La Corte di cassazione con l’ordinanza n. 6527 del 14 marzo conferma che l’Amministrazione finanziaria può rideterminare il reddito d’impresa di persone fisiche e società commerciali, e quello di lavoro autonomo di artisti e professionisti, al di là del fatto che le carte sono a posto, basandosi su presunzioni dotate di gravità, precisione e concordanza.
la fattispecie
L’ufficio aveva emesso, a carico di uno studio associato di ragionieri, un avviso di accertamento ai fini Irap e Iva per l’anno d’imposta 2009, dopo aver ricostruito in via induttiva il maggior reddito. L’atto impositivo era stato impugnato dinanzi ai giudici di merito che ne avevano dichiarato l’illegittimità. In particolare, secondo la Commissione tributaria regionale, l’Amministrazione finanziaria non avrebbe potuto avvalersi del metodo induttivo, essendo la contabilità regolare. Né avrebbe potuto fondare l’accertamento sul tariffario professionale, dal momento che i professionisti dello studio venivano pagati con importi inferiori, che non sempre riscuotevano e che in parte affluivano a un’altra società partecipata dagli stessi, anche se la contabilità è regolare, quando ricevute e fatture non contengono dettagli specifici sui compensi e il volume d’affari appare incongruo prendendo a riferimento, appunto, le vecchie ed abbrogate tariffe “miniei”.
L’appello
Avverso la sentenza dei giudici di appello /la sentenza della commissione tributaria regionale della Basilicata n. 14/03/10, depositata il 21 gennaio 2010) l’Agenzia delle Entrate ricorreva per cassazione, lamentando vizi di motivazione, in quanto la Commissione tributaria regionale non aveva enunciato chiaramente, se non in modo apparente, le ragioni poste a base del suo convincimento.
Per il Fisco, le dichiarazioni testimoniali rese dai clienti dello studio, peraltro posteriori all’accertamento e assunte senza contraddittorio, non potevano ritenersi rilevanti alla luce del divieto di prova per testimoni.
Inoltre, le fatture emesse erano del tutto generiche e, in sede di verifica, gli ispettori avevano riscontrato un saldo di cassa negativo.
Per i motivi appena esposti, l’ufficio delle Entrate aveva ritenuto opportuno procedere all’accertamento del reddito professionale facendo riferimento ai minimi tariffari.
Pertanto, il metodo analitico-induttivo prescelto si basava su presunzioni aventi i caratteri della gravità, della precisione e della concordanza. Di seguito i motivi indiati nel ricorso in Cassazione dall’Agenzia:
Col primo motivo la ricorrente denunzia violazione di norma di legge, giacché la CTR non considerava che il ricorso in appello si basava su motivi generici, per i quali i contribuenti si riportavano “tout court” a quello introduttivo, senza esplicitare i punti precisi della decisione oggetto di critica, e soprattutto enunciare le ragioni di censura su cui questa si reggeva, se non in modo vago col riportarsi al medesimo in ordine alle fatture; ai disavanzi di cassa; ai contratti verbali ed agli onorari inferiori alla tariffa professionale.
Il motivo, a parte il profilo di una certa genericità di formulazione, in quanto la ricorrente ha riportato, a corredo di tale doglianza, soltanto una parte delle censure addotte dalla contribuente alla pronuncia di primo grado con l’appello incidentale, comunque è infondato, atteso che in tema di contenzioso tributario, la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi dell’art. 53, comma primo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, determinano l’inammissibilità del ricorso in appello, non sono ravvisabili qualora l’atto di appello, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione e questa non possa ritenersi “assolutamente” incerta, essendo interpretabile, anche alla luce delle conclusioni formulate, in modo non equivoco, come esattamente interpretato nel caso in esame in secondo grado (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 1224 del 19/01/2007 N. 1574 del 2005).
Col secondo motivo la ricorrente deduce vizi di motivazione, in quanto il giudice di appello non enunciava chiaramente, se non in modo apparente, le ragioni poste a base del suo convincimento, tenuto conto che le dichiarazioni di certi clienti erano posteriori all’accertamento, e comunque non erano rilevanti alla luce del divieto della prova per testimoni, per di più senza contraddittorio; le fatture erano del tutto generiche, poiché prive della natura delle prestazioni, del periodo, dell’importo; il saldo di cassa era stato riscontrato negativo dagli ispettori in sede di verifica; i compensi erano stati determinati secondo il minimo della tariffa professionale, sicché quindi il metodo analitico induttivo seguito si basava su presunzioni aventi i caratteri della gravità, precisione e concordanza, ancorché tutta la contabilità non potesse considerarsi abbastanza attendibile.
La sentenza
Con l’ordinanza 6527 del 14 marzo, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.
Va innanzitutto ricordato che l’articolo 39 del Dpr 600/1973 consente all’Amministrazione finanziaria di determinare in via induttiva – o extracontabile – il reddito d’impresa delle persone fisiche e delle società commerciali, nonché il reddito di lavoro autonomo di artisti e professionisti.
In particolare, l’accertamento analitico-induttivo è disciplinato dal comma 1, lettera d), dello stesso articolo 39, secondo cui l’ufficio procede alla rettifica “se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32. L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti“.
In sostanza, pur in presenza di una contabilità formalmente e sostanzialmente regolare, l’Agenzia delle Entrate può procedere all’accertamento di un maggior reddito avvalendosi di prove presuntive, purché gravi, precise e concordanti.
Con riferimento al caso sottoposto alla loro attenzione, i giudici di legittimità hanno ribadito che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’omessa indicazione nelle fatture dei dati prescritti dall’articolo 21 del Dpr 633/1972 integra quelle gravi irregolarità che, ai sensi dell’articolo 39 del Dpr 600/1973, legittimano l’Amministrazione finanziaria a ricorrere all’accertamento induttivo del reddito imponibile (cfr Corte di cassazione, sentenze 5748/2010 e 27063/2007).
Nel caso in esame, le fatture non recavano l’indicazione della natura, del periodo e dell’importo delle prestazioni professionali.
Peraltro, hanno affermato i giudici di piazza Cavour, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, rientra nel potere dell’Amministrazione finanziaria, nell’ambito della previsione di legge, di scegliere il metodo di accertamento da utilizzare nel caso concreto e, pertanto, parte contribuente, in assenza di peculiarità pregiudizievoli, non ha titolo a dolersi della scelta operata, come nella specie” (cfr Corte di cassazione, sentenze 8333/2012 e 19258/2005).
Dunque, la Corte di cassazione, non avendo riscontrato una motivazione adeguata e giuridicamente corretta, ha cassato la sentenza impugnata dal Fisco e ha rinviato la causa, per un nuovo esame, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.
Spetterà a quest’ultima, in diversa composizione, applicare i principi di diritto espressi nella pronuncia 6527/2013.
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