sul compendio fallimentare (Cass., 24/2/1998, n. 4427).
Nella specie è stato correttamente rilevato che nessuno dei pagamenti specificati al capo d) era giustificato dalle condizioni di totale decozione dell’impresa: non quello a favore dell’amministratore, che non è mai ammesso a soddisfarsi con preferenza rispetto agli altri creditori (da ultimo, Cassazione penale, sez. V 16/04/2010 n. 21570, che ha escluso l’esistenza del più grave reato di bancarotta patrimoniale, ma ha ribadito la ricorrenza dì quella preferenziale); non quello a favore dell’A., che concorreva con i crediti aventi pari o miglior privilegio e doveva sottostare, quindi, alle regole della concorsualità; non quello a favore dei fornitori, che erano addirittura chirografari e destinati a rimanere, con ogni probabilità, totalmente insoddisfatti nel riparto fallimentare. Le doglianze della ricorrente sono, quindi, del tutto infondate, anche se la sentenza va annullata sul punto perché il reato si è, nel frattempo, prescritto.
3. Nemmeno il terzo motivo – concernente la bancarotta per distrazione di cui al capo e) – è fondato. Secondo il costante insegnamento di questa Corte, il distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore poi fallito (con conseguente depauperamento in danno dei creditori), in cui si concreta l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela. In conseguenza di ciò – è stato affermato – costituisce condotta idonea ad integrare un fatto distrattivo riconducibile all’area d’operatività dell’art. 216, comma primo, n. 1, legge fall., l’affitto dei beni aziendali per un canone incongruo (Cass., n, 44891 del 9/10/2008), specie se stipulato al fine di mantenere la disponibilità materiale dell’immobile locato alla famiglia del titolare della società fallenda (49642 del 2/10/2009) o anche di altro soggetto giuridico (n. 46508 del 27/11/2008); la conclusione di contratti (nella specie affitto di azienda) privi di effettiva contropartita e preordinati ad avvantaggiare i soci a scapito dei creditori (Cass., 10742 del 15/2/2008); il contratto di locazione di beni aziendali perfezionato nella immediatezza della dichiarazione di fallimento senza la previsione di una clausola risolutiva espressa da fare valere nel caso di imminente instaurarsi della procedura fallimentare (Cass., N. 7201 del 18/1/2006). Trattasi di giurisprudenza da cut non si intravedono motivi per discostarsi, posto che l’oggetto giuridico del reato è dato, nella specie, dalla tutela dell’integrità del patrimonio del debitore in funzione dell’interesse dei creditori: integrità certamente compromessa da atti che, seppur formalmente leciti, determinano, per il modo e le circostanze in cui vengono posti in essere, un danno per I creditori.
Nel caso di specie il contratto d’affitto è stato stipulato a favore di società riconducibile ai P., posto che i suoi soci erano persone da loro scelti; la società affittuaria non si accollava i debiti della locatrice; con l’affitto dei beni alla Costruzioni P. srl la società (poi) fallita perdeva la possibilità di svolgere qualsiasi proficua attività, per cui non avrebbe consegnato al curatore un’azienda fornita di residua vitalità (anche in vista di un esercizio provvisorio); il contratto era stipulato per sei anni e non prevedeva alcuna clausola di gradimento per la curatela: pertanto, sulla base della normativa dell’epoca (art. 80 L.F.), il curatore poteva solo subentrare net contratto e accettarne gli effetti, con tutte le conseguenze che ne derivavano per I creditori (compresa quella di attendere lo spirare del sessennio per avviare la liquidazione dei beni locati). In maniera più che logica, pertanto, i giudici hanno ritenuto che tale contratto fosse stato stipulato nell’interesse dei P. e che esso determinasse un impoverimento della massa fallimentare, comportando una drastica riduzione del valore dei beni che ne erano oggetto.
Né ha rilievo che i beni non fossero ancora entrati definitivamente nel patrimonio del locatore, né che il contratto non avesse avuto ancora esecuzione. Tra i beni del fallito sono ricompresi, infatti, non solo quelli di sua proprietà, ma anche quelli sui quali l’impresa vanti un diritto reale, sia pure sottoposto a condizione, o personale di godimento, in quanto: nel primo caso, sussiste in capo al curatore il diritto di subentro nel contratto, ovvero, in caso di risoluzione per inadempimento, un diritto alla restituzione delle rate già riscosse (ex art. 1526 cc); nel secondo caso si tratta pur sempre di un diritto avente contenuto economico, di cui il curatore può, a seconda delle circostanze e della natura del contratto, avvalersi. Esatta è, pertanto, l’interpretazione dei giudici di merito, i quali hanno ritenuto che la riserva di proprietà dei beni a favore della P.P. spa non abbia influenza nella qualificazione della condotta.
Quanto, poi, al fatto che il contratto dovesse avere decorrenza a partire dall’1- 12-1996, trattasi di circostanza legittimamente ritenuta ininfluente, pacifico essendo che il reato di bancarotta patrimoniale è integrato, dal punto di vista oggettivo, dalla semplice esposizione a pericolo dell’interesse protetto, a nulla rilevando che un danno non si sia, in concreto, verificato (ex multis, Cass., ; 22/6/2010, n. 30932). Peraltro, tale evenienza non è nemmeno rispondente alla ; realtà di questo processo, in quanto – come è stato chiaramente messo in evidenza nella sentenza impugnata – il contratto di cui si discute non è stato affatto “indolore” per la curatela, che è stata costretta ad imbarcarsi in lunghe e costose azioni giudiziarie per recuperare la disponibilità dei beni locati (pag. 13 della sentenza d’appello).
Infondate sono anche le doglianze in tema di elemento soggettivo, posto che concorre in qualità di “extraneus” nei reati di bancarotta patrimoniale e documentale il consulente contabile che, consapevole dei propositi distrattivi o di confusione contabile dell’imprenditore, fornisca consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o lo assista nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolga attività dirette a garantirgli l’impunità o a rafforzarne, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni, l’intento criminoso (ex multis, Cass., n. 39387 del 27/6/2012). Nella specie, tutta la ricostruzione operata dalla Corte d’appello evidenzia come l’A. abbia “consapevolmente proposto, coltivato e insistito affinché venissero posti in essere atti depauperatori del patrimonio sociale a danno dei creditori” (pag. 13); né assume rilievo la circostanza che sia stato il P. a chiedere il fallimento della società, posto tale comportamento non è logicamente incompatibile con l’intenzione di conservare la disponibilità dei beni sociali attraverso prestanomi (anzi, lo presuppone).
4. Nemmeno merita accoglimento il motivo in rito (il quarto). La mancata assunzione di una prova decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, secondo comma, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (Cass., n. 9763 del 6/12/2013). Nella specie non risulta, né è stato dedotto, che le prove ritenute “non decisive” dal giudice siano state chieste a norma dell’art. 495 cod. proc. pen., per cui lo doglianza relativa alla mancata escussione del liquidatore della P. P. spa e all’acquisizione documentazione specificata a pag. 15/16 del ricorso è destituita di fondamento.
Senza fondamento è anche la lamentata violazione dell’art. 603 cod. proc. penale. Nel giudizio d’appello, trattandosi di un procedimento critico che ha per oggetto la sentenza impugnata, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale, rispetto all’abbandono del principio di oralità del secondo grado, nel quale vale la presunzione che l’indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l’art. 603, comma 1, c.p.p. non riconosce carattere di obbligatorietà all’esercizio del potere del giudice d’appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti. Con la conseguenza che, se è vero che il diniego dell’eventualmente invocata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e della non congruità è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti (Cassazione penale, sez. IV, 28/04/2011, n. 23297). Tanto è in concreto avvenuto, avendo la Corte territoriale ritenuto che fosse “già ricostruita in modo articolato e puntuale nel corso del giudizio di primo grado la natura dei rapporti intercorsi tra A. e il liquidatore prima e il curatore poi della P.P. spa e comunque potendo essi riferire di circostanze non decisive in ordine alla sussistenza dei reati anche nella loro componente soggettiva”; mentre, per quanto riguarda la documentazione dì cui veniva chiesta l’acquisizione, è stato sottolineato che riguardava reati prescritti o era attinente a circostanze irrilevanti.
La suddetta motivazione è logica e puntuale, per cui assolve all’obbligo motivazionale con la necessaria completezza.
5. In conclusione, i motivi di ricorso dell’A. sono tutti infondati. Si rileva, tuttavia, che il passaggio del tempo ha comportato l’estinzione per prescrizione del reato contestato all’imputata al capo d), in applicazione della normativa vigente prima della L. 5 dicembre 2005, n. 251. Di conseguenza, la sentenza va annullata relativamente a detto capo con rinvio alla Corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Tale soluzione si impone perché, ai sensi dell’art. 170 cod. pen., “l’estinzione di taluno fra più reati connessi non esclude, per gli altri, l’aggravamento di pena derivante dalla connessione”. Ne consegue che, sebbene il reato di cui al capo d) risulti prescritto, non diviene inoperante, per questo, la circostanza aggravante di cui all’art. 219, comma 2, n. 1, L.F., da sottoporre a giudizio di bilanciamento, ai sensi dell’art. 69 cod. pen., con le attenuanti generiche, già concesse dal giudicante.
Ricorso di M. L.. Anche il ricorso di M. è infondato. Costituisce ius receptum che, in tema di bancarotta fraudolenta impropria, l’extraneus concorre nel reato proprio dell’amministratore quando sia l’istigatore o il beneficiario di operazioni dolose volte a depauperare il patrimonio dell’impresa, allorché risulti consapevole del rischio che le suddette operazioni determinano per le ragioni dei creditori della società, non essendo invece necessario che egli abbia voluto causare un danno ai creditori medesimi. Circa l’effetto pericoloso per la società delle operazioni a lui addebitate valga quanto evidenziato al punto 3. Né lo scopo da lui asseritamente perseguito (conservare il posto di lavoro) elide l’antigiuridicità della condotta, posto che il dolo di bancarotta è integrato, nella specie, dalla consapevole volontà dei singoli atti di sottrazione, occultamento o distrazione e, comunque, di quegli atti con i quali si viene a dare la patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa, con la consapevolezza di compiere atti che cagionano, o possono cagionare, danno al creditori (Cass., sez. 5, 16/10/2008, n. 43216; Cass., 10/1/2008; Cass., 15/11/2007, n. 46921).
Ciò posto, si rileva, comunque, che il reato si è prescritto, per M., il 6/1/2012. Pertanto, la sentenza va annullata nella parte che lo riguarda.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M. L. per essere il reato ascrittogli estinto per prescrizione e nei confronti della A. limitatamente al capo d) per essere il reato estinto per prescrizione, Rinvia gli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, limitatamente al giudizio di comparazione relativo al capo e), nei confronti della A.. Rigetta nel resto il ricorso di quest’ultima.
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