Consiglio di Stato Sentenza n. 5914 del 9 novembre 2011
IMPIEGO PUBBLICO – PROCEDIMENTO E PUNIZIONI DISCIPLINARI – SANZIONE DISCIPLINARE DELLA RIDUZIONE DELLO STIPENDIO
massima
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In tema di sanzioni disciplinari a carico di pubblici dipendenti, ai fini del computo dei termini di cui all’art. 120, D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, il termine di novanta giorni da esso previsto va calcolato con riferimento al momento di adozione degli atti del procedimento sanzionatorio e non dal momento della notifica, la quale attiene al momento dell’efficacia e non a quello del perfezionamento del provvedimento amministrativo al quale, invece, deve intendersi riferito il disposto del suddetto art. 120.
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FATTO e DIRITTO
Con due successivi atti di appello (nn. 4045/06, notificato il 27.4.2006 e 7918/06, notificato il 14.7.2006), sono state impugnate le sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Roma, sez. I ter, nn. 5581/05 in data 11.7.2005 e 6023/05 del 27.7.2005, con le quali si respingevano i ricorsi proposti dalla dott.ssa R.M. – vice Prefetto aggiunto presso l’U.T.G. di Terni ed attuale appellante – per ottenere l’annullamento, rispettivamente, della sanzione disciplinare di riduzione dello stipendio (1/10 per la durata di un mese), inflitta con provvedimento in data 23.5.2001 e del presupposto rapporto informativo, redatto nei confronti della medesima per l’anno 2000 (con finale attribuzione del giudizio di “buono”).
La sanzione disciplinare in questione risultava adottata per “grave negligenza in servizio” e “inosservanza dei doveri d’ufficio”, con riferimento alla quantità di lavoro svolto ed a “culpa in vigilando”, circa l’adempimento di ordini impartiti.
Nella sentenza appellata l’intervento sanzionatorio era ritenuto tempestivo (con riferimento alla data di adozione dell’atto e non alla relativa notifica), nonché pienamente giustificato, in relazione allo scarso numero di pratiche espletate dalla funzionaria in questione ed alla omessa vigilanza sul lavoro del personale alla stessa subordinato.
In sede di appello, avverso la predetta sentenza venivano prospettate censure di rito e di merito: nella prima prospettiva, per intervenuta perenzione del procedimento disciplinare, ex art. 120 del D.P.R. n. 3/1957, nella seconda, in quanto le “motivazioni del Giudice di prime cure” sarebbero “del tutto generiche, confuse e non aderenti adeguatamente all’oggetto dei fatti trattati nel processo”; quanto sopra tenuto conto, in particolare, dell’avvenuta restrizione dell’indagine disciplinare a nove pratiche, con istruttoria conclusa e decisione assunta, ma non definita con formale provvedimento con conseguente perenzione (mentre per altre 12 pratiche, originariamente ritenute analoghe, i termini per l’emanazione del provvedimento erano risultati non ancora scaduti, per proroga intervenuta ex lege).
Anche per le nove pratiche sopra indicate, tuttavia, la Corte dei Conti, con sentenza n. 598/R/2004 del 16.12.2004, assolveva la citata dottoressa M. da ogni addebito contabile, non essendo state rinvenute disposizioni, in ordine all’assegnazione degli affari da trattare ai singoli funzionari, nonché al numero dei collaboratori disponibili per ciascuno di questi ultimi. La medesima dottoressa M., inoltre, sarebbe stata in ferie o in malattia, ovvero in congedo straordinario per campagna elettorale, nel periodo più vicino alla scadenza del termine per diverse pratiche.
L’Amministrazione appellata, costituitasi in giudizio, resisteva all’accoglimento del gravame, sottolineando come il computo del termine, di cui all’art. 120 D.P.R. n. 3/1957, dovesse riferirsi alla data di adozione del provvedimento e non della relativa notifica, mentre – sotto il profilo del merito della contestazione – le questioni sottoposte all’attenzione della Commissione di disciplina riguardavano la complessiva scarsità del lavoro svolto (meno di due pratiche al giorno in media), con conseguente dimostrazione di scarsa diligenza della funzionaria, che in tale situazione non aveva assicurato la corretta definizione di un congruo numero di pratiche nei tempi prescritti. In tale ottica, non avrebbero rilevanza le conclusioni della Corte dei Conti, riferibili ai diversi parametri della responsabilità amministrativa/contabile e non prive, comunque, di un riferimento alla negligenza della funzionaria, per almeno 4 delle 9 pratiche su cui il giudizio era incentrato (pratiche, per le quali la dott.ssa M. aveva apposto sigle e firme sugli atti istruttori relativi).
Il successivo atto di appello (n. 7918/06) riguardava invece, come già in precedenza ricordato, il rapporto informativo redatto per l’anno 2000 dal Consiglio di Amministrazione del Ministero dell’Interno, con finale deliberazione del 25.10.2001, in cui si assegnava all’attuale appellante il giudizio complessivo di “buono”.
Le censure prospettate avverso tale giudizio erano ritenute infondate dal TAR del Lazio, che nell’appellata sentenza n. 6023/05 rilevava l’insussistenza di contraddittorietà con precedenti valutazioni, travisamento dei fatti e manifesta illogicità, essendo in effetti emerso il mancato rispetto dei doveri, che avrebbero dovuto caratterizzare l’operato di un funzionario prefettizio, quanto meno nell’anno di riferimento (senza che le valutazioni più favorevoli, riferite ad anni precedenti, potessero ritenersi indice di contraddittorietà).
In sede di appello, la dott.ssa M. reiterava le proprie contestazioni, ribadendo il “carattere vessatorio e volutamente punitivo” del rapporto in questione, riferito alla stessa come consigliere di prefettura, all’epoca sottoposta alla direzione e alla vigilanza dei diretti superiori, ai quali soltanto sarebbe stato addebitabile l’omessa predisposizione di regole per assegnare le singole pratiche ai funzionari, con conseguente impossibilità di individuare un responsabile della distribuzione, un responsabile per il completamento delle singole pratiche e l’individuazione dei relativi collaboratori. I giudizi non ottimali espressi, inoltre, sarebbero stati in contrasto con la firma regolarmente apposta dai superiori agli atti elaborati dall’interessata e all’esito positivo degli stessi. Quanto alle circostanze, riferite a rapporti intrattenuti fuori dall’ufficio e ritenuti non consoni al decoro di un funzionario di prefettura, si sarebbe trattato di meri pettegolezzi, già oggetto di “una lunga serie di querele, denunce, ricorsi gerarchici e giurisdizionali”, promossi dalla ricorrente a tutela della sua persona. Anche a tale riguardo l’Amministrazione appellata, costituitasi in giudizio, ribadiva l’autonomia dei diversi rapporti informativi, con precisazione della riferibilità di quello contestato a circostanze, dettagliatamente esposte in una relazione del Prefetto di Terni, tenuto conto della riferibilità del rapporto di cui trattasi alla personalità complessiva del funzionario, nonché di aspetti relazionali esterni all’ambiente lavorativo in senso stretto, quando tali aspetti assumessero carattere di notorietà, gettando discredito sul prestigio dell’Istituzione cui l’impiegato appartiene.
Premesso quanto sopra il Collegio ritiene opportuno disporre, in via preliminare, la riunione degli appelli nn. 4045/06 e 7918/06, in quanto legati da connessione soggettiva ed oggettiva, per questioni inerenti al medesimo rapporto di impiego, per un arco di tempo in parte coincidente.
In rapporto al primo di tali appelli – riferito alla comminatoria della sanzione disciplinare in precedenza specificata – deve essere esaminata in via preliminare la censura di “perenzione del procedimento…ex art. 120 del D.P.R. n. 3/1957” (Testo unico delle norme sul pubblico impiego), per avvenuta notifica dell’atto impugnato a mani proprie dell’interessata in data 11.9.2001 (dopo un primo tentativo di comunicazione tramite raccomandata, da considerare “tamquam non esset” poiché non effettuato nelle forme prescritte per gli atti di natura giudiziaria o amministrativa) e quindi – secondo la prospettazione difensiva della medesima – con avvenuto decorso del termine di 90 giorni rispetto alla data di emanazione del provvedimento sanzionatorio (23.5.2005).
Detta prospettazione risulta infondata, tenuto conto della ratio dell’istituto di cui al citato art. 120 del T.U.: istituto finalizzato a bilanciare l’interesse dell’Amministrazione alla repressione di condotte, lesive del proprio ordinamento interno, in rapporto all’interesse del dipendente ad una rapida definizione della propria posizione, in termini positivi o, se negativi, eventualmente suscettibili di tutela in sede giurisdizionale. Solo in tale ottica l’inerzia dell’organo titolare del potere disciplinare, ove protratta per oltre 90 giorni, è ritenuta dal legislatore indice di scarso interesse a perseguire la condotta disciplinarmente rilevante del dipendente stesso, con conseguente estinzione del procedimento e divieto di rinnovazione del medesimo. Coerentemente all’indicata ratio normativa, qualsiasi atto – anche interno – che si inserisca coerentemente nella sequenza procedurale prevista deve ritenersi idoneo a interrompere il termine in questione, escludendo che siano addebitabili all’Amministrazione tempi colposamente dilatati, rispetto a quelli prescritti (cfr. in tal senso, fra le tante: Cons. St., sez. IV, 30.3.1987, n. 193, 24.7.1989, n. 497 e 30.5.1994, n. 466; Cons. St., sez. VI, 4.11.1996, n. 1442; Cons. St., sez. V, 17.12.1990, n. 877).
Per quanto specificamente interessa in questa sede, inoltre, non è più individuabile alcuna inerzia dopo l’emanazione dell’atto conclusivo della procedura, indipendentemente dalla relativa notifica, inerendo quest’ultima solo all’efficacia e non anche al perfezionamento dell’atto stesso, quale momento cui deve intendersi riferito il disposto della norma in questione, senza possibile configurazione di inerzia dopo che l’Amministrazione si sia formalmente pronunciata (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. VI, 9.4.2009, n. 2190; Cons. St., sez. IV, 10.8.2007, n. 4392).
Quanto agli altri rilievi di merito, l’appellante sottolinea come le contestazioni originarie, riferite a numerose pratiche arretrate, si fossero col tempo ridimensionate, fino a riguardare solo nove ordinanze per ingiunzione di pagamento nel settore della depenalizzazione, da considerare perente in caso di omessa emanazione nei termini prescritti. Anche per tali pratiche, tuttavia, la responsabilità della dott.ssa M. non era stata conclusivamente riconosciuta dalla Corte dei Conti – sezione giurisdizionale dell’Umbria, in mancanza di precise disposizioni sull’assegnazione delle singole pratiche ai funzionari e sul relativo completamento, anche tramite personale ausiliario.
Le argomentazioni difensive, riferite alle circostanze sopra sintetizzate, non appaiono tuttavia condivisibili, tenuto conto dei diversi presupposti normativi del giudizio disciplinare, nella fattispecie concluso a norma dell’art. 80, comma 3 del D.P.R. 10.1.1957, n. 3, rispetto a quello di responsabilità, affidato alla Corte dei Conti dall’art. 1, comma 1, della legge 14.1.1994, n. 20, come successivamente modificata ed integrata: per quest’ultimo giudizio, infatti, entrano in discussione questioni di danno erariale, per le quali il pubblico dipendente è chiamato a rispondere solo per omissioni o fatti commessi con dolo o colpa grave, mentre sul piano disciplinare rilevano, per quanto qui interessa, anche profili di grave negligenza, o irregolarità nell’ordine di trattazione degli affari, o ancora di inosservanza dei doveri di ufficio, il cui apprezzamento è rimesso alla discrezionale valutazione dell’organo amministrativo competente e che, nel caso di specie, trovano ampio riscontro argomentativo nelle conclusioni tratte il 4.5.2001 dalla Commissione di Disciplina del personale civile non contrattualizzato del Ministero dell’Interno.
Come risulta dal verbale della seduta di tale Commissione alla predetta data, infatti, il comportamento della appellante era stato ritenuto contrario ai doveri d’ufficio e gravemente negligente, in considerazione del numero complessivo di pratiche espletato ed alla mancata vigilanza sull’emissione di un certo numero di ordinanze-ingiunzione in tempo utile per la relativa efficacia, ai sensi dell’art. 204 del D.Lgs. 30.4.1992, n. 285 (con presunto danno erariale stimato pari, in un primo tempo, a circa 18 milioni di lire, ma successivamente ridimensionato, essendo stato prorogato il termine per l’emissione delle ordinanze di cui trattasi con D.L. n. 391/1999).
Il medesimo verbale appare coerentemente riferito alla vicenda sottoposta ad esame nella sua interezza, dalla concreta e non contraddittoria possibilità di aprire il procedimento disciplinare, con atto di contestazione degli addebiti, dopo un originario diverso avviso espresso dalla Direzione Generale per il personale (quale decisione interinale, non assimilabile ad archiviazione di un procedimento non ancora avviato e modificabile, come avvenuto, in tempi brevi) alla verifica di “puntuale e diligente trattazione dei fascicoli”, secondo la minuziosa attività di riscontro compiuta dal funzionario istruttore, nominato nell’ambito della procedura disciplinare di cui trattasi.
In esito a tale attività, veniva osservato come dovesse ritenersi confermato l’omesso, necessario controllo sulla conclusione dell’iter delle singole pratiche, che la dott.ssa M. riteneva concluse con l’annotazione della decisione assunta (20 richieste di emissione di ordinanza-ingiunzione e di una archiviazione), senza alcuna successiva attività (“scadenzario, evidenza d’archivio, accertamenti periodici sul lavoro dei collaboratori ecc …”) atta ad assicurare l’effettiva conclusione dei procedimenti nei tempi dovuti.
Tenuto conto del grado rivestito dall’appellante – e della discrezionalità del giudizio espresso dalla Commissione – il Collegio non ravvisa nel giudizio stesso profili di incongruità o illogicità tali, da inficiarne la validità: appare infatti ragionevole ritenere che, in considerazione del carico di lavoro assegnato (nella non contestata entità media di due pratiche al giorno), la dott.ssa M. avrebbe potuto porre in essere comportamenti ben più efficaci, per assicurare che le procedure avviate andassero tutte concretamente a buon fine, essendo propria della carriera direttiva una collaborazione – per il perseguimento dei risultati prefissi al settore di assegnazione – non priva di iniziativa autonoma e di incidenza attiva sui fattori organizzativi interni. L’assenza di un più ampio coordinamento, nonché di documentabili responsabilità per l’espletamento di ogni singolo affare, fino alla concreta emissione dell’ordinanza, potevano pertanto escludere la colpa grave ai fini della declaratoria di responsabilità di competenza della Corte dei Conti, ma non anche i profili di responsabilità disciplinare, che il Collegio ritiene congruamente rilevati.
A conclusioni non dissimili il Collegio stesso perviene, inoltre, per l’appello n. 7918/06, riferito al rapporto informativo , redatto dal Consiglio di Amministrazione del Ministero dell’Interno, con attribuzione all’appellante della qualifica di “buono”, qualifica contestata per travisamento dei fatti e manifesta illogicità, nonché per contraddittorietà con le precedenti valutazioni, tutte più favorevoli per l’interessata.
Anche per l’atto in questione vengono svolte considerazioni, riferite a carenze organizzative interne, che avrebbero reso difficili precise attribuzioni di responsabilità ai singoli funzionari, mentre altre questioni sarebbero state riferibili ad un quadro conflittuale interno, di cui la medesima dott.ssa M. sarebbe stata vittima incolpevole.
In rapporto a quanto sopra – ribadito il carattere ampiamente discrezionale (e non sindacabile nel merito) del giudizio di cui trattasi – il Collegio non può invece che ritenere convincenti le argomentazioni dell’Amministrazione resistente, che ha sottolineato il carattere motivato (e non contraddittorio) della valutazione contestata rispetto a quella degli anni precedenti, anche con riferimento alla personalità del funzionario ed alle relazioni dallo stesso intrattenute nell’ambiente di lavoro, quali fattori rilevanti in rapporto alla delicatezza delle funzioni demandate alla carriera prefettizia. Non risultano smentite in fatto, d’altra parte, circostanze emergenti dagli atti, per quanto riguarda modalità non ottimali di espletamento delle funzioni e situazioni di conflitto interno, riconducibili a reiterate iniziative dell’attuale appellante.
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che entrambi gli appelli debbano essere respinti; le spese giudiziali del secondo grado, da porre a carico della parte soccombente, vengono liquidate nella misura complessiva di €. 1.500,00 (euro millecinquecento/00)
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, respinge gli appelli nn. 7918/06 e 4045/06, previa riunione dei medesimi; condanna l’appellante al pagamento delle spese giudiziali del secondo grado, nella misura complessiva di €. 1.500,00 (euro millecinquecento/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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