Corte di Cassazione sentenza n. 18918 del 5 novembre 2012
RAPPORTO DI LAVORO – CONTRATTO A TERMINE – APPOSIZIONE DEL TERMINE – RAGIONI DI CARATTERE TECNICO, PRODUTTIVO, ORGANIZZATIVO O SOSTITUTIVO
massima
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L’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e l’utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 27 febbraio 2007 la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 23 settembre 2004, ha dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro intercorsi tra la (OMISSIS) s.p.a. e (OMISSIS) e (OMISSIS) con decorrenza, rispettivamente, 24 giugno 1998 e 31 maggio 1999 e la conseguente sussistenza di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con dette decorrenze, ma nulla ha riconosciuto a titolo di risarcimento del danno. La Corte territoriale ha considerato che i contratti in questione sono stati stipulati dopo lo spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione collettiva che autorizzava le ipotesi ulteriori di apposizione del termine ai contratti con le (OMISSIS) ai sensi della Legge n. 56 del 1987, art. 23. In ordine al risarcimento del danno la Corte ha considerato che, alla data della messa in mora, era trascorso un periodo di tempo superiore al triennio ritenuto parametro di riferimento congruo per determinare in concreto il danno risarcibile.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione (OMISSIS) articolato su tre motivi.
Resistono con controricorso la (OMISSIS) e la (OMISSIS) che svolgono anche distinti ricorsi incidentali.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi vanno riuniti essendo proposti avverso la medesima sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale si deduce omessa motivazione in relazione all’art. 1372, comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427, 1431 c.c. e art. 100 c.p.c. con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, deducendosi che la corte territoriale non avrebbe compiuto alcuna valutazione in ordine all’eccepita risoluzione consensuale del contratto.
Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della Legge n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 CCNL 26/11/1994, nonché degli accordi sindacali del 25/9/97, del 16/1/98, del 27/4/98, del 2/7/98, del 24/5/99 e del 18/1/2001 in connessione con gli artt. 1362 e segg. c.c. In particolare si lamenta che la corte territoriale ha ritenuto di individuare nella data del 30/4/98 il termine ultimo di validità ed efficacia temporale dell’accordo integrativo 25/9/97.
Con il terzo motivo si assume omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento alla fonte di individuazione della volontà delle parti di fissare alla data ultima del 30/4/98 il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 25/9/97′.
Con il ricorso incidentale la (OMISSIS) lamentano violazione degli artt. 112, 114 e 432 c.p.c. e artt. 1217, 1218 e 1227 c.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento alla mancata liquidazione del danno per effetto del superamento del triennio alla cessazione del rapporto.
Con il proprio ricorso incidentale condizionato la (OMISSIS), con il primo motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., degli artt. 2099, 1223, 1225, 1227 e 2948 c.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 113 c.p.c. circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c. con riferimento al mancato riconoscimento del risarcimento del danno.
Con il secondo motivo la stessa (OMISSIS) deduce violazione di legge ed omessa motivazione in relazione alla Legge n. 230 del 1962, art. 3 e dell’art. 2697 c.c. circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla mancata considerazione, nella motivazione della sentenza impugnata, della totale assenza di allegazione delle specifiche condizioni di eccezionalità che avrebbero giustificato il contratto a termine.
Con riferimento al ricorso principale proposto nei confronti di (OMISSIS) ed al ricorso incidentale proposto dalla stessa va osservato che la conciliazione della lite in sede sindacale intervenuta tra le parti in data 18 novembre 2008 nelle more del giudizio di Cassazione e depositata in atti, comporta la cessazione della materia del contendere tra le stesse parti, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte, le sentenze n. 13969/2004, 1048, 368/2000, 4918/98 delle sezioni unite, n. 14194, 14775, 6395/2004, 16987, 12844, 8478, 8200, 3122/2003, 6395, 6403, 10478, 14194, 14775, 22972/2004, 20860/2005 di sezioni semplici) si verifica tutte le volte in cui venga meno, con la materia controversa, qualsiasi posizione di contrasto tra le parti, ma non risulti possibile una declaratoria di rinuncia agli atti o alla pretesa sostanziale.
Come concordato fra le parti con il medesimo accordo, va disposta la compensazione fra tali parti delle spese di giudizio.
Riguardo al ricorso proposto nei confronti della (OMISSIS) il primo motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata, sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative, una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554, Cass. 11 dicembre 2001 n. 15621, nonché da ultimo Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevandosi, inoltre che, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro11 (v. Cass. 2 dicembre 2002 n, 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1° febbraio 2010 n. 2279). Orbene nella fattispecie la ricorrente non ha dedotto alcun elemento di fatto da cui possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro, pretendendo di dedurre o presumere dal solo trascorrere del tempo la volontà risolutiva in questione. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale possono essere esaminati congiuntamente riguardando entrambi il termine di efficacia temporale dell’accordo integrativo che ha autorizzato il ricorso al contratto a termine. Osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali ai sensi dell’art. 8 del CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997, in data successiva al 30 aprile 1998 (e anteriormente alla operatività del CCNL del 2001), in epoca cioè in cui “era venuta meno la contrattazione autorizzatoria”. Tale considerazione, in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 ed al Decreto Legislativo n. 368 del 2001), è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo. Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, Legge n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla Legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063, Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378). In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866). In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998. Ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della Legge 18 aprile 1962 n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; Cass. 28 gennaio 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit). Tanto basta per respingere i motivi di ricorso in esame relativi tutti al limite temporale a cui sono subordinate le assunzioni a termini delle (OMISSIS), così confermandosi la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo.
Il primo motivo del ricorso incidentale della (OMISSIS) è fondato.
Osserva il Collegio che sul risarcimento del danno in questione è intervenuto, lo ius superveniens, rappresentato dalla Legge 4 novembre 2010 n, 183, art. 32, commi 5, 6 e art. 7, i quali dispongono che: ” Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella Legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 8. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 del codice di procedura civile.” Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (sul punto v. già Cass. Ord. 28 gennaio 2011 n. 2112), come è stato affermato da questa Corte (v. Cass. 31 gennaio 2012 n. 1409. Cass. 31 gennaio 2012 n. 1411), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente”. La norma, che “non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato”, in base ad una “interpretazione costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che “il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”, con la conseguenza che a partire da tale sentenza “è da ritenere che -il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva” (altrimenti risultando “completamente svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato”). Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte Costituzionale, “il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell’aliunde perceptum. Sicché l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per il avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione”. In definitiva la norma in oggetto, come affermato dal Giudice delle leggi, risulta “adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”. Infatti “al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità nè dell’offerta della prestazione, nè di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die”, Peraltro la Corte Costituzionale (richiamando le proprie pronunce – sent. n. 298/2009, 86/2008, 282/2007, 354/2006, ord. n. 102/2011, 109/2010, e 125/208) ha escluso “che inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l’eccessiva urata dei processi in alcuni uffici giudiziali)” possano rilevare ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Del resto circa le “presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine” la Corte Costituzionale ha rilevato non solo che “il processo è neutro rispetto alla tutela offerta”, ma anche che “l’ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla Legge 24 marzo 2001 n. 89”. Inoltre, la stessa Corte ha evidenziato che “la garanzia economica in questione non è ne rigida, ne uniforme” e, “anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla Legge n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa immediatamente misurabili attraverso il numero dei dipendenti”. A tale interpretazione adeguatrice, indicata (con sentenza interpretativa di rigetto) dal Giudice delle leggi come conforme a Costituzione, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e art. 117, comma 1 della stessa, il Collegio, condividendo le argomentazioni sulla ratto della norma e sullo sviluppo dell’operazione ermeneutica, intende aderire, non ravvisando nel contempo una diversa interpretazione che sia parimenti non solo rispettosa della Costituzione ma anche del tutto conforme alla lettera e alla ratio della norma stessa (cfr. Cass. 9 gennaio 2004 n. 166, Cass. 26 gennaio 2010 n. 1581). Cosi’ intesa, infatti, in sostanza, come una sorta di penale stabilita dalla legge, in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro a carico del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall’esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore (e da ogni onere probatorio al riguardo) sia dalla messa in mora del datore di lavoro, con carattere “forfetizzato”, “onnicomprensivo” di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto, la indennità in esame appare non solo conforme alla Costituzione (ai sensi di C. Cost. 303/2011), bensì anche pienamente rispondente alla lettera e allo spirito della legge. Orbene tale normativa sopravvenuta va applicata nel caso in esame. In via di principio, infatti, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura de controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070).
Il secondo motivo del ricorso incidentale della stessa (OMISSIS) è invece inammissibile per evidente difetto di interesse della ricorrente stessa ad impugnare una motivazione su un punto della sentenza a lei favorevole avendo accolto la domanda.
La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla medesima Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che si adeguerà al principio di diritto in questione dando applicazione alla suddetta normativa intervenuta ai fini della determinazione del risarcimento del danno che compete alla (OMISSIS), e provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio nei confronti della stessa (OMISSIS).
P.Q.M.
La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi;
Dichiara inammissibile il ricorso principale nei confronti di (OMISSIS), ed il ricorso incidentale di costei compensando fra le dette parti le spese del presente giudizio;
Rigetta il ricorso principale nei confronti di (OMISSIS);
Accoglie il primo motivo del ricorso incidentale di quest’ultima e dichiara inammissibile il secondo;
Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese del presente giudizio nei confronti della (OMISSIS), alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.
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