Corte di Cassazione sentenza n. 772 del 14 gennaio 2011
IMPOSTE SUI REDDITI – ESERCIZIO D’IMPRESA INDIVIDUALE – CESSAZIONE – BENI STRUMENTALI – PATRIMONIO PERSONALE – PLUSVALENZA – DETERMINAZIONE – REGISTRO DEGLI INVENTARI – REGISTRO DEI BENI AMMORTIZZABILI – INDICAZIONE – NECESSITA’ – ESCLUSIONE
massima
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I beni strumentali direttamente utilizzati dall’imprenditore individuale nell’esercizio dell’attività devono ritenersi inerenti l’impresa a prescindere dall’eventuale iscrizione dei medesimi nei registri obbligatori.
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FATTO E DIRITTO
1. E.V. (già commerciante al dettaglio di alimentari) propone ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale – in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpef e Ilor relative al 1997 con riguardo alla ripresa a tassazione della plusvalenza derivarne dalla destinazione alla sfera personale dell’imprenditore di beni strumentali (un negozio e annessi depositi) rivenienti dalla cessazione dell’attività aziendale – la C.T.R. Lombardia, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava il ricorso introduttivo del contribuente, confermando l’avviso opposto.
In particolare, i giudici della C.T.R. , premesso che gli immobili de quibus erano stati pacificamente adibiti all’azienda del contribuente fino alla cessazione dell’attività, rilevavano: che l’eventuale adibizione di tali immobili – peraltro solo dichiarata – anche ad uso personale non sarebbe tale da compromettere le caratteristiche dei medesimi immobili, strumentali per natura – attesa la peculiare struttura dei medesimi – e per destinazione pluriennale; che il mancate inserimento dei beni suddetti nel libro degli inventari non incide sull’appartenenza di diritto degli stessi alla sfera dell’impresa, trattandosi di beni acquistati prima del 1° gennaio 1992, rispetto ai quali l’iscrizione nel libro degli inventari era un obbligo, non una facoltà, salvo l’esercizio dell’opzione prevista dalla legge per l’estromissione degli immobili dal patrimonio dell’impresa, opzione nella specie non esercitata.
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente sostiene che nelle controdeduzioni era stata eccepita l’inammissibilità dell’appello per mancanza di motivi specifici, in quanto nell’atto d’appello erano state riproposte le motivazioni già esposte nell’atto di accertamento e nel corso del giudizio di primo grado, ma i giudici d’appello avevano completamente omesso di pronunciarsi sull’eccezione ed avevano deciso sull’appello senza spiegare le ragioni per cui lo stesso era stato ritenuto implicitamente ammissibile malgrado quanto dedotto dall’appellato.
La censura è in parte infondata e in parte inammissibile.
Deve innanzitutto escludersi il vizio di omessa pronuncia, posto che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non ricorre tale vizio, nonostante la mancanza di espressa statuizione sul punto, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo ed inoltre che ad integrare gli estremi dell’omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, dovendo pertanto escludersi il vizio de quo quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v. Cass. n. 10636/2007); la Corte ha in particolare ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame (v. tra le altre Cass. n. 5351/2007).
Quanto alla dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 53 D.Lgs., giova innanzitutto rilevare che la censura difetta di autosufficienza, posto che non viene riportato il testo dell’appello di cui si discute (per una applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione anche alla denuncia di errores in procedendo, v. cass. n. 20405/2006).
È inoltre da rilevare che la circostanza della mera riproposizione delle ragioni esposte in primo grado non esclude la specificità dei motivi di appello, atteso che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il requisito della specificità dei motivi d’appello implica la necessità che la esposizione dell’appellante consenta di individuare le statuizioni investite del gravame e le critiche ad esse indirizzate, con la conseguenza che può risultare sufficiente a tal fine anche la riproposizione delle difese svolte in primo grado (v. tra le altre Cass. n. 11781/2005).
Col secondo motivo, deducendo “Illegittimità della sentenza impugnata per illogicità/contraddittorietà della motivazione nonchè per (conseguente) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 40 e 77, L. n. 413 del 1991, art. 58 e dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Illegittimità dell’atto impositivo essendo la pretesa fiscale oggettivamente infondata”, il ricorrente sostiene che gli immobili de quibus, non essendo stati indicati nel registro dei beni ammortizzabili, non erano relativi all’impresa e quindi non dovevano essere estromessi dall’azienda in occasione della cessazione dell’attività, onde la decisione impugnata doveva ritenersi errata e sostenuta da una motivazione illogica e contraddittoria, in quanto assunta ignorando completamente le informazioni e i chiarimenti resi dal contribuente nonchè le disposizioni del TUIR (segnatamente gli artt. 40 e 77, dal cui combinato disposto emerge che gli immobili strumentali relativi alle imprese individuali si considerano tali solo se indicati nel libro degli inventari e nel registro dei beni ammortizzabili).
La censura è infondata e la sentenza impugnata deve essere pertanto confermata pur dovendo la relativa motivazione essere integrata nei termini che seguono. Premesso che i giudici d’appello hanno accertato in fatto che gli immobili in questione (un negozio e due magazzini) erano stati adibiti dal contribuente ad attività commerciale di vendita di alimentari al dettaglio (minimarket) fino al momento della cessazione dell’attività, altresì affermando che l’utilizzazione di tal:, immobili anche per il ricovero dell’auto del contribuente e della moto del figlio del predetto risultavano solo affermate – quindi non provate -, e che la sentenza impugnata non risulta specificamente censurata su tali punti, occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 40, comma 2 contiene due ipotesi distinte, la prima delle quali riguarda gli immobili utilizzati dal possessore esclusivamente e direttamente per l’esercizio dell’impresa (nel qual caso essi “si considerano” strumentali, ai fini delle imposte sui redditi, per presunzione di legge ed a prescindere dall’iscrizione di essi negli appositi registri aziendali), e la seconda, che si riferisce alla diversa fattispecie in cui il possessore di immobile “relativo” ad un’impresa commerciale non lo utilizza o non lo utilizza direttamente, avendolo concesso in locazione o in comodato. Solo in tale ultima ipotesi – cui accenna l’art. 40, comma 2, parte seconda – la destinazione all’esercizio dell’impresa (relatività), e quindi l’assoggettabilità a tributo, è subordinata alla sussistenza di due condizioni: che l’immobile abbia caratteristiche tali da non poter essere destinato ad uso diverso da quello aziendale senza radicali trasformazioni (art. 40, comma 2) e che – qualora si tratti di imprenditore individuale – il bene risulti iscritto negli appositi registri (art. 77, comma 1, ultima parte).
Ovviamente, il fatto che la stessa norma consideri “relativi all’impresa”, a determinate condizioni (fra cui l’iscrizione nei registri), anche altre categorie di beni dell’imprenditore, è indifferente ai fini del presente giudizio, in cui rileva non la distinzione fra immobili strumentali “per natura” e “per destinazione”, bensì, ai sensi del citato art. 40, quella fra immobili strumentali utilizzati direttamente dal possessore/imprenditore (come nel caso di specie) ed immobili strumentali non utilizzati nell’impresa o utilizzati da soggetto diverso dal possessore. Si deve pertanto, in conclusione, affermare che gli immobili relativi ad imprese commerciali individuali, aventi carattere strumentale ed utilizzati dal possessore/imprenditore esclusivamente per l’esercizio dell’impresa, sono “relativi all’impresa”, in base al combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 40, comma 2 (T.U.I.R.), e art. 77, comma 1, T.U.I.R., a prescindere dalla iscrizione nei registri di inventario o dei beni ammortizzabili. (v. Cass. n. 22587/2006).
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 2.500 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.
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