Corte di Cassazione, Sezione Tributaria civile
Sentenza 16 ottobre 2009, n. 21974
Integrale
ACCERTAMENTO, RISCOSSIONE E CONTENZIOSO – ACCERTAMENTO (IMPOSTE SUI REDDITI)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ALTIERI Enrico – Presidente
Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere
Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere
Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere
Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20676-2005 proposto da:
MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona de Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;
– ricorrenti –
contro
CA. SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BOEZIO 6, presso lo studio dell’avvocato CARAVITA DI TORITTO GIUSEPPE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARAVITA DI TORITTO BENIAMINO, giusta delega a margine;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 269/2002 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 30/12/2002;
udita la relazione della causa svolta nel la pubblica udienza del 3 1/06/2009 dal Consigliere Dott. DI IASI CAMILLA;
udito per il ricorrente l’Avvocato GUIDA, che si riporta agli scritti difensivi e chiede l’accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, assorbito il resto e in subordino la rimessione alle Sezioni Unite.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione nei confronti della Ca. s.r.l. (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza n. 269/01/02, depositata il 30.12.02, con 1 a quale, in controversia concernente impugnazione di quattro avvisi di accertamento per Irpeg e Ilor relativi agli anni (OMESSO), la C.T.R. Lazio, previa riunione, accoglieva gli appelli proposti dalla societa’ avverso le quattro sentenze di primo grado (che avevano rigettato tre dei ricorsi proposti dalla contribuente contro gli avvisi per cui e’ causa e accolto solo parzialmente il quarto), rilevando che nel decreto di autorizzazione all’accesso domiciliare non erano stati indicati, nemmeno in maniera indiretta e sintetica, i gravi indizi di violazioni di norme fiscali richiesti dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1977, articolo 52, che la suddetta autorizzaci one era stata concessa nei confronti della persona giuridica (mentre il provvedimento aveva riguardato una persona fisica) ed in essa era stato omesso sia il il nome del destinatario che il luogo dell’accesso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 52, oltre che vizio di motivazione, i ricorrenti rilevano che: la valutazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi e’ rimessa al giudice penale inquirente e deve ritenersi escluso dal sindacato del giudice tributario; che, anche ritenendo la natura amministrativa dell’atto di autorizzazione, dovrebbe escludersi la cognizione del giudice tributario per mancata previsione di tale atto tra quelli impugnabili; che, in ogni caso, la motivazione riguardo i gravi indizi può esprimersi anche in modo indiretto tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorità richiedente (come nella specie, in cui l’autorizzazione all’accesso e’ stata giustificata dalla necessita’ di reperire gli elementi accertati nel p.v.c.);
che l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta l’inutilizzabilità degli stessi in mancanza di espressa previsione in tal senso; infine che, anche ritenendo l’illegittimità’ dell’autorizzazione, la C.T.R. avrebbe dovuto valutare l’idoneità degli elementi acquisiti a comprovare la fondatezza della pretesa erariale, non potendo ritenersi esaustiva la motivazione formulata in proposito nella sentenza impugnata al punto 4), penultimo capoverso.
Aggiungono i ricorrenti che, in ordine alla eccezione relativa alla concessione dell’autorizzazione nei confronti di persona giuridica, mentre il provvedimento aveva riguardato una persona fisica, ed alla circostanza che in esso era stato omesso sia il nome del destinatario che il luogo dell’accesso, la motivazione della sentenza sarebbe insufficiente e contraddittoria.
La prima censura esposta nel motivo in esame e’ infondata. La giurisprudenza di questo giudice di legittimita’ (alla quale il collegio intende assicurare continuita’ in assenza di valide ragioni per discostarsene) ha infatti affermato che l’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista, in presenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie, dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 52, comma 2, in materia di imposta sul valore aggiunto (reso applicabile anche ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi dal richiamo operato del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33), costituisce un provvedimento amministrativo che si inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo ed ha lo scopo di verificare che gli elementi offerti dall’ufficio tributario (o dalla guardia di finanza nell’espletamento dei suoi compii, i di collaborazione con detto ufficio) siano consistenti ed idonei ad i integrare gravi indizi, da tale natura e funzione dell’autorizzazione discendendo – anche in considerazione del fatto che l’autorizzazione trova base logica nell’articolo 14 Cost. sull’inviolabilita’ del domicilio – che il giudice tributario, davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell’accesso domiciliare, puo’ essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del pubblico ministero e la presenza in esso degli indispensabili requisiti, tenendo conto, quanto al requisito motivazionale, che l’apprezzamento della gravita’ degli indizi e’ esternabile anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorita’ richiedente (v. tra le altre per tutte S.U. n. 16424 del 2002 e, da ultimo, Cass. N. 6836 del 2009).
In ordine all’affermazione della ricorrente secondo la quale l’acquisizione irritale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta l’inutilizzabilita’ degli stessi in mancanza di espressa previsione in tal senso, giova rilevare che, secondo la citata giurisprudenza, il giudice tributario, in sede di impugnazione dell’atto impositivo basato su libri, registri, documenti ed altre prove reperite mediante accesso domiciliare autorizzato dal procuratore della Repubblica, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 52, in tema di imposta sul valore aggiunto – reso applicabile anche ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi dal richiamo operato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33 -, ha il potere-dovere (in ossequio al canone ermeneutico secondo cui va privilegiata l’interpretazione conforme ai precetti costituzionali, nella specie agli articoli 14 e 113 Cost.) – oltre che di verificare la presenza, nel decreto autorizzativo, di motivazione – sia pure concisa o “per relationem”, mediante recepimento dei rilievi dell’organo richiedente – circa il concorso di gravi indizi del verificarsi dell’illecito fiscale – anche di controllare la correttezza in diritto del relativo apprezzamento, nel senso che faccia riferimento ad elementi cui l’ordinamento attribuisce valenza indiziaria, e pertanto, nell’esercizio di tale compito, il giudice deve negare la legittimita’ dell’autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime, valutando consequenzialmente il fondamento della
pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove (v. la gia’ citata S.U. n. 16424 del 2002 e Cass. n. 15209 del 2001, secondo la quale l’autorizzazione all’accesso nei locali dell’impresa ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 52 deve essere rilasciata per iscritto dall’autorita’ competente, essendo eccezionali le ipotesi – relative a casi in cui l’atto scritto e’ reso impossibile da situazioni di fatto o di assoluta urgenza – in cui l’Amministrazione agisce, con rilevanza verso i terzi, con atti meramente verbali, e alla mancanza del requisito della forma scritta dell’autorizzazione consegue l’inutilizzabilita’ degli atti eseguiti in base ad essa, essendo sottoposta a controllo giudiziario la legittimita’ dell’acquisizione degli elementi forniti dall’Amministrazione), laddove la giurisprudenza citata da parte ricorrente si riferisce alla diversa ipotesi di mancanza o irritualita’ delle autorizzazioni (Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 33 o Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 63) poste a tutela della riservatezza delle indagini penali.
Quanto alla deduzione che, sia pure in maniera indiretta, nell’autorizzazione in esame vi era la motivazione in ordine sussistenza dei “gravi indizi”, trattasi di affermazione che tende a porre in discussione l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito e che, in ogni caso, e’ priva di autosufficienza, non essendo stata in ricorso riportata integralmente e testualmente la suddetta autorizzazione.
Per quanto concerne la censura di difetto di motivazione con riguardo alla circostanza che l’autorizzazione era stata concessa nei confronti di una persona giuridica (mentre il provvedimento aveva riguardato una persona fisica) ed alla circostanza e che in essa era stato omesso sia il nome del destinatario che il luogo dell’accesso, deve rilevarsene l’inammissibilita’ per carenza di interesse, posto che essa colpisce solo alcune delle ragioni addotte a sostengo della affermata illegittimita’ dall’autorizzazione all’accesso e che, ritenuta
l’infondatezza delle precedenti censure riguardanti altra ragione posta a sostegno della suddetta illegittimita’ (in particolare, la mancanza di una chiara enunciazione – sia pure sintetica o indiretta – di gravi indizi di violazioni di norme fiscali), la sentenza impugnata resterebbe pur sempre sostenuta dalla ratio decidendi che ha resistito alle censure precedentemente esaminate.
Quanto infine alla censura secondo la quale, ritenuta l’illegittimita’ dell’autorizzazione, i giudici della C.T.R. avrebbero dovuto ugualmente valutare l’idoneita’ degli elementi acquisiti a comprovare la fondatezza della pretesa erariale – non potendo ritenersi esaustiva la motivazione formulata in proposito nella sentenza impugnata al punto 4), penultimo capoverso – deve rilevarsi che essa presenta diversi profili di inammissibilita’.
Dalla sentenza impugnata emerge infatti che i giudici d’appello non hanno proceduto all’esame degli elementi acquisiti a sostegno della pretesa erariale avendo ritenuto che gli avvisi opposti, in quanto motivati con riferimento a dati acquisiti a seguito di accessi non (o illegittimamente) autorizzati, erano da ritenersi invalidi e insuscettibili di produrre effetti, e tale affermazione non risulta censurata in questa sede ne’ in fatto ne’ in diritto, non potendosi ritenere tale una censura che non individua l’affermazione della sentenza censurata – se non per il riferimento ad un non meglio identificato punto 4), peraltro non rinvenibile nella sentenza de qua – e che non esplicita il tenore delle censure, se non in ragione di una generica non esaustivita’ della sentenza impugnata sul punto.
Peraltro, i ricorrenti non hanno nemmeno evidenziato il proprio interesse alla censura rilevando in maniera autosufficiente la sussistenza agli atti di elementi che, a prescindere da quelli acquisiti in occasione dell’accesso illegittimamente autorizzato, fossero idonei a comprovare la fondatezza della pretesa fiscale. Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e ss. c.p.c., oltre che vizio di motivazione, i ricorrenti rilevano che erroneamente i giudici d’appello, pur avendo in motivazione
dichiarato che le spese di giudizio andavano compensate, avevano poi in dispositivo posto le spese a carico dell’Agenzia.
La censura e’ in parte infondata e in parte inammissibile. In particolare, non risulta sussistente la denunciata violazione dell’articolo 91 e ss. c.p.c., ne’ nella esposizione del motivo risultano addotti argomenti a sostegno della sussistenza del suddetto error in
iudicando. Quanto al denunciato vizio di motivazione, da intendersi nella specie come contrasto (insanabile) tra motivazione o dispositivo, piuttosto che come contraddittorieta’ (tra diverse parti) della motivazione, anch’esso deve ritenersi insussistente.
In particolare, ad una attenta lettura della sentenza impugnata, emerge che in motivazione la parte relativa alla compensazione delle spese risulta (in parte) cancellata con un tratto di penna e su di essa risultano aggiunte alcune parole non chiaramente tutte leggibili neppure nella copia conforme della sentenza depositata in atti, restando pero’ sicuramente leggibile l’ultima espressione dell’aggiunta a penna, corrispondente alle parole “da dispositivo”.
Deve pertanto ritenersi (interpretando i suddetti tratti grafici anche alla luce di una soccombenza totale e di un dispositivo che, poche righe sotto la motivazione sul punto, reca la condanna alle spese) che il tratto di penna sulla compensazione delle spese sia una cancellazione della disposizione, sostituita dalla frase sovrapposta a penna, contenente una condanna della parte soccombente alle spese, liquidate come “da dispositivo”.
In tal senso interpretata la sentenza, deve escludersi la sussistenza di un contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione in ordine al regime delle spese. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Considerate le alterne vicende della controversia nel merito, si dispone la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
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