CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 dicembre 2013, n. 27822
Tributi – Accertamento – Accertamento induttivo – Calcolo – Efficacia vincolante del giudicato penale – Non opera automaticamente nel processo tributario
Svolgimento del processo
La srl D.C.L. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEG e dell’ILOR per il 1996, con il quale, all’esito del contraddittorio con la contribuente, era stato rideterminato il reddito d’impresa mediante rettifica con metodo analitico induttivo, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 del 1973, applicato secondo il disposto dell’art. 62 sexies, comma 3, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, essendo stata evidenziata nella verifica una notevole divergenza fra la percentuale di ricarico media ponderata praticata dalla società sulla merce venduta, pari al 50%, applicata al costo del venduto, ed il valore risultante dal registro dei corrispettivi al netto dell’IVA.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la società ricorrente censura la decisione, sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, per aver disatteso l’opposizione del giudicato esterno, costituito da decisioni di merito “favorevoli alla ricorrente” resi nei confronti di una ditta individuale “appartenente al medesimo gruppo economico ed esercente identica attività commerciale”, formatosi sulla illegittimità della percentuale di ricarico applicata.
Il motivo è privo di pregio, in quanto “in tema di giudicato, il principio secondo il quale, qualora due giudizi abbiano riferimento ad uno stesso rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento, cosi compiuto, in ordine alla situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, preclude il riesame dello stesso punto non trova applicazione allorché tra i due giudizi non vi sia identità di parti, essendo l’efficacia soggettiva del giudicato circoscritta, ai sensi dell’art. 2909 cod. civ., ai soggetti posti in condizione di intervenire nel processo” (Cass. n. 2786 del 2006); in altri termini, “nel processo tributario, il presupposto dell’efficacia del giudicato esterno è che esso si sia formato tra le stesse parti, non essendo sufficiente che esso riguardi un accertamento riferibile ad una questione di fatto comune ad entrambe le cause” (Cass. n. 23658 del 2008).
Con il secondo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine alla “rilevanza nel processo tributario de quo dell’efficacia dirimente degli elementi di giudizio tratti dalle risultanze probatorie e dalla stessa sentenza di assoluzione intervenuta in sede penale”.
Il rilievo è infondato, in quanto il giudice di merito, premessa l’affermazione del principio generale di reciproca autonomia fra il processo penale e il processo tributario, anche in ragione della tutela degli interessi che ciascun procedimento persegue, ha rilevato, in concreto, che “gli elementi che la contribuente chiede di assumere dai verbali del processo penale, ai quali ovviamente non potrebbe attribuirsi altra valenza se non quella di elementi di valutazione aggiuntivi rimessi all’apprezzamento del giudice tributario, non conferiscono alcun dato ulteriore di rilievo rispetto a quelli già conosciuti in relazione alla metodologia di accertamento adottato e, pertanto, non rivestono valenza utile ai fini del decidere”.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, “ai sensi dell’art. 654 del cod. proc. pen., che ha implicitamente abrogato l’art. 12 del d.l. n. 429 del 1982 (convertito nella legge n. 516 del 1982), poi espressamente abrogato dall’art. 25 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera automaticamente nel processo tributario, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Nessuna automatica autorità di cosa giudicata può quindi attribuirsi, nel separato giudizio tributario, alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente. Ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.) deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare” (ex multis, Cass. n. 3724 del 2010).
Con il terzo motivo la ricorrente si duole: sotto il profilo della violazione di legge, della “determinazione di un criterio di accertamento induttivo del reddito d’impresa (la cd. percentuale di ricarico) in via astratta, con formula matematica e a discrezione degli accertatoci, in modo avulso da qualsiasi considerazione della reale capacità contributiva del soggetto verificato e delle concrete ed effettive modalità di esercizio dell’attività commerciale”, assumendo non sia legittima, ai sensi dell’art. 39 e 40 del d.P.R. n. 600 del 1973 l’adozione di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza dell’art. 2909 [ recte 2729 ] c.c.”; e, sotto il profilo del vizio di motivazione, “dei criteri di determinazione della percentuale di ricarico e della pretesa congruità della percentuale di ricarico applicata nella misura del cinquanta per cento”.
Nella sentenza impugnata non si ravvisano l’errore di diritto né il vizio di motivazione ad essa addebitati.
Questa Corte ha infatti affermato che nell’accertamento delle imposte sui redditi “l’art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427) consente, pure in presenza di contabilità formalmente regolare e senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non assolutamente necessaria, la rettifica induttiva del reddito d’impresa qualora emergano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta o agli studi di settore, e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dell’art. 39, primo coma, lettera d, del d.P.R. n. 600 del 1973” (Cass. n. 8643 del 2007); si è chiarito come l’Amministrazione finanziaria sia abilitata, a norma della previsione in parola, “a fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili «dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta», sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente” (Cass. n. 16430 del 2011).
Il giudice d’appello ha premesso che, cane si evinceva dall’avviso, l’accertamento in esame era stato condotto secondo la forma dell’accertamento analitico, secondo l’impostazione allargata conferita all’art. 39, coma 1, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973, dal disposto dell’art. 62 sexies, comma 3, del d.l. n. 331 del 1993, dove l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione, che dovevano risultare dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche sono state sostituite da “gravi incongruenze tra ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati”, rispetto a quelli “desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni della specifica attività svolta”. Ed in relazione alla nozione di “gravi incongruenze” ha osservato che “si tratta di un accertamento cane per dire misto, cioè analitico induttivo, nel senso che esso parte dall’analisi di alcuni elementi tratti dalle scritture, i ricavi, i costi e il reddito, per indurne alcune conclusioni in punto di reddito tassabile”, ponendo “al centro del controllo la ragionevolezza dei ricavi e dei corrispettivi dichiarati”.
Nel caso in esame, “il risultato cui l’ufficio è in concreto pervenuto non è il prodotto di dati velleitari costruiti dal nulla, ma, cane dice la norma, la risultante della constatazione di una grave incongruenza tra ricavi e reddito dichiarati, che l’ufficio ha indicato puntualmente con dati numerici prelevati dai documenti contabili; il resto non è altro che l’effetto di una ricostruzione del risultato che quei dati avrebbero dovuto comportare, in modo, per stare alla norma, da apparire almeno in parte più congruente”.
In altri termini, “i dati contabili utilizzati dall’organo investigativo per la ricostruzione dell’indice medio di ricarico sui costi, sono stati tutti o attinti dalle scritture e dai dati rilevati nel corso delle ispezioni, o ricostruiti “in contraddittorio” con il rappresentante della società, sia nella fase di determinazione dei prezzi di vendita praticati, sia nella fase dell’applicazione del correttivo in diminuzione dell’indice di ricarico teorico risultato dall’applicazione della formula, dal 61,31% al 50%…”
Questa Corte ha chiarito, in tema di “accertamento standardizzato”, come il contraddittorio con il contribuente debba ritenersi elemento essenziale e l’imprescindibile del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa quando si faccia ricorso all’elaborazione parametrica e come sia il mezzo più efficace per consentire un necessario adeguamento della detta elaborazione – che, essendo una estrapolazione statistica a campione di una platea omogenea di contribuenti, soffre delle incertezze da approssimazione dei risultati proprie di ogni strumento statistico – alla concreta realtà reddituale oggetto dell’accertamento nei confronti di un singolo contribuente; ed ha “ribadito che quel che dà sostanza all’accertamento mediante l’applicazione dei parametri (ovvero studi di settore, ovvero coefficienti presuntivi) è il contraddittorio con il contribuente dal quale possono emergere elementi idonei a commisurare alla concreta realtà economica dell’impresa la “presunzione” indotta dal rilevato scostamento del reddito dichiarato dai parametri. Pertanto, la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo del predetto scostamento dai parametri, ma deve essere integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio: è da questo più complesso quadro che emerge la gravità, precisione e concordanza attribuibile alla presunzione basata sui parametri e la giustificabilità di un onere della prova contraria (ma senza alcuna limitazione di mezzi e di contenuto) a carico del contribuente” (Cass., sezioni unite, 18 dicembre 2009, n. 26635, anche in motivazione).
In proposito, nel caso in esame il giudice d’appello ha osservato cane da parte della contribuente non vi siano state “contrapposizioni specifiche sulla concretezza dei numeri, mentre invece vi sono state numerose esposizioni teoriche che hanno tentato di rapportare le premesse teoriche alla situazione della società”, attestandosi l’attività difensiva sul “confronto con una situazione esterna – un’altra impresa, ditta individuale, facente parte del medesimo gruppo economico – e su un giudicato che relativamente ad essa si sarebbe formato, per chiederne l’applicazione nel caso in discussione”. “Nella contrapposizione dialettica delle parti e dei fatti da ciascuna rappresentati”, mentre l’ufficio aveva applicato la normativa “direttamente alla concretezza dei numeri rilevabili dai documenti”, la contribuente si era limitata ad una difesa strenua, ma condotta marginalmente, affidandosi più ad affermazioni teoriche che a fatti concreti idonei a demolire l’impostazione dell’accertamento”.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia emessa o insufficiente motivazione in ordine alla mancata accettazione da parte di essa contribuente dei risultati oggettivamente sfavorevoli e penalizzanti dell’accertamento in sede di accesso e di controllo fiscale.
Il motivo è infondato, ai limiti dell’inammissibilità in quanto si risolve in una rivisitazione delle risultanze basate su asserzioni non entrate, come si evince dalla sentenza impugnata, nel dibattito processuale.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in euro 7.425, oltre alle spese prenotate a debito.
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