CORTE DI CASSAZIONE sentenza n. 4494 del 8 marzo 2016
LAVORO – RAPPORTI DI LAVORO – CLAUSOLA DI RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO – OMESSA INDICAZIONE DELL’ORARIO GIORNALIERO – NULLITA’ PER VIZIO DI FORMA – CONTRATTO A TEMPO PIENO
Svolgimento del processo
Con la sentenza n. 843 depositata il 18 giugno 2012, la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Rossano, condannava la C.I.A. Confederazione italiana agricoltori a corrispondere a C.A.M. l’importo di € 89.136,77, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 1 novembre 2001 sino al soddisfo, determinata all’esito di c.t.u. contabile a titolo di differenza tra la retribuzione per il lavoro part-time percepita per il rapporto di lavoro intercorso dal 1.11.1992 e quella per il lavoro a tempo pieno.
La Corte argomentava che il contratto di lavoro non riportava l’orario giornaliero, né la distribuzione delle ore di lavoro durante i giorni della settimana, che rappresentano condizione di validità della clausola di riduzione di orario. Ciò determinava l’automatica trasformazione in rapporto a full-time, incombendo sul datore di lavoro la prova della realizzazione di una limitazione di orario. Nel caso, tale prova non era stata però fornita ed anzi i testimoni avevano riferito di aver visto la ricorrente lavorare sia al mattino sia al pomeriggio, con ciò confermando l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno.
Per la cassazione della sentenza la CIA- Confederazione italiana agricoltori, ha proposto ricorso, affidato a 2 motivi; A.M. C. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. I motivi di ricorso possono essere così riassunti:
1.1. Con il primo, la parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984 n. 726, conv. con modificazioni nella L. 863 del 1984, e sostiene che la stipulazione di un contratto a tempo parziale senza l’osservanza dei requisiti di forma previsti dalla norma richiamata non comporterebbe l’automatica sostituzione della disciplina relativa a tale tipo di contratto con quella prevista per i rapporti a tempo pieno, dovendo invece farsi applicazione della regola di cui all’articolo 1419 primo comma del codice civile.
1.2. Con il secondo, lamenta travisamento delle risultanze istruttorie e vizio di motivazione, addebitando alla Corte territoriale di avere ritenuto che il rapporto di lavoro si sia svolto a tempo pieno, anziché a tempo parziale, in contrasto con l’esito della prova testimoniale.
Anche nella quantificazione delle pretese differenze retributive la Corte avrebbe errato, disattendendo le conclusioni cui era pervenuto il c.t.u. nominato in primo grado e scegliendo una delle due soluzioni proposte dal c.t.u. nominato in grado d’appello, senza adeguata motivazione.
2. Il ricorso non è fondato.
2.1. Sul primo motivo, la soluzione adottata dalla Corte di merito è coerente con l’interpretazione di questa Corte dell’art. 5 del D.L. 726 del 1984, conv. nella L. 863 dello stesso anno, applicabile ratione temporis con riferimento alla data di stipulazione del contratto in esame, che prevede al comma 2 che “Il contratto di lavoro a tempo parziale deve stipularsi per iscritto. In esso devono essere indicate le mansioni e la distribuzione dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Copia del contratto deve essere inviata entro trenta giorni al competente ispettorato provinciale del lavoro”.
All’esito dell’intervento della Corte Costituzionale realizzato con le sentenze n. 210 del 1992 e n. 283 del 15.7.2005, che ha fornito la lettura della disposizione conforme al dettato costituzionale, si è infatti ritenuto che la nullità per vizio di forma della clausola sulla riduzione dell’orario di lavoro, non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma determina, in ragione dell’inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale e in applicazione della disciplina ordinaria della nullità parziale di cui all’art. 1419, primo comma, cod. civ., la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro (v. Cass. n. 5330 del 10/03/2006). Si è anche aggiunto che in assenza di rapporto “part – time” nascente da atto scritto, esso si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell’orario di lavoro ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della prestazione lavorativa (Cass.23 febbraio 2000, n. 2033, n. 6878 del 13/05/2002, n. 5518 del 2004).
2.2. Il secondo motivo, piuttosto che investire la Corte di Cassazione del controllo dell’iter logico della motivazione, si risolve in sostanza nella richiesta di riesame del materiale istruttorio già esaminato dalla Corte territoriale, inammissibile in questo giudizio di legittimità. Occorre qui ribadire che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. P., estensore 360, comma primo, n. 5 c.p.c. (pur nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134/2012), non equivale a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa equivarrebbe ad un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità: con la conseguente estraneità all’ambito del vizio ,di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un’autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. 28 marzo 2012, n. 5024; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).
2.3. Alle stesse conclusioni d’inammissibilità deve giungersi in merito alla parte del motivo che critica il recepimento da parte della Corte territoriale delle conclusioni della c.t.u. disposta in secondo grado, che disattendevano quelle della c.t.u. disposta nel primo grado di giudizio. Essa difatti viola il principio di autosufficienza del ricorso (che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute negli artt. 366, co. 1, n. 6 e 369, co. 2, n. 4 cod. proc. civ.) considerato che non viene trascritto il contenuto delle consulenze d’ufficio di primo e secondo grado, né le stesse sono allegate al ricorso, ed è del tutto generica in quanto non puntualizza quali sarebbero i passaggi argomentativi recepiti dalla Corte d’appello che si porrebbero in contrasto con la scienza del settore, con l’ambito dell’analisi demandata o con la ricostruzione fattuale recepita dalla Corte.
3. Segue il rigetto del ricorso e la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi professionali, oltre ad e 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.
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