CORTE DI APPELLO ROMA – Ordinanza 02 ottobre 2017
Lavoro subordinato – Trasferimento d’azienda – Inefficacia, nullità, inopponibilità della cessione di ramo d’azienda – Inottemperanza del datore di lavoro cedente all’ordine di ripristino del rapporto di lavoro – Disciplina della mora credendi – Codice civile, combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217
Rilevato che
la società appellante ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale dì Roma, in funzione di giudice del lavoro, su istanza dell’odierno appellato, con cui è stato intimato il pagamento della somma ivi indicata a titolo di retribuzioni maturate e non pagate nel periodo gennaio-dicembre 2011, in virtù di precedente sentenza del 31/01/2007, pronunziala dal Tribunale di Roma, con cui erano stati dichiarati illegittimi i provvedimenti di trasferimento dei lavoratori (fra cui l’odierno appellato) da T. Italia spa alla H.P. srl e per l’effetto T. Italia spa era stata condannata alla loro reintegrazione in servizio nelle medesime mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti;
– tra i motivi di opposizione T. Italia spa ha eccepito l’insussistenza del credito, posto che il lavoratore, nello stesso periodo rivendicato, era stato regolarmente retribuito da H.P. S.r.l. (cessionaria del ramo d’azienda), sicché il riconoscimento di un ulteriore credito retributivo avrebbe determinato un’inammissibile duplicazione di retribuzione, senza alcuna giustificazione legata ad una prestazione lavorativa, che era stata resa solo in favore di H.P. S.r.l. e non di essa Telecom Italia spa;
– gli stessi motivi sono stati reiterati in appello, con cui la società si duole che il Tribunale, nei rigettare l’opposizione, abbia erroneamente ritenuto sussistente un obbligo retributivo, pur in mancanza della prestazione lavorativa;
– T. Italia spa assume che, sulla base del «diritto vivente» espresso dalla Suprema Corte di Cassazione, in caso di mancata riassunzione del dipendente a seguito della sentenza con cui sia stata dichiarata inefficace la cessione del ramo d’azienda ex art. 2112 c.c. residua soltanto un’obbligazione avente ad oggetto il risarcimento del danno e non già la retribuzione:
– la società deduce, altresì, che nessun danno avrebbe sofferto l’appellato, in quanto – nel periodo al quale si riferisce il provvedimento monitorio – ha regolarmente percepito la retribuzione dalla società cessionaria del ramo d’azienda.
Tutto ciò rilevato,
Osserva
1. Va preliminarmente ricordato che T. Italia spa non ha adempiuto la precedente pronunzia del Tribunale di Roma del 2007, con cui è stato ordinato di reintegrare l’odierno appellato nelle sue mansioni espletale precedentemente al disposto trasferimento d’azienda e non ha ripristinato i rapporti con i dipendenti a suo tempo ceduti, che hanno comunque offerto le proprie prestazioni lavorative.
Come si ricava dagli atti. la predetta sentenza del 2007 è stata dapprima confermata da questa Corte d’Appello con sentenza del 03/05/2011 ed infine è passata in giudicato a seguito di Cass. n. 13617/2014.
2. Fin dalla propria sentenza del 18/11/2014, n. 8776 (nella causa Telecom Italia spa c/P.L.), questa Corte ha evidenziato che è vero che il lavoro subordinato, nella nozione data dall’art. 2094 c.c., ha prestazioni legate (sia sul piano genetico, che su quello funzionale) da un nesso di corrispettività. Pertanto, è vero che secondo la disciplina generale del contratto e delle obbligazioni, se viene meno una prestazione, viene meno pure l’altra per difetto di giustificazione causale.
La deroga a questa regola generale è certo possibile, purché espressamente prevista dal legislatore, in quanto ha carattere eccezionale (costituendo, appunto, eccezione alla regola).
Si tratta di fattispecie in cui la prestazione lavorativa manca per fatti e vicende che interessano esclusivamente la sfera del lavoratore (infortunio, malattia, gravidanza, puerperio, etc.) e che coinvolgono interessi e valori tutelati dalla Costituzione, proprio per questo, dunque, meritevoli di particolare protezione.
Sul rapporto di lavoro subordinato possono incidere, inoltre, fatti e vicende che interessino la sfera produttiva del datore di lavoro (cassa integrazione guadagni), ma in tal caso vi è un intervento pubblico in funzione integrativa del contratto, perché si tratta di fatti e vicende (le cc.dd. cause integrabili) in nessun modo imputabili a responsabilità (neppure oggettiva) del datore di lavoro, ma è altresì vero che tutto ciò non rileva nel caso in esame, in cui la disciplina applicatile è quella della moro credendi.
Infatti, a seguito della sentenza con cui viene dichiarata l’illegittimità del trasferimento d’azienda con i connessi rapporti di lavoro (secondo Cass. 06/07/2016, n. 13791 si tratterebbe di una vera e propria azione di nullità ex art. 1418 c.c. per contrasto con norme imperative), questi devono ritenersi ricostituiti – ex tunc – alle dipendenze del cedente (id est Telecom Italia spa) sul piano dei vinculum iuris. Se di fatto, invece, il rapporto di lavoro continua con il cessionario, si è al cospetto di una fattispecie c.d. di fatto rilevante ex art. 2126 c.c., che tuttavia, proprio in quanto solo di fatto, non è idonea ad incidere in senso giuridicamente ostativo sugli effetti ripristinatoti della sentenza e, quindi, sul rapporto di lavoro (c.d. di diritto) che quella sentenza ha ricostituito alle dipendenze del cedente.
Pertanto, al lavoratore (ceduto) va certo riconosciuto il diritto alla retribuzione nei confronti del cessionario in ragione della prestazione lavorativa di fatto resa, perché in tal senso dispone l’art. 2126 c.c. Questo non implica, però, la perdita del diritto alla retribuzione nei confronti del cedente per i periodi successivi alla sentenza medesima, in quanto nei confronti del cedente il vincolo giuridico è stato ormai formalmente ricostituito dalla stessa sentenza e vi è stata offerta di prestazioni lavorative (fatto, questo, pacifico), da ritenersi comunque integrata – come costituzione in mora – dalla notifica del ricorso che, a suo tempo, introdusse il giudizio conclusosi con la sentenza di accertamento dell’illegittimità (rectius dell’inefficacia o dell’inapponibilità) del trasferimento di ramo d’azienda.
A questo riguardo va precisato che, nella controversia in esame, oggetto del decreto ingiuntivo sono le retribuzioni maturate dall’odierno appellato per un periodo successivo alla sentenza del Tribunale di Roma dell’anno 2007, con cui erano stati dichiarati illegittimi i provvedimenti di trasferimento dei lavoratori alla H.P. srl e Telecom Italia spa era stata condannata alla loro reintegrazione in servizio nelle medesime mansioni svolte o in altre equivalenti.
D’altro canto, contrariamente alla tesi della società appellante, non può essere invocata la giurisprudenza sul contratto a termine e sulla non retribuibilità dei cc.dd. intervalli non lavorati. In quel caso, infatti, il risarcimento del danno rilevante è pur sempre quello riferito al periodo anteriore alla sentenza di accertamento della nullità. Anzi, quella stessa giurisprudenza postula che, dopo la sentenza con cui la clausola del termine finale sia dichiarata nulla, l’obbligo a carico del datore di lavoro acquisti natura retributiva e non più risarcitoria (in tali termini v. espressamente C. Cost. n. 303/2011 sull’art. 32 L. n. 183/2010; Cass. n. 1412/2012; Cass. n.19295/2014).
E allora, proprio dagli insegnamenti dì quella giurisprudenza può ricavarsi il seguente principio di diritto: nel caso di trasferimento d’azienda (o di un suo ramo) dichiarato illegittimo. inefficace o comunque non opponibile ai lavoratori ceduti (e quindi trasferiti alle dipendenze del cessionario), il loro rapporto di lavoro viene ricostituito ex tunc alle dipendenze del cedente; tuttavia, il diritto del lavoratore ceduto nei confronti del cedente per il periodo intercorrente fra la cessione dell’azienda (o di un suo ramo) e la sentenza (di merito) di accertamento della sua illegittimità o inopponibilità ha natura risarcitoria, mentre per il periodo successivo alla sentenza medesima acquista natura retributiva, come tale insensibile ad eventuali guadagni ottenuti aliunde, anche sub specie di retribuzioni corrisposte dal cessionario in qualità di datore di lavoro c.d. di fatto ex art. 2126 c.c.
Orbene, quello che si configura a carico del cedente (dopo la sentenza predetta) è un obbligo retributivo (oltre che eventualmente risarcitorio per gli eventuali danni patiti dal lavoratore, come ad esempio una minore retribuzione percepita presso il cessionario). Ne consegue che non rileva l’aliunde perceptum, espressione di quel criterio della compensatio lucri cum damno applicabile solo ai diversi fini della quantificazione del danno risarcibile, in omaggio al principio dell’integrale riparazione del danno senza iniusta locupletatio da parte del danneggiato (cfr. ex multis Cass. 02/03/2010, n. 4950; Cass. sez. un. 25/11/2008 n. 28056).
Infatti, tale criterio – all’evidenza – non è applicabile alla diversa fattispecie dell’obbligazione retributiva, la quale trova esclusivo titolo nell’originario rapporto di lavoro (c.d. di diritto) e nella sentenza che lo ha ricostituito come vinculum iuris.
Neppure può essere invocata quella giurisprudenza (citata dalla società appellante: Cass. 17/07/2008, n. 19740) sulla natura risarcitoria e non retributiva della responsabilità gravante sul datore di lavoro cedente nel caso di accertata illegittimità (o inopponibilità) della cessione del ramo d’azienda. Come si evince chiaramente dalla relativa motivazione, in quella pronunzia la Suprema Corte – dopo aver correttamente escluso l’applicabilità della speciale disciplina risarcitoria di cui all’art. 18 L. n. 300/1970 – riferisce l’obbligo risarcitorio (regolato dalla disciplina generale delle obbligazioni e della responsabilità contrattuale) al periodo che va dalla cessione del ramo d’azienda alla sentenza che ne accerta l’illegittimità. Ma nulla dice per il periodo successivo, per il quale, dunque, va affermata la natura retributiva dell’obbligo a carico del datore di lavoro, il quale – nonostante la sentenza ripristinatoria dei vinculum iuris – non ricostituisca (sul piano fattuale) i rapporti di lavoro: imputet sibi se dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni (di cui è debitore) senza aver ricevuto la prestazione lavorativa corrispettiva (artt. 1206 e 1207 c.c.).
Risulta evidente, infatti, che in tal caso sussiste pur sempre la corrispettività fra le prestazioni, proprio in quanto ricostituita dalla sentenza, con la peculiarità che una delle due (quella lavorativa), pur disponibile. non viene eseguita per fatto (rifiuto ingiustificato dopo la sentenza di merito) imputabile esclusivamente all’altra parte del rapporto (ossia al datore di lavoro).
3. La difesa della società invoca recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione, nelle quali il principio di diritto risulta così affermato: «Qualora sia dichiarata nulla la cessione di un ramo di azienda, ai lavoratori passati alle dipendenze del cessionorio, e da questi regolarmente retribuiti, non spetta – in carenza di prova di un danno risarcibile ex art. 1218 cod civ. – alcun risarcimento poiché il rapporto di lavoro è proseguito, sebbene soltanto di fatto, con il cessionario e non si è realizzato alcun allontanamento dal posto di lavoro, con conseguente esclusione della tutela di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, “ratione temporis” applicabile» (Cass. 26/06/2014, n. 14542; Cass. 14/07/2014, n. 16096).
Dall’esame delle relative motivazioni (identiche) si evince il richiamo espresso al principio di diritto affermato da Cass. n. 17/07/2008, n. 19740 (sopra vista), che, a sua volta, in motivazione cosi argomentava: «E’, invece, fondato il sesto motivo di ricorso. La soc A. Energia con l’ultimo motivo di appello avevo contestato la pronunzia del giudice di primo grado che l’aveva condannato al pagamento delle differenze retributive e al risarcimento del danno ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella misura di cinque mensilità, evidenziando che la dipendente non aveva perso il posto di lavoro, ma aveva solo cambiato datore in applicazione dell’art. 2112 c.c , non traendone alcun pregiudizio economico. Il giudice di appello, pur affermando correttamente che la nullità della cessione del rapporto di lavoro comporto la prosecuzione dello stesso in capo alla soc. A. nella posizione lavorativa precedentemente occupata dall’attrice, rigettando in toto l’impugnazione non ha modificato la pronunzia del primo giudice che aveva condannata la soc. cedente al risarcimento del danno nella misura di cinque mensilità ed al pagamento delle retribuzioni omesse fino alla reintegra. Nella specie, invece, il rapporto della lavoratrice è proseguito (seppure solo di fatto) con la società acquirente del ramo di azienda, con conservazione per la stessa di tutti i diritti derivanti. Ne consegue che, essendo pacifica la continuazione dell’attività lavorativa ed il godimento della retribuzione, ai lavoratori ceduti non è derivato alcun danno da licenziamento illegittimo, non essendoci stato allontanamento dal posto di lavoro. Conseguentemente i lavoratori avrebbero potuto richiedere il risarcimento del danno per l’illegittima cessione del rapporto di lavoro secondo le norme codicistiche sull’illecito contrattuale (art. 1218 e ss. c.c.) e non già secondo la disciplina speciale posta dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (v. Cass, 6.3.98 n. 2521) Non essendo stata fornita prova di danno, neppure sotto il profilo della perdita delle retribuzioni (o di parte di esse), il motivo deve ritenersi fondato e deve essere accolto».
4. Nella pronunzia dell’anno 2008, appena ricordata, viene affrontato il profilo relativo al contenuto dei poteri decisori del giudice investito della controversia relativa alla nullità (o inefficacia) della cessione d’azienda (o di un suo ramo) nei
confronti dei lavoratori ceduti senza il loro consenso.
Si evidenzia che dall’illecito allontanamento dei lavoratori dall’azienda del cedente deriva un diritto al risarcimento del danno.
Si precisa cbe questo diritto è disciplinato dall’art. 1218 c.c., non potendo essere applicato il regime dell’art. 18 L. n. 300/1970, poiché – contrariamente a quanto postula questa norma – il rapporto di lavoro non si è estinto, ma è proseguito (senza soluzione di continuità) alle dipendenze del cessionario, risultando mutato soltanto il soggetto datore di lavoro.
Si conclude dunque nel senso che, qualora il lavoratore abbia percepito la retribuzione presso il cessionario, il giudice, investito della controversia relativa alla cessione d’azienda, deve rigettare la domanda risarcitoria per insussistenza del danno, salvo che il trattamento retributivo percepito dal lavoratore presso il cessionario sia stato inferiore a quello che sarebbe stato percepito presso il cedente, in tal caso essendo il danno risarcibile pari alla relativa differenza fra i due trattamenti economici.
Tutto questo ragionamento è articolato – va ribadito – assumendo come «punto di vista» quello del giudice investito della controversia relativa alla cessione d’azienda (o di un suo ramo) avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c.
5. Il caso in esame riguarda, invece, il diverso «punto di vista» del giudice chiamato a decidere (ex post) sulle conseguenze che derivano dalla sentenza con cui è stata già dichiarata nulla (o inefficace) la cessione dì ramo d’azienda ed è stata ordinata al cedente la riammissione in servizio e/o la reintegrazione dei lavoratori nelle mansioni svolte prima della cessione medesima.
Va subito detto cbe, non trovando applicazione l’art. 18 L. n. 300/1970 (v. Cass. sopra cit.), questa norma non può essere utilizzata come fondamento normativo della tesi, secondo cui per tutto il periodo (sia per quello anteriore alla sentenza dichiarativa della nullità o inefficacia della cessione, sia per quello successivo alla predetta sentenza e fino all’effettiva riammissione dei lavoratori in servizio presso il cedente) il diritto dei lavoratori illegittimamente ceduti avrebbe natura giuridica di risarcimento dell’eventuale danno patito.
L’art. 18 L. n. 300/1970 rappresenta, infatti, un regime speciale e derogatorio rispetto al diritto comune delle obbligazioni, in tali termini espressamente novellato dalla legge n. 108/1990, e quindi non può essere applicato fuori dai casi espressamente considerati dal legislatore (art. 14 disp.prel.c.c).
6. E’ significativo il fatto che prima di tale novella, non essendo stata qualificata dal legislatore la natura giuridica del previsto diritto del lavoratore alle retribuzioni dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, era consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui occorresse distinguere – proprio sulla base del diritto comune delle obbligazioni – il periodo anteriore alla sentenza (ossia quello dal licenziamento alla sentenza che ne avesse accertato l’illegittimità con pronunzia di annullamento) dal periodo successivo alla medesima. E si era riconosciuta la natura risarcitoria del diritto relativo al primo periodo, mentre si era affermata la diversa natura retributiva di quello relativo al secondo periodo. Ciò sulla base del fatto che, in relazione al primo periodo, quelle conseguenze derivavano dall’illecito commesso dal datore di lavoro, il quale aveva estinto il rapporto di lavoro in modo illegittimo; in relazione al secondo periodo. invece, quelle conseguenze derivavano dalla sentenza di reintegrazione, che ricostituiva il vinculum iuris fra le parti, con conseguente riespansione della lex contractus. Questa distinzione era tanto rilevante che, in caso di riforma della sentenza di reintegrazione e di accertata legittimità del licenziamento nei successivi gradi di giudizio, gli effetti ripristinatori avrebbero comportato l’obbligo del lavoratore di restituire solo quanto ricevuto in relazione al primo periodo, atteso cbe il licenziamento non sarebbe stato più qualificabile come «fatto illecito», ma non pure quanto ricevuto in relazione al secondo periodo – pur non lavorato – dal momento che la ricostituzione del vinculum iuris e della lex contractus (ad opera della sentenza poi riformata) sarebbe rimasta ferma ai sensi dell’art. 2126 c.c.
E quindi il datore di lavoro, qualora dopo la sentenza dì primo grado di reintegrazione non avesse effettivamente in concreto reintegrato il lavoratore, sarebbe ugualmente rimasto debitore delle retribuzioni maturate dalla sentenza di primo grado fino a quella di riforma e, qualora le avesse già pagate, non avrebbe potuto chiederne la restituzione (Cass, n. 1905/1983; Cass. n. 3103/1986; Cass. n. 5562/1989; Cass. n. 3552/1992; Cass. n. 11731/1997; Cass. n. 7267/1998; Cass. n. 13854/1999).
Tutto ciò – va ribadito – in assenza di indicazioni del legislatore (nell’originaria formulazione dell’art. 18 L. n. 300/1970) sulla natura giuridica del diritto del lavoratore illegittimamente licenziato alla tutela patrimoniale e, quindi, applicando le regole del diritto comune delle obbligazioni.
7. Proprio per modificare questo regime il legislatore è poi intervenuto con la legge n. 108/1990, dichiarando espressamente che le conseguenze patrimoniali sono soltanto quelle risarcitorie (sia pure parametrate alle retribuzioni perdute) per entrambi i periodi. Tanto è vero cbe solo a seguito di questa novella legislativa è mutato l’orientamento giurisprudenziale sulle conseguenze restiruttorie dell’eventuale riforma della sentenza di reintegrazione, nel senso che il lavoratore – oggi – dovrà restituire tutto quanto percepito (sempre che non sia stato di fatto reintegrato, altrimenti trovando applicazione l’art. 2126 c.c.), da qualificare in termini di danno, da risarcire in presenza di un illecito (id est il licenziamento ritenuto illegittimo in primo grado) e da escludere, invece, in presenza di un fatto lecito, quale il licenziamento ritenuto ab origine legittimo nei successivi gradi di giudizio (Cass. n. 4943/2003; Cass. n. 7543/2006; Cass. ord. n. 15251/2014).
8. Dunque, proprio dalla modifica dell’art. 18 L. cit. sul punto da parte del legislatore del 1990, si ricava a contrario che, in mancanza di norme derogatorie rispetto al diritto comune delle obbligazioni, è quest’ultimo il regime giuridico da applicare.
9. Ebbene, nella cessione di ramo d’azienda ritenuta nulla (o inefficace o inopponibile) nei confronti del lavoratore l’illegittimo allontanamento di questi dall’azienda del cedente costituisce un fatto illecito fonte di danno risarcibile in relazione al primo periodo, ossia quello che va dalla cessione (che ha determinato il predetto allontanamento illecito) alla sentenza cbe ne accerti la nullità (o l’inefficacia o l’ inopponibilità al lavoratore).
Una volta intervenuta questa sentenza però – e a maggior ragione nel caso, come quello in esame, in cui il giudice non si sia limitato alla declaratoria di nullità (o di inefficacia o di inopponibilità) della cessione, ma abbia pure ordinato la riammissione in servizio e/o la reintegrazione dei lavoratori nelle originarie mansioni a cui erano adibiti presso l’azienda del cedente – il rapporto di lavoro con il cedente viene ricostituito come vinculum iuris, nel senso che viene ripristinato il vigore della lex contractus e, quindi, la corrispettività fra le prestazioni (lavorativa e retributiva).
Ne consegue che da questo rapporto di lavora cosi ricostituito discenderanno gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti e, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione, ovviamente anche nel caso di mora credendi, ossia di mancanza della prestazione lavorativa determinata dal suo rifiuta ingiustificato di riceverla.
Il rifiuto, se può dirsi «giustificato», prima della sentenza, in conseguenza della cessione. in ordine alla quale non sia ancora intervenuto l’accertamento giurisdizionale, è invece per definizione «ingiustificato» dopo la sentenza che abbia ormai accertato la nullità (o l’inefficacia o l’inopponibiIità) della cessione medesima ed abbia ordinato la riammissione in servizio e/o la reintegrazione nelle originarie mansioni.
10. Una conferma di questa ricostruzione si ricava proprio dalla disciplina delle conseguenze patrimoniali della sentenza di accertamento della nullità del termine finale apposto ad un contratto di lavoro subordinato.
Anche in tal caso, prima della riforma introdotta dalla L. n. 183/2010, si riteneva applicabile il regime del diritto comune delle obbligazioni e, pertanto, si riteneva risarcibile il danno pari alle retribuzioni perdute a decorrere dalla costituzione in mora (anche anteriore all’instaurazione del giudizio) fino alla sentenza dichiarativa della nullità (ex multis Cass. n. 15827/2003; Cass. n. 12333/2009), con possibilità di detrarre l’aliunde perceptum in applicazione del criterio della compensatio lucri cum damno.
E’ poi intervenuto il legislatore (art. 32 L. n. 183/2010) per dettare un regime speciale, derogatorio di quello del diritto comune delle obbligazioni. Ma la deroga è stata espressamente limitata al periodo (c.d. intermedio) che va dalla scadenza del termine (poi accertato come) nullo fino alla sentenza dichiarativa della nullità, stabilendo non soltanto che quello del lavoratore è un diritto al risarcimento del danno, ma altresi che questo va liquidato in modo forfettario (senza possibilità di detrarre più l’aliunde perceptum) ed omnicomprensivo entro limiti massimi normativamente imposti (Cass. n. 19295/2014).
Argomentando per esclusione, resta affidato al regime comune delle obbligazioni il periodo successivo alla sentenza dichiarativa della nullità del termine finale: il lavoratore avrà diritto alle retribuzioni derivanti dal rapporto di lavoro «ricostituito» dal giudice che abbia accertato e dichiarato la nullità della clausola relativa al termine finale originariamente apposta al contratto di lavoro subordinato (in termini Cass. n. 19295 cit.).
11. Ed allora, pure nel caso di cessione illegittima di ramo d’azienda, in mancanza di norme derogatorie rispetto al diritto comune delle obbligazioni, non resta che ribadire la diversa naturadei diritti dei lavoratori ceduti in relazione ai due periodi considerati: diritto al risarcimento del danno per illecito allontanamento dal posto di lavoro presso il cedente in relazione al primo periodo, che va dalla cessione alla sentenza che ne accerti la nullità (o l’inefficacia o l’inopponibilità) e ordini al cedente la riammissione in servizio e/o la reintegrazione dei lavoratori nelle originarie mansioni; diritto alle retribuzioni per il ricostituito vinculum iuris in relazione al secondo periodo, che va dalla sentenza dichiarativa della nullità (o inefficacia) della cessione in poi (fino all’effettivo ripristino de facto del rapporto di lavoro da parte del cedente), anche – ed ovviamente nel caso in cui il datore di lavoro rifiuti, in modo ormai ingiustificato, la prestazione lavorativa offerta (art. 1207 c.c.).
12. In senso contrario viene invocata dalla società appellante la circostanza, secondo cui, pur non avendo essa cedente ottemperato alla sentenza dichiarativa della nullità della cessione e di condanna al ripristino del rapporto di lavoro, i lavoratori hanno continuato a lavorare presso il cessionario ed banno continuato perciò a percepire la relativa retribuzione.
Questa circostanza è solo parzialmente rilevante. Il rapporto di lavoro presso il cedente viene ricostituito dalla sentenza sì a posteriori, ma pur sempre ex tunc, dal momento che la sentenza si limita ad accertare l’inesistenza delle condizioni e dei presupposti richiesti dall’art. 2112 c.c. per la cessione del contratto di lavoro senza il consenso del lavoratore ceduto, altrimenti necessario ex art. 1406 c.c.
Ne derivano due conseguenze: il rapporto di lavoro de iure è ricostituito alle dipendenze del cedente e quello con il cessionario deve ritenersi instaurato – e proseguito – ai sensi dell’art. 2126 c.c., per cui per tutto il periodo di esecuzione di questo rapporto c.d. di fatto il lavoratore ha diritto di ricevere la retribuzione.
Ora, poiché – come si è detto – in relazione al primo periodo, nei confronti del cedente, il diritto del lavoratore illegittimamente ceduto senza il suo consenso ha natura risarcitoria (derivante dall’illecito allontanamento dall’azienda del cedente), opera il correttivo della compensatio lucri cum damno. Pertanto nulla spetta al lavoratore – in relazione a questo primo periodo – se il danno patito (retribuzioni perdute presso il cedente) risulti totalmente «neutralizzato» dal lucro ottenuto aliunde, ossia dalle retribuzioni percepite presso il cessionario.
Diversamente, poiché in relazione al secondo periodo il diritto del lavoratore ha natura retributiva, derivante dai rapporto di lavoro de iure ricostituito dalla sentenza che ha dichiarato nulla (o inefficace) la cessione nei suoi confronti, il correttivo predetto non può più operare, in quanto incompatibile con il regime giuridico del diritto comune delle obbligazioni, ossia della mora credendi, discendente dalla ricostituita lex contractus. E questa incompatibilità deriva dal fatto cbe il rifiuto (perdurante dopo la sentenza) di ricevere le prestazioni lavorative del dipendente illegittimamente ceduto deve dirsi ingiustificato per definizione (v. sopra), Quindi, le obbligazioni del datore di lavoro restano intatte: imputet sibi se dovrà pagare le retribuzioni senza aver ottenuto la prestazione lavorativa, che è mancata esclusivamente per fatto suo proprio (del cedente), senza che il vincolo di corrispettività possa dirsi venuto giuridicamente meno.
13. Ad avviso di questa Corte, solo la illustrata distinzione fra i due periodi consente di indurre il cedente ad ottemperare alla sentenza dichiarativa della nullità (o inefficacia) della cessione d’azienda (o di un suo ramo) e, quindi, di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.).
Altrimenti, il rischio è che il cedente resti inottemperante ad libitum (specialmente qualora vi siano precisi accordi in tal senso intercorsi con il cessionario), non solo dopo la sentenza dicbiarativa della nullità (o inefficacia) della cessione con ordine di ripristino dei rapporti di lavoro con i dipendenti illegittimamente ceduti, ma addirittura dopo il suo passaggio in giudicato. Il cedente, infatti, potrebbe confidare nel fatto che i lavoratori, illegittimamente (anche per giudicato) ceduti al cessionario, continuino a percepire da quest’ultimo la retribuzione, certo cbe allora non andrà incontro ad alcuna conseguenza risarcitoria, perché «neutralizzata» senza limiti temporali dalla sopra vista compensatio lucri cum damno.
Questa conseguenza è da rifiutare per due ragioni.
In primo luogo si finirebbe per rendere inutile l’azione di accertamento della nullità (o inefficacia o inopponibilità) della cessione, con un palese vulnus dell’art. 24 Cost., perché ne discenderebbe l’insussistenza – per definizione – di un interesse ad agire del lavoratore, vista la (nient’affatto remota) probabilità di non ritornare mai più «in concreto» alle dipendenze del cedente e di non poter pretendere da quest’ultimo le retribuzioni. Questa conseguenza sarebbe in contrasto con il «diritto vivente» nella stessa Suprema Corte, secondo cui, invece, un interesse ad agire sussiste pur sempre (Cass. 16/06/2014, n. 13637; Cass. 15/04/2014, n. 8756), da apprezzare proprio rispetto ai crediti maturati nel periodo successivo alla cessione del ramo d’azienda, di cui si contesti la validità (o l’efficacia).
In secondo luogo si finirebbe per realizzare un’inammissibile alterazione dei fini per i quali – nel diritto comune delle obbligazioni – è stato elaborato il correttivo della compensatio lucri cum damno. E ciò sotto due profili:
a) quel correttivo attiene al principio dell’integrale riparazione del danno (id est senza iniusta locupletatio da parte del danneggiato) e trova applicazione in tutti i casi in cui un profitto venga si tratto dal danneggiato, ma senza alcun apporto elusivo causalmente riconducibile al danneggiante, ispirato al fine di sottrarsi (in tal modo) alle conseguenze risarcitorie dell’illecito commesso. Invece nel caso in esame, pure sulla base di specifici ed appositi accordi fra cedente e cessionario, potrebbe essere preordinatamente realizzata la violazione (ossia l’inottemperanza) della sentenza (anche passata in giudicato) senza limiti temporali (ad libitum) per quanto sopra detto. Ammettere anche in tal caso la compensatio significherebbe, quindi, legittimare un comportamento (o un accordo dal contenuto) illecito in un duplice senso: sul piano processuale perché volto ad eludere (se non proprio a violare) un provvedimento giurisdizionale (anche con dignità di giudicato); sul piano sostanziale perché volto a procrastinare sine die le conseguenze di una cessione, che invece – non applicandosi l’art. 2112 c.c. – secondo il diritto comune del contratto e delle obbligazioni non è idonea a produrre alcun effetto nei confronti del contraente ceduto, in quanto per perfezionarsi e divenire così efficace avrebbe richiesto il consenso pure di quest’ultimo, ossia del lavoratore (art. 1406 c.c.), consenso che invece è mancato;
b) quel correttivo attiene al potere di liquidazione del danno che spetta al giudice investito della cognizione dell’illecito e, dunque, per definizione opera limitatamente al periodo che va dal giorno dell’illecito alla sentenza cbe lo accerti e che contestualmente liquidi il danno risarcibile. Successivamente a quella pronunzia, invece. il debito, trasformatosi da debito di valore in debito di valuta (Cass. n. 9648/1996; Cass. n. 4983/2004; Cass. n. 10839/2007), resta assoggettato al regime giuridico proprio delle obbligazioni pecuniarie, rispetto all’adempimento delle quali diviene del tutto estraneo il correttivo della compensatio. Aderire alla tesi della società. invece, implica che questo correttivo operi pure per il periodo successivo alla sentenza che abbia accertato l’illecito e liquidato il danno, ciò che – per quanto detto – è inammissibile. poiché del tutto estraneo alla sua ratio.
14. Alla luce di tutte queste considerazioni, allora, le pronunzie della Suprema Corte di Cessazione, sopra ricordate (nn. 14542/2014 e 16096/2014), vanno certamente condivise in relazione al primo periodo, ma non pure in relazione al secondo, per il quale il lavoratore illegittimamente ceduto, per effetto della sentenza ripristinatoria della lex contractus, ossia del suo rapporto di lavoro de iure con il cedente. ha diritto all’adempimento delle obbligazioni cbe da quel rapporto (e da quella lex) discendono, prima fra tutte la retribuzione, che – come tale – resta insensibile agli eventuali redditi dal medesimo lavoratore aliunde conseguiti.
15. La soluzione preferita da questa Corte, infine, è l’unica conforme a Costituzione, in quanto idonea a rappresentare una coazione – sia pure soltanto indiretta – verso il cedente, per indurlo ad ottemperare alla sentenza che abbia dichiarato nulla (o inefficace) la cessione d’azienda (o di un suo ramo), specie laddove passata in giudicato, in tal modo assicurando alla parte vittoriosa tutte le utilità cbe la tutela giurisdizionale può offrire, in ossequio agli artt. 24 e 111 Cost. e al principio di «effettività», evincibile dai precetti costituzionali.
16. Nonostante l’articolato convincimento di questa Corte nei termini sopra riportati – corrispondente al contenuto di molteplici sentenze già pubblicate – l’orientamento cbe si è ulteriormente affermato presso la Suprema Corte di Cassazione è rimasto quello sopra ricordato e si sta ormai via via consolidando (Cass. 09/09/2014, n. 18955; Cass. 02/04/2015, n. 6755), tanto da essere ulteriormente ribadito nella forma semplificata dell’ordinanza (Cass., ord. 05/12/2016. n. 24817; Cass., ord.. 30/05/2016, n. 11095).
Tuttavia, questo orientamento – che può dirsi abbia ormai raggiunto un livello di consolidamento presso la Suprema Corte di Cassazione tale, da integrare il «diritto vivente» – non tiene conto di quanto affermato dalla stessa Suprema Corte: a) in tema di interesse ad agire del lavoratore coinvolto in un trasferimento d’azienda (o di ramo d’azienda). In particolare, si è affermato che «In tema di trasferimento d’azienda, il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio la non ravvisabilità di un ramo d’azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento, e, quindi, in difetto del suo consenso, l’inefficacia nei suoi confronti del trasferimento stesso, non essendo per lui indifferente, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore-datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei suoi diritti. Tale interesse non viene meno né per lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative per il cessionario, che non integra accettazione della cessione del contratto dì lavoro, né per effetto dell’eventuale conciliazione intercorsa tra lavoratore e cessionario all’esito del licenziamento del primo, né, in genere, in conseguenza delle vicende risolutive del rapporto con il cessionario» (Cass. 16/06/2014, n. 13617; in termini v. altresì Cass. n. 8756/2014).
Orbene, questo interesse verrebbe certamente meno, qualora si consentisse al cedente di impedire sine die ai lavoratori ceduti di tornare alle sue dipendenze;
b) in tema di conseguenze della sentenza dichiarativa della nullità del termine finale per il periodo successivo alla sentenza medesima. In particolare si è affermato che «ln tema di risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro o tempo determinato, l’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, commisura l’indennità dovuta all’ultima retribuzione globale di fatto, riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita della retribuzione (ed accessori) per essere stato allontanato dal proprio posto nel periodo compreso tra l’allontanamento e la sentenza di merito» Cass. 10/07/2015, n. 14461; in termini v. altresì Cass. n. 151/2015; Cass. n. 19295/2014), affermando, così, la natura retributiva del diritto del dipendente successivamente alla sentenza di merito:
c) in tema di struttura necessariamente trilaterale della cessione del contratto (anche di lavoro subordinato). in particolare, si è affermato che «Ai sensi dell’art. 1406 cod. civ. la cessione del contratto, che realizza un negozio plurilaterale, si perfeziona con l’accordo di tutti gli interessati (cedente, cessionario e ceduto)» (Cass. 16/03/2007, n. 6157: Cass. 6349/2001; cfr. altresì Cass. n. 14442/2016, che fa applicazione del predetto principio in un singolare caso di simulazione di una cessione di ramo di azienda, dissimulante la cessione di un contratto di locazione immobiliare; cfr. ancora Cass. n. 5439/2006, che fa applicazione del predetto principio in tema di litisconsorzio). Pertanto, qualora manchi il consenso di uno dei tre contraenti necessari, la cessione non può dirsi perfezionata e quindi è per definizione inefficace, ossia inidonea ad incidere sulle originarie obbligazioni delle parti del contratto originario «oggetto della cessione non perfezionatasi).
17. Con riferimento – quale tertium compararionis – alla declaratoria di nullità del termine finale, il predetto «diritto vivente» presso la Suprema Corte di Cassazione non tiene conto, altresì, di quanto argomentato dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 303/2011 relativa all’art. 32 L. n. 183/2010:
«Omissis… Quanto poi alla denunziata insufficienza del trattamento forfetario previsto dalle disposizioni censurate, la Corte di cassazione rimettente ritiene che l’indennità onnicornprensiva prevista dall’art. 32, commi 5 e 6 della legge citata. Non ipotizzabile come aggiuntiva al risarcimento dovuto secondo le regole di diritto comune, assorba l’intero pregiudizio subito dal lavoratore a causa dell’illegittima opposizione del termine al contratto di lavoro, dal giorno dell’interruzione del rapporto fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. Donde l’effetto a suo avviso perverso di indurre il datore a persistere nell’inadempimento, anche sottraendosi all’esecuzione della condanna, non suscettibile di esecuzione in forma specifica, con indefinita dilatazione del danno ed abnorme sproporzione dell’indennità rispetto ad esso.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto «intermedio», quello cioè che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto.
A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.
Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l’accertamento giudiziale del rapporto o tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sé E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla.
Cosi intesa la norma censurata, cade l’ipotesi di paventata sproporzione dell’indennità di cui all’art. 32. commi 5 e 6, della legge citata, rispetto alla denunziata esigenza di ristoro di un danno destinato a crescere con il decorso del tempo, sino ad attingere valori non esattamente prevedibili…Omissis».
Si tratta di argomenti che, per assoluta identità di ratio valgono anche in tema di conseguenze della sentenza con cui viene dichiarata l’inefficacia (o la nullità per mancanza del necessario consenso di uno dei contraenti) della cessione del contratto di lavoro subordinato, una volta esclusa l’applicabilità 2112 c.c. per difetto degli elementi costitutivi della relativa fattispecie (come nel caso in esame).
18. Il trasferimento di ramo d’azienda con connesso trasferimento del rapporto di lavoro subordinato rientra nell’ambito applicativo della cessione del contratto (art. 1406 c.c.), che viene dichiarata inefficace o nulla proprio perché – in mancanza degli elementi costitutivi della fattispecie prevista 2112 c.c. – è mancato il necessario consenso di uno dei necessari contraenti, ossia quello ceduto (altrimenti non necessario ex art. 2112 c.c.).
Orbene, va ricordato che nei rapporti fra contraente ceduto e cedente, quest’ultimo è liberato delle sue obbligazioni (nella specie di natura retributiva) solo se e nel momento in cui la cessione (del contratto) diviene efficace nei confronti del ceduto (art. 1408, co. 1° c.c.).
Ne consegue che se la cessione (sia pure all’esito di un accertamento giurisdizionale ex post) risulti non essere mai divenuta efficace, in quanto è mancato il necessario consenso del contraente ceduto (ossia del lavoratore), il cedente (ossia l’originario datore di lavoro, nella specie Telecom Italia spa) non potrà ritenersi liberato dall’obbligo retributivo.
Tuttavia. trattandosi di rapporto di durata. per il periodo che va dalla cessione. poi risultata e dichiarata inefficace, e la sentenza di merito che abbia poi accertato e dichiarato tale inefficacia, l’obbligo retributivo viene meno in omaggio al principio di corrispettività delle prestazioni: essendo mancata quella lavorativa, viene meno pure quella retributiva (come, altresì, in caso di nullità del termine finale apposto al contratto di lavoro subordinato negli intervalli non lavorati fino alla sentenza dichiarativa della nullità: v. supra) e residua soltanto un fatto illecito – ossia l’allontanamento dal posto di lavoro presso il cedente – fonte di un’obbligazione risarcitoria per l’eventuale danno patito dal dipendente.
Invece, per il periodo successivo alla sentenza (di merito) che abbia accertato l’inefficacia del trasferimento d’azienda. Viene ricostituita la lex contractus e, quindi, viene ripristinata la corrispettività fra le prestazioni cui sono obbligati il cedente (originario datore di lavoro) e il ceduto (il lavoratore). E dunque il dipendente ha l’obbligo di riprendere a lavorare presso l’originario datare di lavoro (cedente) e quest’ultimo ha l’obbligo di pagare la retribuzione.
Se la prima obbligazione non viene adempiuta a causa del persistente rifiuto del cedente di riceverla, trova applicazione la disciplina della mora credendi (art. 1206 c.c.): a tal fine, la necessaria intimazione a ricevere la prestazione (art. 1217 c.c.) va individuata (in mancanza di atti stragiudiziali anteriori) nella notifica del ricorso introduttivo del giudizio volto alla declaratoria di inefficacia (o inopponibilità) del trasferimento di ramo d’azienda. Ed allora, a seguito della sentenza conclusiva di tale giudizio, il creditore della prestazione lavorativa non potrà più opporre alcun motivo legittimo per continuare a rifiutare la prestazione medesima (art. 1206 c.c.).
Secondo il diritto comune delle obbligazioni, inoltre, il creditore in mora (ossia il datore di lavoro cedente) resta tenuto in primo luogo ad adempiere la propria prestazione (principalmente quella retributiva) ed inoltre a risarcire l’eventuale danno patito dalla controparte (ossia dal lavoratore) a causa di questo comportamento (art. 1207 c.c.).
19. Il diverso «diritto vivente», rappresentato dal consolidato ed ormai reiterato orientamento della Suprema Corte di Cassazione sopra ricordato, non può certo essere trascurato, in ossequio alla funzione nomofilattica istituzionalmente assegnato dall’ordinamento giudiziario ai giudici di legittimità (art. 65 r.d. n. 12/1941).
Ciò, tuttavia, non esclude, anzi impone il dovere di questa Corte di affrontare, allora, il problema della compatibilità del predetto «diritto vivente» con principi e norme costituzionali.
In particolare, il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte di Cassazione si traduce in un’ambivalente interpretazione della disciplina della moro credendi, risultante dal combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c.:
– o nel senso della sua inapplicabilità in favore dei dipendenti del cedente in un trasferimento di ramo d’azienda per il periodo successivo alla sentenza di merito che l’abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile, persistendo solo un obbligo risarcitorio da inadempimento (art. 1218 c.c.):
– ovvero nel senso di limitare il suo contenuto precettivo ed i suoi effetti al solo obbligo risarcitorio (da mora credendi: art. 1207 c.c.) in capo al datore di lavoro cedente, per gli eventuali danni patiti dai dipendenti (interessati dalla cessione) sia per il periodo anteriore, sia per quello successivo (e ad libitum) alla sentenza di merito che abbia dichiarato nullo, inefficace o inopponibile il trasferimento medesimo.
Orbene, ad avviso di questa Corte, in entrambi i casi la predetta disciplina – così come risultante da questa ambivalente interpretazione – sarebbe in contrasto:
a) con l’art. 3 Cost. a causa della ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento che verrebbe realizzata:
– sia rispetto alla disciplina della mora credendi in tutte le altre obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato.
– sia rispetto alla disciplina delle conseguenze che – in tema di nullità del termine finale apposto al contratto di lavoro subordinato – derivano dalla sentenza (di merito) con cui venga dichiarata la nullità del termine medesimo. per il periodo successivo alla sentenza medesima;
b) con l’art. 24 Cost., atteso che la possibilità ivi riconosciuta a tutti di agire in giudizio per la tutela di diritti ed interessi postula che quest’ultima consenta di trarne un’utilità pratica giuridicamente apprezzabile (c d. effettività della tutela giurisdizionale). Ed invece questa «effettività» sarebbe vanificata:
– sia perché al cedente verrebbe consentito (mediante specifici accordi con il cessionario) di sottrarsi ad libitium alla sentenza (ancbe passata in giudicato) con cui sia stata dicbiarata la nullità o l’inefficacia o l’inopponibilità del trasferimento di ramo d’azienda nei confronti del lavoratore,
– sia perché – e di conseguenza – verrebbe eliminato «in radice» l’interesse concreto ad agire in giudizio in capo ai dipendenti del datore di lavoro cedente, vista l’inutilità della sentenza quand’anche favorevole, sicché la possibilità di agire in giudizio si tradurrebbe in un «vuoto simulacro»;
c) con l’art. 111 Cost., laddove prevede la garanzia del «giusto processo», in quanto la «giustizia» ovvero la «giustezza» del processo è strettamente e propriamente determinata dal grado di «effettività» della tutela che quel processo è (o dovrebbe essere) istituzionalmente in grado di offrire a chi agisce in giudizio;
d) con l’art. 117 Cost. per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U., che prevede il «diritto ad un processo equo»: tale può dirsi solo quello cbe consenta di ottenere la tutela specifica (ove giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale, in omaggio al carattere prettamente strumentale dei rimedi processuali rispetto alle situazioni giuridiche soggettive da tutelare.
20. Le predette questioni sono «rilevanti», in quanto dalla loro soluzione dipende l’esito dell’appello di Telecom Italia spa: qualora il «diritto vivente» fosse riconosciuto conforme a Costituzione, il gravame dovrebbe essere accolto, con conseguente accoglimento (integrale) dell’opposizione avverso il decreto ingiuntivo a suo tempo ottenuto dall’appellato.
Le medesime questioni sono altresì «non manifestamente infondate» per tutte le ragioni sopra esposte ed illustrate.
P.Q.M.
Visto l’art. 23 della legge n. 83/1957,
a) dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c. per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost.;
b) dispone l’immediata trasmissione di tutti gli atti di causa alla Corte Costituzionale;
c) sospende il giudizio in corso;
d) dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
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