CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 dicembre 2013, n. 27678
Tributi – IVA – Tardiva annotazione delle operazioni imponibili nel registro dei corrispettivi – Violazione meramente formale – Non incidenza sull’imposta dovuta – Applicazione sanzioni – Esclusione
Svolgimento del processo
Con sentenza 12.6.2007 n. 66 la Commissione tributaria della regione Liguria ha rigettato l’appello proposto dall’Ufficio di Genova 1 della Agenzia delle Entrate rilevando che la contribuente C.V.A.A. s.p.a. (successivamente trasformata in C.A.A. s.a.s.) non aveva osservato i termini per la annotazione delle operazioni imponibili nel registro dei corrispettivi previsti dal DPR n. 633/1972, ma che non dovevano comunque essere irrogate sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 10, Legge n. 212/2000, in quanto la tardiva registrazione dei corrispettivi integrava una mera violazione formale senza debito d’imposta.
I Giudici territoriali, pertanto, hanno annullato l’atto irrogativo della sanzione pecuniaria per omessa tempestiva iscrizione nel registro dei corrispettivi delle operazioni imponibili.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate deducendo quattro motivi corredati di quesito di diritto.
Ha resistito con controricorso la società.
Motivi della decisione
I motivi del ricorso principale
Con il primo motivo la Agenzia fiscale denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 co 1 n. 4 c.p.c., avendo la CTR ligure ecceduto dai limiti del “tantum devolutum”, confermando con diversa motivazione la decisione di prime cure – nella parte in cui la CTP aveva annullato il provvedimento irrogativo della sanzione per omessa registrazione dei corrispettivi ritenendo che le annotazioni dovessero essere eseguite entro il termine di presentazione delle dichiarazioni IVA mensili, non essendo invece stato impugnato dalla società l’atto di irrogazione della sanzione per ritardato versamento dell’IVA relativa al mese di settembre -, sul presupposto che la società era incorsa in violazione delle norme sulla tenuta dei registri IVA ma tale condotta non era punibile, ai sensi dell’art. 10 co 3 legge n. 212/2000, in quanto trattavasi di violazioni meramente formali, sebbene tale questione non fosse stata sollevata dalla società contribuente in nessuno dei gradi di merito, avendo la contribuente sostenuto soltanto di non essere tenuta all’osservanza del termine di cui all’art. 24 Dpr n. 633/72, avendo istituito i registri sezionali.
Con il secondo motivo si censura “l’error in judicando” in cui sono incorsi i Giudici di appello ravvisando nella specie di omessa registrazione dei corrispettivi l’ipotesi di violazione meramente formale ai sensi dell’art. 10 comma 3 legge n. 212/2000, atteso che tale condotta veniva ad incidere sull’attività di controllo ed accertamento degli Uffici finanziari.
Con il terzo motivo la Agenzia denuncia la violazione degli artt. 24 e 42 del Dpr n. 633/1972 rilevando che la circolare ministeriale n. 27/1972, pur prevedendo la facoltà del contribuente di suddividere il registro corrispettivi in più registri sezionali, non ha introdotto modifiche ai termini che debbono essere osservati per le annotazioni, ed analogamente l’art. 39 del Dpr n. 633/1972 che prevedeva la facoltà di istituire un registro unico bollato e vidimato sul quale eseguire tutte le annotazioni prescritte dai precedenti artt. 23, 24 e 25.
Con il quarto motivo la Agenzia delle Entrate censura la sentenza di appello per vizio di insufficiente motivazione ex art. 360 co l n. 5 c.p.c. rilevando che la CTR aveva omesso di rappresentare gli argomenti logici e le ragioni giuridiche poste a fondamento della decisione, con specifico riferimento alla sussistenza delle violazioni inerenti la registrazione delle operazioni commerciali e l’applicazione delle sanzioni.
Esame dei motivi del ricorso principale
Il terzo motivo è inammissibile in quanto:
a) il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. è meramente tautologico della prescrizione di legge e privo di qualsiasi specifico riferimento al caso concreto oggetto di controversia, chiedendosi alla Corte di “ribadire” che in caso di violazioni dell’obbligo di tempestiva registrazione dei corrispettivi prescritto dagli art. 23 e 24 Dpr n. 633/72 debbano applicarsi le sanzioni previste dalla legge (cfr. Corte cass. SU 21.6.2007 n. 14385 : “La mancanza di conferenza del quesito di diritto rispetto al deciso -è assimilabile all’ipotesi di mancanza del quesito, a norma dell’art. 366 bis cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del motivo, in applicazione del principio in tema di motivi non attinenti al “decisum “, nel senso che la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 cod. proc. civ., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio conf. Corte cass. SU 2.4. 2008 n. 8466; Corte cass. SU 12.5.2008 n. 11650)
b) il motivo è del tutto inconferente in quanto, da un lato, non individua quale statuizione della sentenza impugnata debba essere sottoposta a critica per violazione delle norme di legge indicate in rubrica; dall’altro si limita ad illustrare, solo per confutarle, una serie di ipotesi ricostruttive alternative, non considerate dalla sentenza impugnata, che avrebbero potuto ingenerare l’errore in ordine alla tempestività delle registrazioni eseguite dalla società (quali: la suddivisione del “registro corrispettivi” in distinti registri cd. sezionali -nella specie registro Officina e Commerciale-; la tenuta dei registri mediante utilizzo di un sistema meccanografico; la tenuta di un unico registro bollato e vidimato): nessuna di queste ipotesi risulta esaminata ed assunta dal Giudice di appello a fondamento della decisione, con la conseguenza che la censura deve essere dichiarata inammissibile per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c. difettando l’oggetto stesso della critica.
Il quarto motivo è inammissibile in quanto
a) la sintesi del fatto controverso ex art. 366 bis, seconda parte c.p.c., non risponde ai requisiti di legge: la Agenzia ricorrente anziché individuare gli elementi di fatto -la cui valutazione sarebbe stata omessa od inesattamente compiuta dal Giudice di merito- esaurisce la questione controversa in una apodittica affermazione di illogicità della motivazione della sentenza, senza individuare l’errore in cui sarebbe incorsa la CTR;
b) conseguentemente anche il motivo è inammissibile: il collegamento ipotizzato nella esposizione tra l’asserito vizio di insufficienza logica e la “sussistenza dei comportamenti violativi’’ è inconferente in quanto, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, il Giudice di merito non ha affatto escluso la esistenza della condotta violativa (omesse annotazioni nel registro corrispettivi entro i termini previsti per legge), ma in relazione all’accertamento di tale condotta materiale ha, invece, ritenuto inapplicabile la sanzione, qualificando la omessa registrazione nel termine come “violazione meramente formale”, in ordine alla quale l’art. 10 co 3 legge n. 212/2000 impedisce la irrogazione di sanzioni.
Il primo motivo ed il secondo motivo del ricorso principale sono invece ammissibili e possono, quindi, essere esaminati nel merito.
Il primo motivo con il quale è dedotto il vizio di nullità processuale per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è infondato.
Occorre premettere che la registrazione dell’ammontare globale dei corrispettivi relativi alle operazioni imponibili effettuate in ciascun giorno, anziché essere “eseguita entro il giorno non festivo successivo a quello in cui le operazioni sono state effettuate”, come prescritto dall’art. 24 comma 2 Dpr n. 633/72 -nel testo vigente ratione temporis-, era stata eseguita dalla società nel termine mensile previsto dall’art. 27 comma 1 Dpr n. 633/72 per la presentazione della dichiarazione IVA: in particolare, come è dato desumere dalla lettura della sentenza, sul registro sezionale corrispettivi “Commerciale” erano state annotate tardivamente le operazioni effettuate nel periodo 1.9-31.10.1978, e nel registro sezionale corrispettivi “Officina” erano state annotate in ritardo le operazioni effettuate nel periodo 24.10- 2.11.1978.
Tanto premesso, immutati i fatti materiali come sopra accertati:
a) la sentenza emessa dalla CTP di Genova n. 362/2004 aveva accolto il ricorso della società contribuente ritenendo le registrazioni potessero essere eseguite entro il medesimo termine previsto per la presentazione della dichiarazione mensile (valorizzando la disposizione di cui al punto 4 della circolare Ministero delle Finanze in data 21.11.1972 n. 27)
b) tale sentenza è stata impugnata dall’Ufficio finanziario con specifico motivi di gravame deducendo la illiceità della condotta in quanto sussumibile nell’art. 42 Dpr n. 633/72 che richiamava espressamente il termine per le annotazioni sul registro corrispettivi indicato nell’art. 24 del medesimo decreto presidenziale
c) il Giudice di appello, pur concordando con la tesi dell’Ufficio relativa alla tardività della annotazioni, dovendo ritenersi applicabile nella fattispecie il termine di cui all’art. 24 Dpr n. 633/72, tuttavia riteneva non punibile tale condotta, ai sensi dell’art. 42 Dpr n. 633/72, in quanto integrante una “violazione meramente formale” in ordine alla quale l’art. 10 comma 3 della legge n. 212/2000 escludeva la punibilità
d) la soluzione adottata dalla CTR è stata criticata dalla Agenzia fiscale in quanto ritenuta affetta da eccesso di pronuncia, no n essendo stata sollevata dalla contribuente la questione della violazione formale nei precedenti gradi di giudizio.
Sono da ritenersi “jus receptum” i principi di diritto affermati da questa Corte secondo cui nelle controversie tributarie:
– il giudizio tributario non si connota come un giudizio di “impugnazione- annullamento”, bensì come un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, dagli specifici motivi dedotti nel ricorso introduttivo del contribuente (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 21759 del 20/10/2011). Consegue pertanto che, ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura entro i limiti posti dalle domande di parte (cfr. Corte cass. V sez. 12.7.2006 n. 15825; id. V sez. 23.7.2007 n. 16252; id. V sez. 3.8.2007 n. 17127; id. V sez. 17.10.2008 n. 25376, con riferimento alla determinazione della sanzione pecuniaria), a condizione che resti nel limite della pretesa tributaria esercitata dall’Ufficio e che gli elementi utilizzati siano ritualmente acquisiti agli atti (cfr. Corte cass. V sez. 28.5.2010 n. 13132). Tali principi si applicano anche nel caso di giudizi di impugnazione di provvedimenti irrogativi della sanzione pecuniaria
– nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma della impugnazione dell’atto tributario per vizi formali o sostanziali, l’indagine sul rapporto sostanziale non può che essere limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado, con la conseguenza che, ove il contribuente deduca specifici vizi di invalidità dell’atto impugnato, il giudice deve attenersi all’esame di essi e non può, “ex officio”, annullare il provvedimento impositivo per vizi diversi da quelli dedotti, anche se risultanti dagli stessi elementi acquisiti al giudizio, in quanto tali ulteriori profili di illegittimità debbono ritenersi estranei al “thema controversum”, come definito dalle scelte del ricorrente. L’oggetto del giudizio, come circoscritto dai motivi di ricorso, può essere modificato solo nei limiti consentiti dalla disciplina processuale e, cioè, con la presentazione di motivi aggiunti, consentita però, ex art. 24 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel solo caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione” (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 19337 del 22/09/2011)
– l’oggetto del giudizio tributario è, dunque, rigorosamente circoscritto al controllo di legittimità formale e sostanziale dell’atto impugnato, nei limiti delle contestazioni sollevate dal contribuente con i motivi dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado, e l’indagine sul rapporto tributario è necessariamente limitata al riscontro della consistenza della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria con l’atto impositivo, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso enunciati (cfr. Corte cass. V sez. 29.9.2006 n. 20516; id. V sez. 11.5.2007 n. 10779). La giurisprudenza di legittimità è infatti assolutamente concorde nel ritenere che “il giudizio tributario, anche in base alla disciplina dettata dagli artt. 18, comma secondo, 19 e 24, comma secondo, D.Lgs. n. 546 del 1992, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati, ed ha un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo, in primo grado, onde delimitare sin dalla nascita del rapporto processuale tributario le domande e le eccezioni proposte dalle parti” (cfr. Corte cass. V sez. 18.6.2003 n. 9754; id. V sez. 2.4.2007 n. 8182; id. V sez. 3.8.2007 n. 17119; Corte cass. SU 23.12.2009 n. 27209)
Ne consegue, che in grado di appello -come sancito, nella disciplina vigente, dall’art. 57, primo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992- non è consentita alle parti la introduzione di nuove “causae petendi” (Corte cass. V sez 3.4.2006 n. 7766): pertanto, da un lato, il contribuente non può modificare la domanda di annullamento dell’atto impositivo prospettando ulteriori vizi di legittimità non dedotti in primo grado; dall’altro l’Amministrazione finanziaria non può, mutare i termini della contestazione, deducendo circostanze di fatto o ragioni giuridiche diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento (Corte cass. V sez. 29.10.2008 n. 25909; id. V sez. 13.11.2008 n. 27065).
L’oggetto del giudizio di appello ha dunque estensione variabile che se in astratto, in ogni caso, non può eccedere dai limiti del “thema decidendum” come definitivamente fissato dalle parti in primo grado, in concreto rimane tuttavia indefettibilmente circoscritto -in virtù dell’effetto devolutivo della impugnazione- a quelle sole questioni dedotte con i motivi specifici di gravame proposti con l’atto di appello (principale ed incidentale) nonché alle sole questione ed eccezioni riproposte, che possono, peraltro, investire tutti o solo alcuni capi della decisione di primo grado: risulta evidente, pertanto, che la verifica della conformità della decisione del Giudice di appello all’obbligo di ”’’corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato” prescritto dall’art. 112 c.p.c., deve essere compiuta in relazione, non alle domande ed eccezioni formulate dalle parti nel giudizio di primo grado (che bene potrebbero essere state rinunciate o non riproposte), ma alle specifiche questioni riproposte ovvero sottoposte all’esame del Giudice del gravame con i motivi di impugnazione.
Tanto premesso il vizio di extrapetizione denunciato dalla Agenzia delle Entrate non sussiste nel caso di specie, in quanto il Giudice di appello con i motivi di gravame proposti dall’Ufficio finanziario era stato investito della questione della illiceità della condotta, in relazione alla sussunzione della condotta materiale accertata (concernente la omessa annotazione nel registro dei corrispettivi “entro il giorno non festivo successivo a quello in cui le operazioni sono state effettuate” -come previsto dall’art. 24co2 Dpr n. 633/72- e la tempestiva annotazione di tali operazioni effettuata, invece, entro il termine di presentazione della dichiarazione IVA mensile prevista dall’art. 27 co l Dpr n. 633/72, norma ritenuta -erroneamente- applicabile nel caso di specie dal Giudice di prime cure).
Ne segue che al Giudice del gravame era richiesto di procedere alla esatta individuazione della norma descrittiva della fattispecie astratta nella quale doveva essere correttamente sussunta la fattispecie concreta (così come accertata ed in assenza di contestazione), e dunque il Giudice territoriale bene era legittimato a qualificare ex officio la condotta materiale della società contribuente indipendentemente dalle prospettazioni giuridiche delle parti alle quali il Giudice di merito non è affatto vincolato.
Occorre ribadire, infatti, i principi espressi da questa Corte secondo cui “il vizio di extrapetizione ricorre soltanto quando il giudice abbia pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo ad una di esse un bene della vita non richiesto (o diverso da quello domandato), mentre spetta al giudice di merito il compito di definire e qualificare, entro detti limiti, la domanda proposta dalla parte. Tale compito appartiene non soltanto al giudice di primo grado, ma anche a quello d’appello, che resta a sua volta libero di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica difforme da quella data in prime cure con riferimento all’individuazione della “causa petendi”, dovendosi riconoscere a detto giudice il potere – dovere di definire l’esatta natura del rapporto dedotto in giudizio onde precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste della parti e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell’ambito delle questioni sottoposte al suo esame” (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 12471 del 12/10/2001; id. Sez. 2, Sentenza n. 12167 del 12/08/2002; id. Sez, 3, Sentenza n. 15724 del 18/07/2011).
Pertanto non incorre nel vizio di extrapetizione il giudice d’appello il quale ha dato alla fattispecie controversa una qualificazione giuridica diversa da quella adottata dal giudice di primo grado, anche se non era mai stata prima prospettata dalla parti.
Né tale diversa qualificazione ha violato nella specie “// limite rappresentato dall’impossibilità di immutare l’effetto giuridico che la parte ha inteso conseguire” deducendo un certo fatto (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 21484 del 12/10/2007; id Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 28/06/2010). E’ appena il caso di rilevare infatti che il “tantum devolutum” investiva proprio la statuizione della sentenza di primo grado che aveva annullato l’atto irrogativo della sanzione (sul presupposto che il termine di registrazione era stato osservato) nonché, come sopra indicato, la questione della diversa norma che avrebbe dovuto essere applicata, e dunque la questione della illiceità e sanzionabilità della predetta condotta: il Giudice territoriale ritenendo non punibile la violazione, in quanto meramente formale ai sensi dell’art. 10 co 3 legge n. 212/2000, non è andato pertanto oltre i limiti indicati dall’oggetto del decidere, definito tra i due poli della illiceità sanzionabile (secondo l’Ufficio appellante) e della condotta lecita non punibile (secondo la sentenza della CTP), e la sentenza non può ritenersi affetta dal vizio di extrapetizione.
Il secondo motivo (violazione dell’art. 10 co3 legge n. 212/2000) è infondato.
Osserva il Collegio che la individuazione del carattere meramente formale delle violazioni tributarie, secondo l’enunciato normativo di cui all’art. 10 co 3 dello Statuto del contribuente, non può essere desunto esclusivamente dalla irrogazione di sanzioni pecuniarie senza seguito di emissione di atti impositivi. Tale operazione non risponde a corretti criteri di ermeneutica, rimanendo estraneo alla “ratio legis”, tanto delle previgenti norme sanzionatorie del Dpr n. 633/72, quanto delle norme che disciplinano il sistema dell’illecito tributario, introdotte con la riforma del 1997, il criterio di definizione della illiceità della condotta in relazione esclusivamente all’evento di danno (evasione d’imposta).
Le norme sanzionatorie intendono, infatti, reprimere anche le condotte cd. prodromiche alla evasione d’imposta, come emerge indiscutibilmente dalle relazione di accompagnamento del decreti legislativi nonché dalle singole fattispecie sanzionate tra cui, con specifico riferimento al caso concreto, tutte le condotte che si risolvono nel ritardato adempimento di oneri di tipo formale. Inequivoco riscontro è fornito dalla disposizione dell’art. 6 comma 5 bis del Dlgs n. 472/1997 che tra le cause di non punibilità include “le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul versamento del tributo” : la causa di non punibilità opera, pertanto, soltanto nel ricorso cumulativo di entrambe le condizioni indicate e, quanto alla verifica delle stesse viene richiesta una valutazione di tipo oggettivo da condursi “ex ante” in relazione quindi alla obiettiva potenziale idoneità della condotta violativa a determinare un ostacolo all’esercizio delle rilevazioni contabili ed al controllo dei documenti e registri da parte degli Uffici finanziari ovvero a determinare sottrazioni di imponibile od anche ritardi negli adempimenti relativi al versamento delle imposte. E’ appena il caso di evidenziare, infatti, come se le predette condizioni dovessero essere verificate, anziché con valutazione “ex ante”, solo con valutazione ex post (“secundum eventum”), l’intero sistema dell’illecito tributario risulterebbe privo di efficacia deterrente, dovendo in tal caso attribuirsi tautologicamente la qualifica di “violazione formale” a qualsiasi illecito che venga ad essere comunque scoperto dagli Uffici nell’esercizio della attività di controllo consentendo quindi di accertare l’effettivo imponibile o la imposta dovuta.
La disposizione del comma 5 bis dell’art. 6 Dlgs n. 472/1997 è stata introdotta dall’art. 7 del Decreto legislativo del 26 gennaio 2001 n. 32 (recante “Disposizioni correttive di leggi tributarie vigenti, a norma dell’articolo 16 della legge 27 luglio 2000, n. 212, concernente lo statuto dei diritti del contribuente”) ed ha quindi contenuto integrativo e specificativo della disposizione dell’art. 10 co3 della legge n. 212/2000, dovendo in conseguenza escludersi un diverso ambito oggettivo di applicazione delle due disposizioni che debbono invece ritenersi perfettamente sovrapponibili.
Tanto premesso la valutazione del carattere meramente formale della violazione deve essere compiuto non via meramente astratta ma con riguardo alla specifica fattispecie concreta (come affermato da questa Corte nel precedente, dal quale il Collegio non ha motivo di dissentire, di cui alla Sentenza V sez. n. 23564 del 20/12/2012).
Orbene nella specie l’elemento della correlazione tra il ritardo nella annotazione nel registro corrispettivi ed il danno patrimoniale arrecato all’Erario neppure risulta allegato dalla Amministrazione finanziaria; quanto alla idoneità della ritardata iscrizione delle operazioni imponibili nel registro corrispettivi ad ostacolare l’attività di controllo della Amministrazione finanziaria, la mera temporanea condotta omissiva non è sufficiente ex se in assenza di ulteriori elementi circostanziali (quali ad esempio, la omessa tenuta e conservazione di altri documenti contabili dai quali risultano agevolmente identificabili le operazioni imponibili effettuate, o ancora il compimento di atti inequivocamente diretti ad occultare tali documenti al fine di dissimulare una apparente coerenza tra i dati contabili non rispondenti alla realtà economica della impresa) ad integrare un effettivo impedimento all’esercizio dell’attività da parte dei verificatori.
In conseguenza deve ritenersi esente dal vizio di legittimità denunciato la sentenza della CTR ligure nella parte in cui ha accertato che la condotta tenuta dalla società era violativa del termine stabilito dall’art. 24 Dpr n. 633/1972, ma che -nella implicita considerazione della assenza di altri elementi indiziari significativi, tale condotta integrava una violazione meramente formale e come tale non punibile.
Il conclusione il ricorso deve essere rigettato e l’Agenzia delle Entrate condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la Agenzia delle Entrate alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in € 2.500,00 per compensi oltre gli accessori di legge.
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