CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 febbraio 2014, n. 5495
Dipendente dell’Ufficio IVA e contestualmente commercialista – Verifica fiscale di un cliente – Versamento di una somma illecita per chiudere l’accertamento – Reato di concussione
Con sentenza del 25 marzo 2010 il Tribunale di Avellino dichiarava D.C. e G.P. colpevoli del reato di concussione e li condannava, ciascuno, alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione, oltre ai risarcimento dei danni in favore della parte civile D.G., stabilendo la somma di euro 20.000 a titolo di provvisionale.
Nella ricostruzione dei fatti operata dai primi giudici D.G., titolare di una rivendita di elettrodomestici, avanzò nel marzo 1997 una richiesta di rimborso all’Ufficio IVA di Avellino; nell’ottobre dello stesso anno il G., dopo essere stato invitato ad integrare la documentazione a corredo dell’istanza, ricevette un avviso di pagamento della somma di 150 milioni di lire in relazione al periodo di imposta dell’anno 1993 senza che fosse preceduto da alcun accertamento, con conseguente sospensione dell’erogazione dei rimborso; il giorno successivo D.C., dipendente dell’Ufficio Imposte Dirette e commercialista del G., procurò un incontro tra quest’ultimo e G.P., all’epoca direttore tributario responsabile del III Reparto dell’Ufficio IVA, incontro che non fu risolutivo; dopo circa un mese C. si presentò a casa del G., dicendogli che con 40/50 milioni dati a P. la vicenda si sarebbe chiusa e si sarebbe potuto dare seguito al rimborso; G. rifiutò la proposta e all’inizio del febbraio 1998 venne espletata nei suoi confronti una verifica fiscale a carattere generale disposta dal direttore dell’Ufficio su sollecitazione di P.; alla verifica prese parte lo stesso P. che nel corso delle operazioni “chiarì al G. che avrebbe potuto evitare ulteriori problemi versando la somma di quaranta milioni”; alle operazioni partecipò anche C., il quale, dopo avere consigliato di aderire alla richiesta, richiese ai G. una somma per presunte spese contabili di verifica dicendo che ciò “avrebbe reso felice P.”; questa volta G. consegnò un assegno di sette milioni di lire a C., che lo incassò II 20 febbraio 1998 (la somma di denaro in seguito è stata restituita dopo l’intervento del fratello del G. che minacciò C.di denunciarlo).
Il Tribunale ha ritenuto provata la concussione posta in essere da C. e P. in concorso tra loro, considerando il reato consumato nel febbraio dei 1998 e assorbito il tentativo di concussione.
Sull’impugnazione dei due imputati la Corte d’appello di Napoli ha assolto P. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto, mentre ha ridotto la pena nei confronti di C.ad anni due e mesi otto dì reclusione, disponendo una provvisionale di euro 10.000 e confermando nel resto la condanna.
Per quanto riguarda la responsabilità di C. i giudici di secondo grado si sono basati sulle accuse della persona offesa D.G., ritenute pienamente attendibili e riscontrate dalie testimonianze di M.S., presente all’incontro con il C.presso l’abitazione della persona offesa, di G.C., nonché della moglie e del fratello del G..
Sulla posizione di P. la Corte territoriale ha ritenuto che il quadro probatorio non fosse univoco, non emergendo la prova dì un preventivo accordo tra ì due imputati e del contributo offerto da P. alla condotta illecita posta in essere da C., sottolineando come dalla testimonianza di I. sia risultata la piena legittimità della verifica fiscale disposta nei confronti dei G.. La tesi contenuta nella sentenza d’appello è che C.avrebbe sfruttato la sua duplice veste di dipendente dell’Ufficio delle Imposte Dirette e di commercialista della persona offesa, utilizzando la conoscenza delle pratiche degli uffici finanziari per costringere G. a versare una somma di denaro rappresentando il contatto con P..
Contro questa decisione ricorrono per cassazione l’imputato, il procuratore generale e la parte civile.
L’avvocato G.F., nell’interesse di D.C., ha proposto due distinti motivi.
Con il primo deduce il vizio di motivazione, rilevando la contraddittorietà della sentenza là dove esclude la prova di un preventivo accordo tra i due coimputati, per poi ritenere la responsabilità del solo C.; inoltre, evidenzia come le prove a riscontro delle dichiarazioni della persona offesa siano costituite dalle testimonianze di parenti e amici del G..
Con il secondo motivo rileva che, a seguito della riforma del delitto di concussione ad opera della legge n. 190 del 2012, la condotta posta in essere dal C. debba essere inquadrata nel reato di induzione indebita di cui all’art. 319-quater c.p., con conseguente dichiarazione di estinzione dei reato per intervenuta prescrizione.
Il procuratore generale deduce la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’assoluzione di P.. Il vizio di motivazione viene ritenuto intrinseco alla sentenza che, da un lato, utilizza le dichiarazioni della persona offesa, ritenute precise e attendibili, per affermare la colpevolezza di C. e, dall’altro, assume, In modo del tutto contraddittorio, l’insufficienza di quelle stesse dichiarazioni per ritenere la responsabilità dei coimputato, senza considerare che quelle dichiarazioni sono state riscontrate dalla moglie di G. e da M.S., presenti all’illecita richiesta di quaranta milioni di lire formulata da P. nel corso della verifica.
La parte civile ha presentato due distinti ricorsi, di cui uno sottoscritto personalmente.
L’avvocato G.P., ricorre per cassazione agli effetti civili, contestando l’assoluzione di P. e la conseguente revoca delle statuizioni civili.
Con il primo motivo deduce il vizio di motivazione e rileva che le conclusioni cui è giunta la Corte d’appello, con il ritenere non raggiunta la prova di un preventivo accordo tra i due imputati, si pone In contrasto evidente con il materiale probatorio raccolto, determinando un vero e proprio travisamento delle prove. Si precisa che l’affermazione secondo cui sarebbe stato solo il C. a richiedere prestazioni in denaro risulta palesemente smentita dalle dichiarazioni di G. II quale ha riferito che nel corso delta verifica fiscale dei febbraio 1998 fu proprio P. a fare illecite pressioni, circostanza riportata anche nella sentenza di primo grado. Sicché appare errata l’affermazione fatta dalla Corte territoriale, secondo cui dalla deposizione di G. – ritenuta dagli stessi giudici pienamente attendibile – non emergerebbe alcun riferimento al P.: si tratta, in altri termini, di un vero travisamento, avendo omesso di considerare la parte della testimonianza riguardante P.. Altrettanto erronea risulta l’affermazione secondo cui gli altri testimoni avrebbero confermato che solo C.vessava la persona offesa: al contrario, si rileva che M.C.C., moglie di G., ha riferito di avere assistito alta richiesta concussiva formulata da P. nel corso della verifica fiscale. Infine, sotto un diverso profilo si sottolinea l’illogicità della motivazione là dove si argomenta in merito alla legittimità dell’accertamento fiscale disposto su indicazione di P. (testimonianza I.), trattandosi di una valutazione irrilevante in quanto la concussione può configurarsi anche nell’ambito di un esercizio legittimo dell’attività amministrativa.
Conclude chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli competente ai sensi dell’art. 622 c.p.p perché, riconosciuta in via incidentale la responsabilità di P., lo condanni al risarcimento dei danni.
Nei ricorsi proposti personalmente da D.G. si censura la sentenza sotto diversi motivi, lamentando comunque l’assoluzione di infine, l’avvocato G.P. ha depositato una memoria in cui censura il ricorso presentato nell’interesse dell’imputato, sostenendo che nella specie II reato configurabile non è l’induzione indebita di cui all’art. 319-quater c.p., ma la concussione.
Considerato in diritto
Preliminarmente, deve dichiararsi inammissibile il ricorso del 4 aprile 2013 presentato personalmente dalla parte civile – con successive integrazioni -, in quanto nel processo penale la parte legittimata a presentare ricorso per cassazione in via personale è solo l’imputato, ai sensi dell’art. 613 comma 1 c.p.p.
Sono invece fondati i ricorsi proposti dal procuratore generale e da (l’avvocato G.P.), nell’interesse della parte civile.
L’assoluzione di G.P. viene giustificata dal giudici di appello sostenendo che dall’esame degli atti e, in particolare, dalla deposizione del G., non emergerebbe “In modo chiaro II rapporto Instauratosi tra il C. e il P.”, sicché non vi sarebbe la prova del preventivo accordo tra i due imputati e del contributo fornito dal P. alla condotta posta in essere dal C..
Si tratta di una motivazione assolutamente carente, che contiene un vero e proprio travisamento della prova, in quanto la Corte territoriale non prende in minima considerazione una serie di elementi, di carattere indiziario, che il primo giudice aveva valorizzato per ritenere il concorso del P.. In particolare, la sentenza di primo grado indica una serie di dati probatori su cui fonda la pronuncia di colpevolezza che sono stati del tutto ignorati dalia decisione di appello. Tra questi vi è, innanzitutto, la circostanza che il P. compare immediatamente nella vicenda In esame: C. combina un incontro tra il G. e il P., nell’ufficio di quest’ultimo per un colloquio informale; quando C.si reca a casa dei G. nel richiedere la somma di denaro fa espresso riferimento al P. come destinatario della tangente; dopo il rifiuto del G. ha luogo la verifica fiscale che risulta attivata su sollecitazione di P.; quest’ultimo prende parte alle operazioni di verifica, nel corso della quale, riferendosi alle numerose anomalie riscontrate, si rivolge al C. dicendogli che avrebbe potuto evitare ulteriori problemi versando la somma di quaranta milioni di lire (“per risolvere tutto, per farla finita e non passare problemi. Inconvenienti… con quaranta milioni si chiude tutto altrimenti si corre e si abbassano definitivamente le serrande del negozio”); C., che nei primi giorni ha partecipato, in maniera del tutto irrituale, alla verifica, consiglia a G. di aderire alle richieste del P..
E’ questa la ricostruzione dei fatti così come riferiti dalla persona offesa, ritenuta del tutto credibile dai giudici di merito: la condotta del P. non appare così neutra, come sostenuto dalla Corte d’appello, dal momento che il G. riferisce di aver ricevuto da lui una espressa richiesta di denaro nel corso della verifica, elemento questo significativo di per sé, ma ancor più rilevante, ai fini della valutazione del concorso nel reato, se inquadrato nello svolgimento complessivo della vicenda. D’altra parte, nella sentenza di secondo grado non si mette minimamente in dubbio l’attendibilità e la credibilità del G., tanto e vero che sulle sue dichiarazioni viene affermata la colpevolezza del C.; tuttavia tali dichiarazioni vengono ignorate nel momento in cui si valuta la condotta del P..
Peraltro, sull’episodio di assoluto rilievo per la posizione del P. vi è anche la testimonianza della moglie del G. che, nel confermare la versione dei fatti fornita dal marito, riferisce che il P., nel corso della verifica, “fece chiaramente intendere che soltanto con quaranta milioni di lire era possibile risolvere la vicenda e evitare la chiusura del negozio”. Tale testimonianza è stata riportata nella sentenza di primo grado, ma risulta ignorata dal giudici di appello.
Trascurata è anche la stessa genesi della verifica a cui, invece, il Tribunale di Avellino aveva attribuito rilevanza, mettendo in evidenza come nella pendenza di una procedura di rimborso per credito IVA si sia innestata una verifica fiscale di carattere generale richiesta proprio dal P..
In conclusione, l’omessa valutazione degli elementi probatori sopra indicati configura il vizio di motivazione dedotto nel ricorsi, con riferimento ad un travisamento per omissione delle prove acquisite agli atti, peraltro puntualmente riportate e valutate nella sentenza di primo grado, il cui contenuto è stato totalmente trascurato, senza procedere ad alcuna confutazione delle tesi in essa contenute.
Infondato è il ricorso proposto nell’interesse di D.C..
Riguardo al primo motivo, richiamando quanto in precedenza affermato nell’esame dei ricorsi del procuratore generale e della parte civile, deve sottolinearsi che il vizio di motivazione sussiste con riferimento alla posizione del P., ma non anche in relazione a quella del C., la cui responsabilità trova fondamento, secondo la sentenza impugnata, nelle dichiarazioni della persona offesa, riscontrate dalle testimonianze della moglie, M.C.C., e di M.S., presenti in occasione della visita dell’imputato, nonché da quelle di G.C. e di A.G.. In particolare, come si è già evidenziato, la stessa Corte d’appello riconosce massima attendibilità alla vittima e, seppure individua nel C. l’unico responsabile del reato contestato, ricostruisce e valuta con coerenza logica gli elementi a suo carico. Le censure che attengono alla presunta inattendibilità dei testimoni sono del tutto generiche nella misura in cui si limitano ad evidenziare unicamente il rapporto di parentela o di amicizia con il G..
Quanto al secondo motivo si deve ribadire la sussistenza del reato di concussione, escludendo che, a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 190 del 2012, possa trovare applicazione la nuova fattispecie di cui all’art. 319-quater c.p
Secondo il ricorrente la condotta posta in essere dal C. rientrerebbe nella nozione di induzione, cui si riferisce il nuovo art. 319-quater c.p., e non in quella di costrizione che caratterizza, oggi come ieri, il reato di concussione.
Come è noto, successivamente alla riforma del 2012, la giurisprudenza di questa Corte ha, in diverse occasioni, affrontato il tema del criterio distintivo tra delitto di concussione e di indebita induzione, dando luogo a diversi orientamenti interpretativi. Il problema è sorto perché con la riformulazione dell’art 317 c.p. e l’introduzione del nuovo art. 319-quater c.p. si è operata una separazione delle due condotte – costrizione e induzione – che, originariamente, erano ricomprese nell’unica fattispecie di concussione: oggi l’art. 317 c.p. punisce il solo pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, “costringe” taluno a dargli o a promettergli indebitamente denaro o altra utilità; l’art. 319-quater c.p, dopo aver premesso una clausola di salvezza, si rivolge, invece, al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio che, attraverso la medesima condotta abusiva, ponga in essere una condotta di “induzione”, sempre finalizzata a conseguire denaro o altra utilità, prevedendo, al secondo comma, anche la punizione del soggetto indotto.
Nel tentativo di individuare gli elementi distintivi tra le due nuove fattispecie nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono emersi tre distinti orientamenti.
Il primo Indirizzo (cfr., Sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 8695, Nardi; Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 16154, Pierri; Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285, Vaccaro; Sez. VI, 8 marzo 2013, n. 28412, Nogherotto) recupera i criteri che la giurisprudenza utilizzava nell’ambito dell’originaria fattispecie di concussione, in cui il discrimine tra condotta di costrizione e quella di induzione era individuato nell’intensità della pressione psichica prevaricatrice. In questo senso, la costrizione coinciderebbe con una attività di pressione realizzata con modalità in grado di provocare uno stato di soggezione con conseguente compressione della libertà di autodeterminazione; l’Induzione, invece, sarebbe caratterizzata da forme di pressione meno incisive, tali da non condizionare gravemente la libertà di determinazione dell’indotto, che conservando un ampio margine di libertà, potrebbe scegliere di respingere la richiesta indebita: proprio il mantenimento di questa capacità di autodeterminazione giustificherebbe la punizione dell’indotto in caso di adesione alla richiesta.
Secondo un altro orientamento (cfr., Sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia; Sez. VI, 3 dicembre 2012, n. 7495, Goti; Sez. VI, 14 gennaio 2013, n. 17593, Marino; Sez. VI, 23 maggio 2013, n. 29338, Pisano) la costrizione cui si riferisce la concussione consisterebbe nella violenza morale, cioè nel minacciare, da parte del pubblico ufficiale, anche in modo implicito, un male ingiusto alla vittima, prospettandogli una possibile lesione patrimoniale o non patrimoniale; rientrerebbero, invece, nella nozione di induzione le diverse forme di pressione, esclusa la minaccia, poste in essere dal pubblico agente che prospetti una alternativa fra il sottostare alla richiesta indebita o il subire conseguenze per lui sfavorevoli, comunque derivanti dall’applicazione della legge. In sostanza, in entrambe le ipotesi ricorre la prevaricazione da parte del pubblico agente, che si sostanzia nell’abuso di qualità e di poteri, ma nella concussione si struttura nella minaccia di un danno ingiusto, mentre nell’induzione si manifesta con la prospettazione di un danno de iure, con la conseguenza che il soggetto passivo dell’induzione, intendendo evitare un tale danno, mira nei contempo ad ottenere un indebito vantaggio.
Infine, un terzo indirizzo (Sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 11794, Melfi; Sez. VI, 8 maggio 2013, n. 20428, Milanesi), che si pone nei mezzo dei due orientamenti riportati, considera l’Induzione come una pressione psichica esercitata dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che, a differenza della costrizione, lascia al destinatario un significativo margine di autodeterminazione non solo in ragione di una condotta più blanda, ma perché l’Indotto riesce comunque a conseguire un vantaggio indebito aderendo alla richiesta.
Nella presente fattispecie sulla base dei diversi criteri utilizzati si perviene comunque alla stessa soluzione, cioè a ritenere che la condotta posta In essere dal C. integri il delitto di concussione, avendo posto in essere una condotta che rientra nella nozione di costrizione.
Nella contestazione si fa riferimento espresso alla costrizione.
Inoltre, dalle sentenze di merito emerge come, nei corso della verifica fiscale generale il C., dinanzi alle perplessità manifestate dal G. in ordine alle richieste di pagamento, pronuncia una frase dall’oggettivo contenuto minaccioso, facendogli intendere che dalla verifica In corso gli sarebbe potuto capitare qual cosa di grave (“non sai che ti può succedere; la verifica è ancora aperta”)) frase che deve essere necessariamente inquadrata nella complessa operazione realizzata dall’imputato, che sfrutta la verifica in atto, cui avrebbe dato impulso il suo complice, per vincere le ultime resistenze della vittima, di cui era anche il commercialista. Ed infatti di fronte a questa minaccia il G. riferisce di aver pagato “per paura” la somma di sette milioni di lire che gli era stata richiesta.
Che si tratti di costrizione lo si ricava proprio dalla minaccia rivolta dall’imputato durante la verifica fiscale, minaccia che in relazione al momento in cui è stata pronunciata acquista un forte carattere di concretezza, anche perché alla verifica stava partecipando lo stesso C., assieme a P. che la conduceva e che gli aveva rivolto anch’egli univoci segnali circa i rischi che avrebbe corso in caso di mancato pagamento: in sostanza, le pressioni sono provenute da due pubblici ufficiali, uno dipendente dell’Ufficio Imposte Dirette, l’altro direttore tributario del reparto dell’Ufficio IVA, mentre conducevano un accertamento fiscale, sfruttando e quindi abusando dei loro poteri e delle loro qualità. Peraltro, l’ingiustizia del male prospettato deriva dalla estrema vaghezza della minaccia (“/a verifica è ancora aperta”), portata a segno nel contesto di un attività dotata di sicura concretezza, perché in grado di incidere anche pesantemente sul patrimonio del commerciante, che lo ha determinato ad aderire alla richiesta indebita di pagamento per evitare un danno ingiusto, percepito come tale proprio in considerazione della sua indeterminatezza. Dinanzi ad una minaccia concreta e nello stesso tempo indeterminata il G. si è trovato in una situazione di completa soggezione in cui gli spazi di autodeterminazione erano pressoché inesistenti, cosi come inesistente è il vantaggio che gli ha comportato l’adesione alla richiesta, in presenza di una strumentalizzazione della complessa attività amministrativa piegata all’ottenimento di indebite somme di denaro.
In questa fattispecie sembrano presenti tutti i criteri identificativi della costrizione, quale condotta tipica del reato di concussione, cosi come individuati nei diversi orientamenti emersi nella giurisprudenza di legittimità: quello quantitativo riferito all’intensità della pressione; quello di tipo qualitativo che richiede la presenza del male ingiusto; nonché l’indirizzo che individua nei vantaggio indebito il criterio discriminante tra induzione e concussione.
L’intera verifica generale è stata gestita secondo modalità che hanno fortemente condizionato la libera determinazione del G., che ha finito per sottostare alle richieste per timore delle conseguenze cui poteva portare la verifica stessa. D’altra parte, l’intera vicenda risulta contrassegnata da “stranezze”: il G. viene raggiunto da un avviso di pagamento di 150 milioni di lire nella pendenza di una procedura di rimborso per credito IVA convertita in un obbligo erariale di pari importo, per poi subire una verifica fiscale di carattere generale. E’ in questo contesto, già di per sé produttivo di una situazione di condizionamento, che la condotta dell’imputato ha ingenerato la fondata convinzione di dover sottostare alle richieste dei pubblici ufficiali per evitare il pericolo di subire un pregiudizio.
Una volta stabilita la sussistenza dell’ipotesi di concussione deve conseguentemente escludersi l’avvenuta prescrizione che deve essere calcolata ai sensi degli artt. 157 e seg. c.p. come modificati dalla legge n. 251 del 2005: per cui, tenuto conto che il reato è stato commesso nei febbraio del 1998 e che al termine massimo di quindici anni deve aggiungersi il periodo di nove mesi e dieci giorni per effetto delle sospensioni, il termine per la prescrizione non è ad oggi trascorso.
Pertanto il ricorso proposto nell’interesse di D.C. deve essere rigettato, con la conferma delle statuizioni civili. Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
Considerando che la sentenza è stata annullata per quanto concerne la posizione di P., si ritiene che le spese del grado in favore della parte civile potranno essere liquidate definitivamente dal giudice dei rinvio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di C.D. che condanna al pagamento delle spese processuali.
In accoglimento dei ricorsi del pubblico ministero e della parte civile annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.G. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
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