CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 gennaio 2014, n. 1565
Tributi – Imposte sui redditi – Frode carosello – Deduzione – Costi risultanti da fatture considerate inerenti ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti – Sussiste
Ritenuto in fatto
1. A seguito di processo verbale di constatazione emesso dalla Guardia di Finanza di Forlì il 29.4.02, veniva notificato, in data 25.1.05, a F.S. – nella sua qualità di titolare della ditta individuale E.T.I. – un avviso di accertamento emesso dall’Ufficio ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, per l’anno di imposta 2000. Con l’atto impositivo, l’ Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione ingenti somme corrispondenti a costi ritenuti indeducibili, ai fini delle imposte sui redditi, ed indetraibili ai fini IVA, poiché risultanti da fatture considerate inerenti ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti.
2. L’avviso di accertamento veniva, quindi, impugnati dal contribuente dinanzi alla CTP di Forlì, che accoglieva parzialmente il ricorso, limitatamente alla detrazione dell’IVA contestata dall’Ufficio. La CTR dell’Emilia Romagna, adita in sede di gravame da entrambe le parti, con sentenza n. 17/1/08, depositata il 27.3.08, respingeva l’appello principale proposto dal F., che condannava alle spese del giudizio, mentre accoglieva l’appello incidentale proposto dall’Agenzia delle Entrate.
2.1. Il giudice di seconde cure riteneva, invero, in relazione al gravame incidentale dell’Ufficio, che l’accertata partecipazione del F. all’evasione ai fini IVA, mediante l’utilizzazione di fatture relative ad operazioni inesistenti, comportasse, di conseguenza, l’indeducibilità dei relativi costi ai fini delle imposte dirette, per difetto del requisito dell’inerenza all’attività di impresa.
2.2. Per contro, la CTR riteneva, in relazione all’appello principale del contribuente, di dovere confermare la statuizione del primo giudice, guanto alla indetraibilità del credito IVA derivante dall’utilizzazione delle fatture concernenti le operazioni ritenute inesistenti.
3. Per la cassazione della sentenza n. 17/1/08 ha proposto ricorso F.S. articolando otto motivi.
l’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso, il F. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
1.1. Avrebbe, invero, errato la CTR nel ritenere che il contribuente avrebbe dovuto adoperare la diligenza del buon padre di famiglia, ai sensi dell’art. 1176 c.c., esercitando una preventiva azione di informazione e di controllo circa l’attività svolta dai propri fornitori, al fine di non incorrere in responsabilità per operazioni di evasione di imposta.
1.2. Per contro, ad avviso del ricorrente, la norma succitata non potrebbe che imporre un obbligo di correttezza nell’adempimento a carico del debitore, per quel che inerisce il comportamento che il medesimo deve tenere ai fini di non pregiudicare le ragioni del creditore, ma non potrebbe essere intesa nel senso di essere il debitore tenuto ad esercitare un controllo sull’attività svolta dai propri fornitori.
1.3. La censura è infondata.
1.3.1. E’ evidente, infatti, che – al di là del rinvio formale e di stile al generale disposto dell’art. 1176 c.c., la cui portata precettiva effettiva rileva ben poco nella vicenda processuale in esame – l’onere di ordinaria diligenza cui la CTR ha inteso fare riferimento, nella sostanza, è quello, specifico, gravante sull’ imprenditore, onesto e mediamente esperto, cui sia contestato di avere utilizzato, ai fini della detrazione dell’IVA, fatture emesse per operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti.
E, sotto tale profilo, l’assunto del giudice di appello è perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte, nonché con quella della Corte di Lussemburgo – come più approfonditamente si vedrà in prosieguo – secondo cui il diritto alla detrazione va escluso nelle ipotesi in cui il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, pur senza essere tenuto ad operare specifici e dettagliati controlli sull’attività svolta dai propri fornitori, sapeva o poteva sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza e sulla scorta di elementi fortemente sintomatici in tal senso, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o compiuto una frode (cfr., tra le tante, con particolare riferimento all’onere di diligenza del contribuente, Cass. 23560/12).
1.3.2. Per tali ragioni, pertanto, la censura deve essere rigettata.
2. Con il secondo motivo di ricorso, F.S. denuncia l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia.
2.1. Il giudice di appello non avrebbe, invero, adeguata- mente esposto – a parere del ricorrente – le ragioni per le quali, pur in presenza di operazioni effettivamente poste in essere nella loro materialità abbia ritenuto di escludere la deducibilità dei costi, relativi alle suddette operazioni, ai fini dell’IRPEF e dell’IRAP.
2.2. Il motivo è inammissibile.
2.2.1. Il F. ha, difatti, del tutto omesso di formulare – a corredo del motivo di ricorso – un’indicazione riassuntiva e sintetica, contenente la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume contraddittoria o insufficiente, ai sensi dell’art. 366 bis, co. 2, c.p.c. (applicabile alla fattispecie ratione temporis), a tenore del quale la formulazione della censura ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. deve contenere un “momento di sintesi” omologo del quesito di diritto, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo operata dalla parte ricorrente (Cass. 2652/08, Cass.S.U. 11652/08, 16528/08, 24255/11).
2.2.2. Per cui la censura in questione – per le ragioni suesposte – non può trovare accoglimento.
3. Con il terzo motivo di ricorso, il contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 109 d.P.R. 917/86 G 11 d.lgs. n. 446/97 (applicabile alla fattispecie ratione temporis), in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
3.1. Avrebbe, invero, errato la CTR nel ritenere che i costi relativi alle operazioni contestate, sebbene oggettivamente esistenti, non fossero deducibili dal reddito assoggettabile ad IRPEF, nonché dalla produzione lorda soggetta ad IRAP. Ed infatti, trattandosi di costi effettivamente sostenuti ed imputati al conto economico dell’esercizio di competenza, ovverosia di elementi negativi concorrenti a determinare il reddito netto dell’ impresa, i medesimi – ad avviso del ricorrente – avrebbero dovuto essere riconosciuti in deduzione dalla CTR, a prescindere dall’eventuale falsità ideologica delle relative fatture.
3.2. Il motivo è fondato.
3.2.1. Ed invero, in materia di imposte dirette, l’art. 14, co. 4 bis della l. 24.12.1993 n. 537 – come novellato dall’art. 8, co. 1 del d.l. 2.3.2012 n. 16, convertito dalla l. 26.4.2012 n. 44 – prevede che “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”.
Il co. 3 della medesima disposizione, per quanto qui interessa, ha – di poi- stabilito che le disposizioni di cui al citato co. 1 “si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore” dello stesso co. 1, “ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi”.
3.2.2. Ebbene, sul tema questa Corte ha già avuto occasione più volte di rilevare, anche sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 16 del 2012, che in forza della nuova normativa, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola (salvo il caso, ad esempio, in cui il “costo” sia consistito nel “compenso” versato all’emittente il falso documento) – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi a dette operazioni. Resta, peraltro, pur sempre ferma la verifica della concreta deducibilità dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (cfr. Cass. 10167/12; 3258/13; 12503/13; 24429/13).
3.3.3. Ed è del tutto evidente che, stante il chiaro disposto del succitato co. 3 dell’art. 8 d.l. n. 16/12, la disciplina in parola ha efficacia retroattiva (Cass. 5342/13), sicché essa si applica anche alla fattispecie concreta, ancorché la vicenda, relativa all’anno 2000, ne preceda l’entrata in vigore.
3.4. Alla stregua dei rilievi che precedono, pertanto, la censura in esame non può che essere accolta.
4. Con il quarto, quinto ed ottavo motivo – che, per la loro intima connessione, vanno esaminati congiuntamente – F.S. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 21 del d.P.R. n. 633/72, 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’insufficiente motivazione su punti della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
4.1. La CTR – ad avviso del ricorrente – sarebbe incorsa nella violazione delle disposizioni succitate, nel disconoscere il diritto alla detrazione dell’IVA, e non avrebbe fornito alcuna motivazione sufficiente circa il fatto, decisivo ai fini della risoluzione della controversia, relativo alla conoscenza, da parte del F., della natura di cd. cartiere – poiché svolgenti il ruolo esclusivo di emettere fatture per operazioni commerciali non realmente poste in essere – delle società con le quali il medesimo aveva posto in essere acquisti di merce nelle annualità di imposta in contestazione. La non ignoranza, in capo al contribuente, di contribuire al compimento di una vasta operazione di evasione dell’IVA sarebbe, difatti, fondata – a parere del F. – su elementi sforniti di un’idonea valenza probatoria, anche perché contrastati da elementi di prova di segno contrario, offerti in giudizio dal ricorrente.
4.2. Le censure sono infondate.
4.2.1. Va osservato, infatti, che, in materia di IVA, la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, comprensivo dell’incidenza dell’ imposta in parola sul prezzo di acquisto dei beni, attesa la disciplina del suo contenuto di cui all’art. 21 d.P.R. 633/72.
Ed, in tali limiti, essa può certamente costituire una prova a favore dell’imprenditore o del professionista, nei rapporti con il fisco.
Ben si intende, allora, che in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorché effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. E non può revocarsi in dubbio che tale prova – anche sotto il profilo della consapevolezza della frode al fisco – possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, l’art. 54, co. 2, del d.P.R. n. 633/72 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nell’art. 39, co. 1, lett. d) del d. P.R. n. 917/86) (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12; Cass. 15741/12, in motivazione; Cass. 23560/12; nello stesso senso C. Giust. 6.7.06, C- 439/04, C. Giust., 21.2.06, C-255/02; C. Giust. 21.6.12, C – 80/11; C. Giust. 6.12.12, C-285/11; C. Giust. 31.1.13, C-642/11).
4.2.2. Ora, è di tutta evidenza che – nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti – è escluso in radice che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno.
4.2.3. Principi più articolati trovano applicazione in relazione al caso in cui l’Amministrazione contesti al contribuente di avere adoperato, ai fini della detrazione dell’IVA, fatture solo soggettivamente inesistenti, ovverosia che la fattura sia stata emessa da un soggetto diverso dall’affettivo fornitore del bene o prestatore del servizio.
4.2.3.1. A tal riguardo, la Corte europea ha, da ultimo, ribadito che se – tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, o a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione – tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, si deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante, o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto; circostanza, questa, che – secondo la Corte di Lussemburgo – spetta al giudice del rinvio verificare (C. Giust. 6.12.12, cit.; 31.1.13, cit.).
4.2.3.2. Nel medesimo ordine di idee, questa Corte – in decisioni recenti – ha rilevato, al riguardo, che la prova, fornita dall’Amministrazione, che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce, di per sé, per la sua pregnanza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente. L’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore – fatturante – cessionario o committente) induce, invero, ragionevolmente ad escludere in via presuntiva – a fronte di una conclamata inidoneità del fatturante allo svolgimento dell’ attività economica – l’ignoranza incolpevole del cessionario o committente circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta. In tal caso, sarà – di conseguenza – il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (Cass. 6229/13).
4.2.3.3. Ed infatti, come questa Corte ha più volte affermato, qualora l’Amministrazione contesti al contribuente – come nel caso di specie – l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’ inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile. Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione (Cass. 8132/11, 23074/12).
4.2.3.4. A tal fine, per le ragioni suesposte, non è – tuttavia – sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la merce sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (Cass. 17377/09; 230744/12). E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. 1950/07, 12802/11).
4.3. Tutto ciò premesso in via di principio, va osservato che, nel caso di specie, l’impugnata sentenza – il cui impianto motivazionale si palesa, in verità, immune dalle pretese incongruenze logico-giuridiche denunciate dal ricorrente – ha evidenziato con chiarezza gli elementi di prova presuntiva offerti dall’Amministrazione, sulla scorta del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, a sostegno della ritenuta inesistenza oggettiva delle operazioni documentate dalle fatture in contestazione.
4.3.1. Siffatti elementi, la cui pregnanza sul piano probatorio è di assoluta evidenza, sono stati individuati dall’impugnata sentenza:
1) nell’esposizione di ben quattro sistemi di frode – desunti dalle risultanze del processo verbale di constatazione, costituente una fonte di prova che il giudice di merito è tenuto a valutare (Cass. 4306/10) – nei quali il F. risultava essere stato sempre parte integrante;
2) nell’aumento vertiginoso ed improvviso degli affari del F. in breve tempo;
3) nei rapporti commerciali intrattenuti con M.S., pregiudicato per frodi fiscali, del quale il F. era stato anche dipendente;
4) nella massiccia presenza di aziende cartiere tra i fornitori diretti del F., elemento questo – come sopra rilevato – di particolare significanza sul piano probatorio;
5) nei copiosi riscontri contenuti nel pvc e nelle c.t.u. disposte in giudizio, nonché nelle deposizioni rese nel giudizio penale da doversi soggetti, attestanti la piena partecipazione del F. all’operazione evasiva, ed addirittura i tentativi di depistaggio posti in essere dal medesimo per elidere le proprie responsabilità.
4.3.2. D’altro canto, la prova, a carico dell’ Amministrazione, circa la conoscenza della frode da parte del contribuente – come si è in precedenza osservato – ben può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, dimostrandosi che, al momento in cui pagò l’imposta che successivamente intese portare in detrazione, il contribuente disponeva di elementi tali da porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto (Cass. 23560/12).
4.3.3. Ebbene, a fronte di tali elementi indiziari e presuntivi offerti dall’Amministrazione finanziaria, a parte un’apodittica contestazione della loro valenza probatoria, nessun elemento di prova concreto di segno contrario ha fornito il contribuente, al di là delle circostanze – come detto, non significative – dell’avvenuta ricezione e del pagamento della merce.
Né va tralasciato di rilevare in proposito che, quanto meno per il secondo sistema di frode al fisco – come in precedenza accennato – manca addirittura l’operazione nella sua struttura materiale, trattandosi di passaggi di merce fittizi e solo cartolari dei beni, che finivano per ritornare al venditore originario, finalizzati a determinare i presupposti per la creazione di crediti IVA indebitamente detratti, laddove in siffatta ipotesi – com’è del tutto evidente – il diritto alla detrazione di imposta andava escluso in radice.
4.4. Per tutti i motivi esposti, pertanto, le censure in esame non possono che essere disattese.
5. Con il sesto motivo di ricorso, il F. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 472/97, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
5.1. Si duole, invero, il ricorrente del fatto che la CTR non abbia applicato la continuazione tra la violazione fiscale contestata per l’anno 2000 e le precedenti, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 472/97, benché il contribuente medesimo fosse stato assoggettato a precedenti accertamenti per gli anni di imposta 1998 e 1999.
5.2. La censura suesposta è inammissibile.
5.2.1. Ed invero, secondo l’insegnamento costante di questa Corte, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, né rilevabili d’ufficio (cfr., ex plurimis, Cass. 2140/06, 7981/07, 17041/13).
5.2.2. Ebbene, dall’esame degli atti del presente giudizio ed, in particolare, dallo stesso ricorso (p. 31), si evince che la questione proposta con il motivo in esame non è stata in alcun modo trattata nei gradi di merito del giudizio, benché l’applicazione della continuazione avrebbe potuto essere richiesta dal contribuente fin dal processo di prime cure; sicché la questione in parola, per la sua novità, non può essere presa in considerazione nel presente giudizio di legittimità. Ne consegue, pertanto, l’inammissibilità della censura che si fonda su detta questione.
6. Con il settimo motivo di ricorso, F.S. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 60 bis, co. 2 e 3 del d.P.R. 633/72, in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c.
6.1. Avrebbe, invero errato la CTR – ad avviso del ricorrente – nel ritenere applicabile alla fattispecie concreta – nonostante una specifica eccezione contraria a tale applicazione da parte del contribuente, e perciò in violazione dell’art. 112 c.p.c. – il disposto dell’art. 60 bis del d.P.R. 633/72, introdotto dall’art. 1, co. 386, della l. n. 311/04, secondo cui il cessionario è responsabile in solido con il cedente per il mancato versamento dell’IVA, nel caso di transazione che avvenga a prezzi inferiori rispetto al valore normale, sebbene la presente vertenza fosse stata incardinata in epoca precedente all’entrata in vigore della legge succitata.
6.2 II motivo è infondato.
6.2.1. Nessuna violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c. è, per vero, ravvisabile da parte della CTR, contrariamente all’assunto del ricorrente. E’ del tutto evidente, infatti, che nel caso concreto non viene in rilievo una solidarietà del cessionario nel debito di imposta del cedente, bensì la non spettanza del diritto alla detrazione esercitato dal primo. Tale è, difatti, la contestazione mossa dall’Ufficio al F. nell’atto impositivo oggetto di ricorso in sede giurisdizionale.
6.2.2. Orbene, va osservato – in proposito – che la disposizione di cui all’art. 21 d.P.R. n. 633/1972 – secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta stessa è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura – va interpretata nel senso che il corrispondente tributo viene, in realtà, ad essere considerato “fuori conto”, e la relativa obbligazione, conseguentemente, “isolata” da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate, ed estraniata, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui all’art. 19 d.P.R. cit. E ciò anche in considerazione del fatto che l’emissione di fatture per operazioni inesistenti costituisce, da sempre, una condotta penalmente sanzionata come delitto (cfr. Cass. 7289/01, 4247/07).
6.2.3. In altri termini, in presenza di operazioni inesistenti, non si realizza l’ordinario presupposto impositivo, né la configurabilità stessa di un “pagamento a titolo di rivalsa”, né sono ravvisabili i presupposti del diritto alla detrazione di cui all’art. 19, co. 1, del d.P.R. n. 633/72. Ed invero, va considerato, al riguardo, che la previsione del menzionato art. 21, co. 7, se, per un verso, incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta pur in assenza del suo ordinario presupposto, sulla base del solo principio di cartolarità, per altro verso, incide, sia pure indirettamente, anche sul destinatario della fattura, confermandone, in combinato disposto con gli artt. 19, co. 1, e 26, co. 3, la preclusione ad esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta, in assenza del relativo presupposto (acquisto o importazione di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione) (Cass. 22882/06; 16730/07; 7672/12; 2362/13).
6.2.4. E ciò è a dirsi – per i motivi suesposti – anche in relazione alla fattispecie dell’utilizzazione, ai fini della detrazione, di fatture emesse a fronte di operazioni che siano soltanto soggettivamente inesistenti.
In queste ultime, invero, l’indetraibilità dell’IVA è ancorabile all’incoerenza dei termini soggettivi dell’ operazione rispetto a quelli della fatturazione (artt. 19, co. 1, e 21, co. 7 e 26, co. 3 del d.P.R. 633/72), cioè alla dirompente alterazione della corretta sequenza tra operazioni a monte ed operazioni a valle, costituente il fulcro del disposto di cui all’art. 17 della VI Direttiva IVA, secondo cui il giudice nazionale deve negare il diritto alla detrazione, se risulta dimostrato che il diritto dell’Unione Europea sia stato invocato in modo fraudolento (Cass. 6229/13; 24426/13).
6.3. Per tali ragioni, dunque, la censura suesposta va rigettata.
7. L’accoglimento del terzo motivo di ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della CTR dell’Emilia Romagna, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia attenendosi al seguente principio di diritto: “in tema di imposte sui redditi, a norma dell’art. 14, comma quarto bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma primo, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, non sono indeducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una cosiddetta “frode carosello”, anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che, a norma del t.u. delle imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità”. L’eventuale contrasto dei costi deducibili con tali principi dovrà essere, pertanto, accertato dal giudice di rinvio, che provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili il secondo e sesto motivo di ricorso; rigetta il primo, quarto, quinto, settimo ed ottavo motivo di ricorso, ed accoglie il terzo; cassa l’impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
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