CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 8606 del 02 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – INQUADRAMENTO – MANSIONI SUPERIORI – CAPO REDATTORE – ONERE DELLA PROVA
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 13.6.13 la Corte d’appello di Catanzaro rigettava il gravame di R. – (…) S.p.A. contro la sentenza del 27.9 – 19.10.10 con cui il Tribunale di Cosenza l’aveva condannata a pagare all’ex dipendente R.M. le differenze retributive conseguenti all’espletamento delle superiori mansioni di capo redattore per il periodo 26.6.98 – 31.5.99 e il risarcimento dei danni per demansionamento e mobbing patiti sul luogo di lavoro.
Per la cassazione della sentenza ricorre R. – (…) S.p.A. affidandosi a sei motivi.
Parte intimata resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1 – Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2113, 1362, 1363 e 1367 c.c. in tema di canoni di ermeneutica contrattuale, per avere la sentenza impugnata considerato come mera quietanza a saldo la transazione intervenuta fra le parti il 4.11.04, vale a dire in corso di causa (atteso che l’atto introduttivo del giudizio era stato depositato il 25.3.04 e l’istanza di tentativo obbligatorio di conciliazione era stata presentata fin dal 14.7.03); si tratta invece – lamenta la società ricorrente – di una vera e propria transazione in cui l’odierno controricorrente dichiara di aver esaminato i singoli diritti derivatigli dall’ormai cessato rapporto di lavoro ed accetta la complessiva somma di euro 26.370,00 a titolo di indennità di fine rapporto e di totale e definitiva liquidazione di ogni ulteriore sua spettanza.
Il secondo motivo prospetta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 11 e 22 CCNL per i giornalisti professionisti, dell’art. 1362 c.c. e dei canoni di ermeneutica contrattuale, là dove la gravata pronuncia ha riconosciuto in favore del controricorrente differenze retributive conseguenti all’espletamento delle superiori mansioni di capo redattore nonostante che esse fossero state espletate in sostituzione del capo redattore medesimo (N.) e che tali funzioni vicarie rientrassero proprio nei compiti del vice capo redattore, ossia nella qualifica di R.M., sicché non potevano dare titolo alla superiore qualifica rivendicata.
Il terzo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2087, 2103 e 2697 c.c. e dei principi elaborati in materia di mobbing, atteso che era stato proprio R.M., deluso per la propria mancata nomina a capo redattore, a porsi in una situazione di conflittualità col nuovo capo redattore F.; né – prosegue il ricorso – vi è stato demansionamento alcuno, atteso che al controricorrente è stata mantenuta la qualifica di appartenenza (vice capo redattore) e, addirittura, riconosciuto il trattamento economico superiore (vale a dire quello di capo redattore).
Con il quarto motivo ci si duole di violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. e degli artt. 11, 16 e 6 norme transitorie oltre allegato A e del cit. CCNL, nonché dell’art. 11 stesso contratto e degli artt. 1362 e 1363 c.c., per avere la Corte territoriale ravvisato il demansionamento del controricorrente nel momento in cui gli è stato assegnato l’incarico di “inviato speciale”, che in realtà non è una qualifica contrattuale e, men che meno, una qualifica inferiore a quella già posseduta da R.M., ma un incarico costituente quid pluris rispetto alla qualifica di appartenenza e ciò – contrariamente a quanto ritenuto dai giudici d’appello – anche nel vigore dei contratti collettivi anteriori a quello del 1°.3.01.
Il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2087 e 2697 c.c., oltre che omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere la sentenza impugnata asserito l’esistenza di mobbing e demansionamento o dequalificazione ai danni dell’odierno controricorrente nonostante che non solo egli non avesse patito alcun mutamento in peius delle proprie attribuzioni lavorative, ma avesse ottenuto, accanto al mantenimento della qualifica di vice capo redattore, il massimo trattamento economico e normativo possibile per un giornalista R. (ossia quello per il capo redattore) e delle massime possibilità di autonomia, libertà, iniziativa e accrescimento professionale connesse all’incarico di inviato speciale; quanto all’inattività cui sarebbe stato costretto R.M. – prosegue il ricorso – essa sarebbe stata imputabile allo stesso lavoratore (che aveva rifiutato ogni collaborazione con il capo redattore pur essendogli stata lasciata “carta bianca” a riguardo) e comunque mancava la prova che fosse ascrivibile alla società ricorrente.
Con il sesto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 2059, 1223, 1226, 2697, 2727 e 2729 c.c. e 115, 116, 61, 62, 191 e 194 c.p.c., nella parte in cui la Corte territoriale ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni in favore dell’odierno controricorrente basandosi unicamente e acriticamente sulla espletata CTU, che da sola non può dimostrare l’esistenza delle condotte discriminatorie e persecutorie denunciate dal lavoratore.
2 – Il primo motivo di ricorso è infondato.
Alla luce della giurisprudenza di questa S.C. l’atto con il quale il lavoratore dichiara di non aver nulla a pretendere, a seguito della corresponsione di una determinata somma di denaro, non può considerarsi, per ciò solo, una rinunzia a tutti i diritti scaturenti dal rapporto di lavoro, in quanto tale locuzione è estremamente generica e non sempre è in grado di richiamare l’attenzione del lavoratore sui molteplici diritti che scaturiscono dal rapporto medesimo.
Ne consegue che non può assumere natura di transazione e non è identificabile come la “reciproca concessione” di cui all’art. 1965 c.c. la quietanza liberatoria sottoscritta dal lavoratore, la cui natura giuridica è quella di atto giuridico in senso stretto, mentre la rinuncia e la transazione sono negozi.
La rinuncia de! lavoratore presuppone, per la propria validità ed efficacia, che questi abbia l’esatta rappresentazione dei diritti di credito di sua spettanza, che sia perfettamente consapevole che nulla ne infici la legittimità e che, ciò nonostante, volontariamente intenda privarsi della totale o parziale realizzazione delle varie ragioni creditorie, specificamente determinate o almeno determinabili.
In breve, la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa deve essere intesa, di regola, come semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell’interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti e, pertanto, alla stregua di una dichiarazione di scienza priva di efficacia negoziale.
È pur vero che è possibile ravvisare gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione ove, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione o desumibili aliunde, risulti che la parte l’abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 18094/15).
Nondimeno, si tratta d’un accertamento che richiede una ricostruzione in punto di fatto e un apprezzamento di significato riservati al giudice di merito (cfr., ex aliis, Cass. n. 19831/13; Cass. n. 1657/08), censurabili in sede di legittimità soltanto per vizi della motivazione o per violazione dei criteri dell’ermeneutica contrattuale.
Nel caso in esame, nonostante il richiamo agli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c., non emergono né un travisamento del senso letterale della dichiarazione de qua né un’incoerenza della sua complessiva interpretazione rispetto a talune affermazioni presenti nell’atto in parola; né – infine – la sua qualificazione come mera quietanza a saldo lo priva della possibilità di produrre qualche effetto (quanto meno sul piano probatorio dell’importo percepito).
Quanto al mancato rilievo che l’atto in questione è intervenuto il 4.11.04, vale a dire in corso di causa (atteso che il ricorso introduttivo del giudizio era stato depositato il 25.3.04 e l’istanza di tentativo obbligatorio di conciliazione era stata presentata fin dal 14.7.03), si osservi che ciò non integra una violazione dei canoni ermeneutici e neppure di quello di cui al co. 2° dell’art. 1362 c.c., per l’assorbente rilievo che, anche a prescindere dalla giurisprudenza che ne esclude l’applicabilità agli atti unilaterali (cfr. Cass. n. 13970/05; Cass. n. 7973/02), resta un criterio sussidiario rispetto a quello letterale (cfr. Cass. n. 11364/08), che nel caso di specie i giudici di merito hanno inteso (con apprezzamento di fatto non surrogabile da questa S.C.) militare univocamente nel senso della mera quietanza.
Da ultimo, è appena il caso di evidenziare l’ininfluenza nel caso di specie del precedente di Cass. n. 15891/05 invocato dalla società ricorrente, vuoi perché in esso il controllo sulla motivazione si è svolto ai sensi del previgente testo dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c., vuoi perché è stato ritenuto corretto l’utilizzo a fini interpretativi anche del comma 2° dell’art. 1362 c.c., avendo i giudici di merito ritenuto (con valutazione insindacabile in sede di legittimità) che in quel caso fosse necessario, per ricostruire l’esatta volontà del dichiarante, applicare congiuntamente i due criteri ermeneutici previsti nell’art. 1362 c.c..
3 – Il secondo motivo di ricorso va disatteso perché l’impugnata sentenza ha accertato che le superiori mansioni di capo redattore sono state esercitate dall’odierno controricorrente anche quando il N. era presente e, per di più, in via pressoché esclusiva, di guisa che perde rilievo l’obiezione secondo cui le mansioni vicarie rientrano nei compiti del vice capo redattore, in quanto le funzioni vicarie per lo stessa natura hanno carattere meramente sostitutivo di personale assente.
4 – Il terzo e il quinto motivo di ricorso possono esaminarsi – e rigettarsi – congiuntamente perché, ad onta dei richiami normativi in essi contenuti, in realtà sostanzialmente sollecitano soltanto un riesame nel merito delle risultanze istruttorie, il che è inibito anche (e a maggior ragione) dal vigente testo dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. nel testo modificato dall’art. 54 d.l. 22.6.2012 n. 83, convertito in legge 7.8.2012 n. 134, applicabile ratione temporis nel caso di specie (vista la data di deposito della sentenza impugnata).
Infatti, con la nuova formulazione dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. il legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all’originaria formulazione dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. del codice di rito del 1940.
Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053, le S.U. di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di “minimo costituzionale”, ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.
Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c.
Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.
Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito.
Secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).
Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti.
A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).
Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c.: il ricorso deve non solo indicare chiaramente il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma deve indicare il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tate fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.
5 – Il quarto motivo è infondato.
L’impugnata sentenza ha espressamente rilevato che la qualifica di inviato speciale era una qualifica contrattualmente inferiore a quella posseduta dall’odierno controricorrente e che solo a decorrere dal 1°.3.01 (cioè da epoca successiva al lamentato demansionamento) è divenuta un mero incarico.
L’essere quella di inviato speciale una qualifica contrattuale (almeno all’epoca del lamentato demansionamento) è affermazione che già altre volte si rinviene nella giurisprudenza di questa S.C. (cfr. Cass. n. 6744/12; Cass. n. 1245/91) e che risulta conforme all’art. 11 del CCNL al tempo vigente, concernente le qualifiche e i relativi trattamenti stipendiali.
In particolare, in esso si prevede espressamente che “Ai giornalisti ai quali siano state assegnate come mansioni ordinane quelle di prestare la propria opera in servizi di inviato speciale, le norme del presente contratto si applicano con il trattamento previsto per il capo servizio”, che è – appunto – una delle qualifiche contrattuali, come tale espressamente considerata dal citato art. 11, qualifica inferiore a quella di vice capo redattore già posseduta dall’odierno controricorrente.
Dunque, la trasformazione della qualifica di inviato speciale in un mero incarico funzionale decorre solo dal 2001, cioè da epoca successiva ai fatti per cui è processo.
6 – Anche il sesto motivo è infondato.
Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, la sentenza impugnata ha accertato il demansionamento e le condotte discriminatorie e persecutorie denunciate dal lavoratore non già mediante CTU, ma in virtù delle risultanze istruttorie.
La CTU è stata correttamente valorizzata soltanto al fine di verificare le patologie lamentate e il loro nesso causale rispetto alla complessiva condotta datoriale di cui s’è detto.
A sua volta l’elaborato peritale si è basato non solo sulla documentazione medica in atti e sul colloquio libero con il lavoratore, ma anche e soprattutto sui test psicologici valutativi della sua personalità, su una visita psichiatrica e sull’esito delle prove dichiarative acquisite.
A tale riguardo deve ricordarsi che la sentenza che abbia aderito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è censurabile in sede di legittimità solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica (la cui fonte va indicata dal ricorrente) o di omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.
Al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico-formale, che si traduce, quindi, in un’inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v., e pluribus, Cass. n. 1652/12; Cass. n. 26558/11; Cass. 29.4.09 n. 9988; Cass. 3.4.08 n. 8654).
Con il ricorso in esame non vengono dedotti vizi logico-formali che si concretino in deviazioni dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni manifestamente illogiche o scientificamente errate, né si indica quali necessari accertamenti strumentali siano stati – in ipotesi – omessi.
Malgrado i richiami normativi esplicitati nell’intestazione del mezzo di impugnazione, in realtà la società ricorrente si limita a svolgere soltanto osservazioni concernenti il merito dell’accertamento peritale, non deducibili innanzi a questa Corte Suprema.
7 – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater d.P.R. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.
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