CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 2741 depositata il 23 gennaio 2018
Reati tributari – Omesso versamento ritenute oltre la soglia di punibilità – Responsabilità penale – Imputazione a tutti i componenti del consiglio di amministrazione
MASSIMA
Per i fatti antecedenti alla modifica legislativa (ad opera del d. Igs. n. 158 del 2015, art. 7) dell’art. 10 bis del d. Igs n. 74 del 2000 è richiesta la prova del rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro non essendo sufficiente la dichiarazione (c.d. mod. 770), ai sensi dell’art. 2, comma 4, del cod. pen.; in sede di valutazione del “fumus commissi delicti”, per il sequestro preventivo per equivalente, il giudice del riesame può tuttavia ritenere sussistente il fumus dalla dichiarazione (770) e da altri elementi, con motivazione adeguata non sindacabile in Cassazione ai sensi dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. che ammette il ricorso solo per violazione di legge
Ritenuto in fatto
1. I sigg.ri T.A., T.F. e T.R. ricorrono per l’annullamento dell’ordinanza del 25/05/2017 del Tribunale di Lecco che, in accoglimento dell’appello cautelare del pubblico ministero e sulla ritenuta sussistenza indiziaria del reato di cui all’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, loro ascritto perché, quali componenti del consiglio di amministrazione, avevano omesso il versamento delle ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti della società «S. S.r.l.» per un ammontare complessivo di € 168.839,62 nell’anno di imposta 2014, ha disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, di beni in loro disponibilità per un ammontare corrispondente al profitto del reato.
1.1. Con il primo motivo eccepiscono l’erronea applicazione degli artt. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, 40, cod. pen., 27, Cost..
Lamentano, in particolare, l’estensione della responsabilità all’intero consiglio di amministrazione per l’omesso versamento di ritenute certificate (e sottoscritte) dal solo legale rappresentante della società.
1.2. Con il secondo, deducendo che il reato di omesso versamento presuppone l’effettivo rilascio delle certificazioni ai sostituiti, eccepiscono l’erronea applicazione dell’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, avendo il Tribunale ritenuto la sussistenza dei gravi indizi di reato dalla pura e semplice dichiarazione di sostituto di imposta.
1.3. Con il terzo motivo, deducendo che manca la dimostrazione della incapienza delle casse societarie, eccepiscono l’erronea applicazione degli artt. 321, cod. proc. pen., 12-bis, d.lgs. n. 74 del 2000.
Considerato in diritto
2. I ricorsi sono infondati.
3. Il primo motivo pone il tema della responsabilità del componente del consiglio di amministrazione della società (nel caso di specie) di capitali per l’omesso versamento delle ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti, certificate e dichiarate dal presidente del consiglio.
3.1. Innanzitutto deve essere esclusa la fondatezza della tesi difensiva secondo la quale obbligato al versamento delle ritenute è solo colui che le ha certificate e/o dichiarate. Il tenore letterale della fattispecie incriminatrice non legittima tale conclusione posto che la certificazione delle ritenute (ovvero la loro dichiarazione) rileva solo quale fatto che qualifica l’oggetto materiale della condotta omissiva (le ritenute, appunto), non essendo richiesta l’identità soggettiva tra il sottoscrittore della certificazione/dichiarazione e l’autore dell’omissione. Ciò costituisce, del resto, la inevitabile conseguenza dello scollamento tra il “termine lungo”, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, e quello “ordinario/periodico” (il giorno 16 del mese successivo alla corresponsione della retribuzione) previsto dall’art. 18, d.lgs. n. 241 del 1997. Ne consegue che penalmente responsabile dell’omesso versamento è il legale rappresentante in carica al momento della scadenza del termine “lungo” previsto dall’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, a prescindere dal fatto che ricoprisse o meno tale carica al momento della presentazione della dichiarazione di sostituto di imposta ovvero della sottoscrizione e del rilascio delle certificazioni ai sostituiti. Ciò deriva, come esattamente osservato nell’ordinanza impugnata, dalla natura istantanea ed unisussistente del reato di cui all’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, che si consuma alla data di scadenza del cd. “termine lungo” previsto dalla norma, non un momento prima. Come già autorevolmente insegnato da questa Corte, infatti, «fino alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno precedente, il comportamento omissivo del contribuente non è penalmente rilevante, e la condotta criminosa si realizza e consuma solo nell’istante in cui, alla detta scadenza, si registri un’omissione del versamento che (indipendentemente dalle modalità del suo formarsi) superi la soglia minima prevista», ciò perché «la condotta penalmente rilevante non è l’omesso versamento delle ritenute nel termine previsto dalla normativa tributaria, ma il mancato versamento delle ritenute certificate nel maggiore termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale relativa al periodo di imposta dell’anno precedente» (Sez. U. n. 37425 del 28/03/2013, Favellato).
3.2. Deve altresì essere esclusa la fondatezza dell’impostazione difensiva che fa leva sulla inesistenza, a carico dell’amministratore, dell’obbligo indiscriminato di impedire la consumazione del reato da parte dell’altro amministratore che agisca nell’ambito del settore di specifica competenza. Nel caso in esame, infatti, i singoli componenti del consiglio di amministrazione non sono chiamati a rispondere del reato omissivo in conseguenza dell’applicazione dell’art. 40, cpv., cod. pen., e dunque quali garanti dell’adempimento altrui, bensì quali destinatari diretti dell’obbligo di versamento. Trattandosi di società a responsabilità limitata, se, come nel caso di specie, l’ordinaria amministrazione è affidata a più persone disgiuntamente, ciascun amministratore è autonomamente e singolarmente in grado di porre in essere gli atti estintivi delle obbligazioni che impegnano la società (arg. ex artt. 2475, comma 3, e 2257, cod. civ.). Il pagamento dell’obbligazione tributaria, peraltro, costituisce atto giuridico che qualunque amministratore può validamente compiere, non trattandosi di atto di gestione in senso stretto. La suddivisione interna di competenze, dunque, oltre a non essere opponibile ai terzi, non limita la capacità del singolo amministratore di compiere atti giuridici estintivi delle obbligazioni, a maggior ragione se – come deducono gli stessi ricorrenti – al presidente del consiglio di amministrazione non era stata conferita alcuna specifica delega tributaria. Il riparto interno di competenze, effettuato nel caso di specie con delibera assembleare, non limita, né esclude il potere di ciascun amministratore, titolare, come già detto, del «potere di firma libera e disgiunta» (così il ricorso), di compiere atti di ordinaria amministrazione di qualsiasi genere, anche, in ipotesi, estranei allo specifico settore tecnico di competenza. La divisione di compiti ha natura esclusivamente organizzativa e interna ma non si traduce in un limite al potere di rappresentanza generale della società (art. 2475-bis, cod. civ.) che spetta a ciascun amministratore in quanto tale. Né può avere alcuna rilevanza, ai fini della pretesa limitazione della responsabilità omissiva, il fatto che i singoli amministratori/ricorrenti non abbiano mai amministrato la società in modo paritetico e congiunto. Non si tratta di responsabilità oggettiva, come lamentano i ricorrenti, né fondata su un rapporto di causalità omissivo presunto poiché ai fini della integrazione del reato è pur sempre necessario il dolo la cui insussistenza, in questa fase cautelare, oltre a poter esser affermata quando appaia evidente (il che non è), non è comunque motivo di ricorso.
4. Il secondo motivo è infondato.
4.1. E’ noto l’ormai consolidato indirizzo di questa Corte secondo il quale il reato di omesso versamento delle ritenute certificate presenta una componente omissiva, rappresentata dal mancato versamento nel termine delle ritenute effettuate, ed una precedente componente commissiva, consistente, a sua volta, in due distinte condotte, costituite, nella versione anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 7, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. n. 158 del 2015, dal versamento della retribuzione con l’effettuazione delle ritenute e dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni prima dello spirare del termine previsto per la presentazione della dichiarazione quale sostituto d’imposta e che la prova dell’elemento costitutivo rappresentato dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, il cui onere incombe all’accusa, non può essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro. Tale approdo interpretativo si base sulle seguenti considerazioni: a) il modello 770 e la certificazione rilasciata ai sostituti sono documenti disciplinati da fonti normative distinte, rispondono a finalità non coincidenti, e non devono essere consegnati o presentati contestualmente; b) da nessuna casella o dichiarazione contenuta nei modelli 770 emerge che il sostituto attesti (sia pure indirettamente o implicitamente) di avere rilasciato ai sostituiti le relative certificazioni; c) la valenza indiziaria della sola presentazione del modello 770, ai fini della prova del rilascio delle certificazioni, non solo non è sorretta da alcuna massima di esperienza e dall’id quodplerumque accidit, ma è anche implicitamente, e indiscutibilmente, esclusa dal legislatore, che altrimenti avrebbe molto più semplicemente punito con la sanzione penale l’omesso versamento (oltre una certa soglia) di ritenute risultanti dal modello 770 e non già di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti (Sez. 3, n. 40526 del 08/04/2014, G.).
4.2. La validità di tale ultima considerazione trova conferma nella recente modifica apportata dal legislatore all’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, che ha esteso la fattispecie penale anche alle ipotesi di omesso versamento delle ritenute <<dovute sulla base della stessa dichiarazione» (art. 7, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 158 del 2015) e ha conseguentemente mutato il titolo del reato da «omesso versamento di ritenute certificate» a «omesso versamento di ritenute dovute o certificate» (cfr., al riguardo, Sez. 3, n. 10509 del 16/12/2016, Pisu, Rv. 269141, secondo cui l’estensione del reato anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della sola dichiarazione mod. 770 va interpretata, “a contrario”, come dimostrazione che la precedente formulazione del citato art. 10-bis non soltanto racchiudesse nel proprio parametro di tipicità solo l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla predetta certificazione, ma richiedesse anche, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del suo rilascio ai sostituiti; nello stesso senso anche Sez. 3, n. 10104 del 07/01/2016, Grazzini, Rv. 266301).
4.3. Tale indirizzo, però, non esclude affatto la valenza indiziarla della dichiarazione del sostituto di imposta che se, come detto, non può assurgere a prova del reato di omesso versamento delle ritenute certificate, tuttavia non esclude che possa costituirne indizio, sufficiente ai fini della adozione di un provvedimento cautelare reale (in termini, Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193117, secondo cui le condizioni generali per l’applicabilità delle misure cautelari personali, indicate nell’art. 273 cod. proc. pen., non sono estensibili, per le loro peculiarità, alle misure cautelari reali; ne consegue che ai fini della doverosa verifica della legittimità del provvedimento con il quale sia stato ordinato il sequestro preventivo di un bene pertinente ad uno o più reati, è preclusa ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravità degli stessi). Come autorevolmente affermato da questa Corte, ancorché in tema di confisca ai sensi dell’art. 12-sexies, commi 1 e 2, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 1992 n. 356, le condizioni necessarie e sufficienti per disporre il sequestro preventivo di beni confiscabili consistono, quanto al “fumus commisi delicti”, nell’astratta configurabilità, nel fatto attribuito all’indagato e in relazione alle concrete circostanze indicate dal P.M., di una delle ipotesi criminose previste dalla norma citata, senza che rilevino né la sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità e, quanto al “periculum in mora”, coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene, nella presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, Montella, Rv. 226492)
4.4. Tale principio è già ripreso da questa Corte con sentenza Sez. 3, n. 48591 del 26/04/2016, Pellicani, Rv. 268492, secondo cui «in tema di omesso versamento di ritenute certificate, se per i fatti antecedenti alla modifica apportata dall’art. 7 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, all’art. 10 bis del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è richiesta per un giudizio di colpevolezza la prova del rilascio ai sostituti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro, non essendo sufficiente la dichiarazione proveniente dal datore di lavoro (c.d. mod. 770), la sussistenza del “fumus commissi delicti”, ai fini dell’applicazione del sequestro preventivo per equivalente, può, tuttavia, essere desunta anche dalla indicata dichiarazione o [infra] da altri elementi, purché se ne fornisca motivazione adeguata».
4.5. L’errore nel quale cadono i ricorrenti è quello di pretendere, ai fini della cautela reale, «una puntuale e coerente verifica delle risultanze processuali, laddove possano portare ad un giudizio prognostico di probabile condanna dell’imputato». Ma tale giudizio prognostico, come detto, non è necessario ai fini della adozione del sequestro preventivo, nemmeno se finalizzato alla confisca per equivalente, come precisato da questa Corte che, riallaciandosi ai principi sopra enunciati, ha ribadito che non occorre a tal fine un compendio indiziario che si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen., ma è comunque necessario che il giudice valuti la sussistenza del “fumus delicti” in concreto, verificando in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’esistenza del reato astrattamente configurato, in quanto la “serietà degli indizi” costituisce presupposto per l’applicazione delle misure cautelari (Sez. 3, n. 37851 del 04/06/2014, Parrelli, Rv. 260945).
4.6. I ricorrenti lamentano, altresì, che violando il “dictum” di questa Corte (Sez. 3, n. 48591 del 2016, cit.), il Tribunale del riesame non ha indicato gli ulteriori elementi, diversi dalla mera dichiarazione di sostituto di imposta, richiesti a fini indiziari del delitto di cui all’art. 10-bis, d.lgs. n. 74 del 2000. Il rilievo non è corretto: il tribunale spiega che oltre alla dichiarazione sono stati allegati, a campione, due certificazioni rilasciate ad altrettanti sostituiti, sicché la questione posta non riguarda esattamente l’omessa indicazione di ulteriori elementi, quanto, piuttosto, la loro attitudine a valere quali indizi del reato; l’eccezione, dunque, riguarda il modo con cui tali elementi sono stati valutati, così traducendosi in un vero e proprio vizio di motivazione, inammissibile ai sensi dell’art. 325, cod. proc. pen..
4.7. L’occasione è però utile per precisare che la massima tratta dalla sentenza citata non comporta le conseguenze pratiche che i ricorrenti hanno inteso trarne. La motivazione così recita: «come adeguatamente motivato nel provvedimento impugnato, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità (e quindi con motivazione che non può ritenersi apparente o assente), dalla dichiarazione è desumibile anche il rilascio delle certificazioni, ai soli fini del fumus cautelare, con apprezzamento di merito insindacabile in questa sede di legittimità per i sopra visti limiti del ricorso in Cassazione, in sede di sequestro, solo per violazione di legge. Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto; “Per i fatti antecedenti alla modifica legislativa (ad opera del d. Igs. n. 158 del 2015, art. 7) dell’art. 10 bis del d. Igs n. 74 del 2000 è richiesta la prova del rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro non essendo sufficiente la dichiarazione (c.d. mod. 770), ai sensi dell’art. 2, comma 4, del cod. pen.; in sede di valutazione del “fumus commissi delicti”, per il sequestro preventivo per equivalente, il giudice del riesame può tuttavia ritenere sussistente il fumus dalla dichiarazione (770) e da altri elementi, con motivazione adeguata non sindacabile in Cassazione ai sensi dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen. che ammette il ricorso solo per violazione di legge”».
Appare dunque evidente che quel che conta, ai fini della sussistenza indiziaria del reato di omesso versamento delle ritenute certificate, è che dalla dichiarazione possa desumersi il rilascio delle certificazioni, non che oltre alla dichiarazione siano richiesti elementi ulteriori; per questo il principio è stato massimato correttamente interpretando in senso disgiuntivo la “e” che sembrerebbe richiedere, altrimenti, elementi ulteriori rispetto alla dichiarazione.
Orbene, come detto, la indicazione di alcune certificazioni estrapolate a campione è più che sufficiente a fini della sussistenza indiziaria del reato. Ogni ulteriore deduzione difensiva in ordine alla mancata corresponsione delle retribuzioni ha natura fattuale ed è inammissibile in questa sede.
5. Il terzo motivo è inammissibile.
5.1. I ricorrenti lamentano che il Tribunale non avrebbe potuto desumere l’impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto a danno della società a causa dall’incapienza dei relativi conti, essendo stata dichiarata fallita.
5.2. Il rilievo così come formulato riguarda non tanto l’errata applicazione del principio secondo il quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere adottato solo quando sia impossibile il sequestro diretto del profitto, quanto il malgoverno della logica che presiede alla sua applicazione.
Si tratterebbe, dunque, di un classico vizio di motivazione che non può essere censurato in questa sede. E tuttavia, il tribunale non ricollega l’impossibilità di procedere al sequestro diretto del profitto del reato al sopravvenuto fallimento della società, trattandosi di vicenda della vita dell’impresa che non impedisce, di per sé l’adozione della misura cautelare reale, quanto, piuttosto, alla dimostrata «incapienza delle casse della fallita (…) confermata dal tenore delle produzioni della difesa (…) dove si dà conto [del fatto] che la consociata spagnola (…) aveva coinvolto la società italiana in una crisi di liquidità (…) provocata dalla appropriazione indebita degli incassi dei clienti stranieri». E’ questo il fatto che rileva, non il fallimento in sé. Sostenere in questa sede che «tale valutazione appare azzardata» ed aggiungere che l’accusa non ha fornito la prova dell’incapienza delle casse sociali, equivale a introdurre elementi spuri non valutabili ai fini dello scrutinio di legittimità che deve essere limitato, in questa fase, alla sola violazione di legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali; manda alla Cancelleria per l’esecuzione.
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