CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 gennaio 2018, n. 1111
Tributi – Riscossione – Cartella di pagamento – Indicazione degli estremi identificativi o della data di notifica dell’accertamento precedentemente emesso – Necessità – Esclusione – Indicazione di circostanze univoche per l’individuazione del medesimo – Sufficienza
Fatti di causa
1. G.B.P. ricorre con sei mezzi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia Nord S.p.A. (che resistono con controricorsi) avverso la sentenza in epigrafe con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia ne ha rigettato l’appello, ritenendo legittima la cartella di pagamento n. 117 2007 0005366519000 relativa all’iscrizione a ruolo dell’importo di euro 1.436.000,87 in esecuzione della sentenza con la quale la stessa C.T.R. aveva affermato la legittimità dell’avviso di accertamento per le annualità 1990, 1992 e 1993 (decisione divenuta definitiva a seguito di sentenza della Corte di cassazione).
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 7 legge 27 luglio 2000, n. 212; dell’art. 97, primo comma, Cost.; dell’art. 21 – septies legge 7 agosto 1990, n. 241; degli artt. 125 e 480, comma quarto, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto infondata l’eccezione di nullità della cartella in quanto mancante di sottoscrizione e della indicazione del responsabile del procedimento. Sostiene che l’avere il legislatore previsto – con l’art. 36, comma 4-ter, d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, conv. dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31 (le cui censure di incostituzionalità sono state dichiarate infondate dalla Corte cost. con sentenza n. 58 del 2009) – che la mancata indicazione del responsabile del procedimento costituisce causa di nullità della cartella di pagamento, solo con riferimento ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008, non esclude che, con riferimento ai ruoli consegnati anteriormente, tale omissione possa considerarsi causa di annullamento della cartella.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione, in relazione all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto inammissibile il motivo di gravame con il quale si lamentava l’incomprensibilità della quantificazione delle sanzioni, in quanto diretto a sindacare le sanzioni applicate nell’avviso di accertamento divenuto definitivo.
Rileva che tale affermazione si appalesa insufficiente in quanto «non risponde alla contestazione mossa dal contribuente riguardante l’incomprensibilità delle indicazioni relative alle sanzioni contenute nella cartella di pagamento in rapporto all’intervenuto mutamento, nella quantificazione delle stesse, sopravvenuto allo stesso avviso di accertamento per effetto della modifica normativa del 1997».
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia poi violazione e falsa applicazione degli artt. 11, 12 e 25, commi 2 e 2-bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e degli artt. 1 e 6 d.m. 3 settembre 1999, n. 321, nonché vizio di motivazione, per avere la C.T.R. ritenuto pretestuosa la doglianza con cui si lamentava la mancata indicazione nella cartella della specie del ruolo, in quanto del tutto ininfluente ai fini della comprensione della cartella medesima e inidonea a inficiare la legittimità della stessa.
4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 25, commi 2 e 2-bis, d.P.R. n. 602 del 1973; dell’art. 7, comma 1, legge n. 212 del 2000; dell’art. 3 legge n. 241 del 1990 e degli artt. 24 e 97 Cost., in relazione all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ritenuto «altrettanto pretestuosa» la censura con cui si lamentava la non comprensibilità delle indicazioni contenute in cartella.
Rileva che nella descrizione contenuta nella cartella di pagamento relativa agli addebiti afferenti agli avvisi di accertamento n. 4851006236 e n. 4851006239 sono indicate voci quali «Irpef Recupero Ecced. Imposta» e «Irpef Interessi Recupero Ecced Imposta» che non consentono di verificare direttamente e immediatamente, sulla base della sola cartella, la corrispondenza degli importi richiesti agli effettivi periodi di tempo cui si riferiscono le determinazioni assunte ma rendono indispensabili l’esame degli avvisi da cui la cartella trae origine e il confronto con le somme in essa indicati.
Soggiunge che voci quali «Recupero Credito 1989 Utilizzato Nell’Anno D’Imposta – A Seguito Accertamento 4851006236» e «Recupero Credito 1992 Utilizzato Nell’Anno D’Imposta 1993 – Riferimento Acc. 4851006239» non risultano in alcun modo corrispondere alle somme contemplate dagli accertamenti richiamati; che nella sezione denominata «Dettagli Degli Addebiti» vi sono indicazioni difficilmente comprensibili quali ad esempio, con riferimento all’accertamento n. 4851006238, quella secondo cui «l’importo a ruolo è stato così ricavato: 100% di (1.069.602.000 – 4.311.000), dove 1.069.602.000 = maggiore imposta dovuta, 4.311.000 = credito recuperato; l’importo infine stato convertito in euro».
5. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 68, comma primo, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e degli artt. 15 e 20 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nonché vizio di motivazione per avere la C.T.R. rigettato anche il motivo di gravame con il quale si lamentava l’incomprensibilità del calcolo degli interessi sulla base del rilievo che «il contribuente, in proprio o con l’aiuto di preparati professionisti, per dimostrare che gli interessi calcolati dall’ufficio non sono stati corretti deve proporre un proprio calcolo alternativo, considerato che il tasso e il tempo sono due elementi conoscibili».
Rileva che: a) la cartella si riferiva a somme provvisoriamente iscritte a ruolo sulla base di sentenza della C.T.R. non ancora divenuta definitiva, pendendo contro di essa ricorso per cassazione e che pertanto non sono dovuti gli interessi previsti dall’art. 20 d.P.R. n. 602 del 1973; b) comunque, ai sensi dell’art. 15, primo comma, d.P.R. n. 602 del 1973, gli «interessi stessi» avrebbero dovuto essere conteggiati in relazione alla metà dell’imponibile accertato; c) nella cartella non vi è alcuna indicazione circa la norma in base alla quale gli interessi sarebbero stati calcolati, né risulta specificato il periodo a partire dal quale tale calcolo sarebbe stato effettuato e il termine finale per il conteggio stesso; d) non è possibile individuare immediatamente la data di scadenza del pagamento, dies a quo per il calcolo degli interessi, anche per il fatto che gli avvisi impugnati sono stati oggetto di provvedimento di sospensione o comunque non vi è stata provvisoria iscrizione a ruolo del tributo in pendenza di giudizio; e) manca l’indicazione del dies ad quem per tale conteggio, rappresentato dalla data di consegna al concessionario del ruolo; f) analoghe incertezze sussistono laddove, nella cartella, si fa generico riferimento ad «Interessi Recupero Ecced. Imposta».
6. Con il sesto motivo il ricorrente infine denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ..
Lamenta il ricorrente omessa pronuncia sul motivo di gravame riguardante la legittimità delle sanzioni irrogate, in quanto in contrasto con le determinazioni assunte con riguardo ad altra precedente cartella per la quale l’Ufficio aveva operato uno sgravio parziale e ciò in ragione della sopravvenienza di norme sanzionatone più favorevoli a! contribuente.
7. È infondato il primo motivo di ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere, con indirizzo dal quale non si ravvisa ragione per discostarsi, che, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, la cartella che ometta di indicare il responsabile del procedimento è ratione temporis salva dalla nullità ex art. 36, comma 4-ter, d.l. n. 248 del 2007, mentre l’annullabilità è esclusa dalla disposizione generale dell’art. 21-octies legge n. 241 del 1990, trattandosi di vizio formale di un provvedimento a contenuto vincolato, né è prevista dalla disposizione specifica dell’art. 7, comma 2, lett. a, legge n. 212 del 2000, norma minus quam perfecta perché sprovvista di sanzione (Cass. 21/03/2012, n. 4516; Cass. 15/02/2013, n. 3754; Cass. 12/01/2016, n. 332; Cass. 13/07/2017, n. 17306; Cass. 06/10/2017, n. 23381).
Quanto poi alla sottoscrizione, costituisce altresì ius receptum il principio secondo cui «in tema di riscossione delle imposte, la mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, quando non è in dubbio la riferibilità di questo all’Autorità da cui promana, giacché l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia prevista dalla legge, mentre, ai sensi dell’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, la cartella va predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore ma solo la sua intestazione» (cfr. ex multis Cass. n. 26053 del 2015; conf. Cass. n. 23381, n. 6164, n. 4783 e n. 1109 del 2017).
8. Il secondo motivo è poi inammissibile, sia perché non pertinente rispetto alla ratio deciderteli (non impugnabilità delle sanzioni applicate perché contenute nell’avviso presupposto, divenuto definitivo), sia perché comunque diretto a contestare, sul piano della motivazione, la soluzione data dal giudice del merito ad una questione di diritto (la correttezza del riferimento, quale fonte normativa delle sanzioni, al «d.P.R. 600») (v. ex multis Cass. 10/01/2004, n. 188; Cass. 17/11/1999, n. 12753).
9. È altresì infondato il terzo motivo, sotto entrambi i profili dedotti.
Anche la norma di cui all’art. 6 d.m. n. 321 del 1999, la quale comprende nel contenuto minimo della cartella di pagamento anche l’indicazione della «specie del ruolo» è infatti minus quam perfecta, in quanto non assistita da alcuna sanzione di nullità dell’atto.
La nullità dell’atto per carenza motivazionale sarà dunque predicabile solo ove si tratti di carenze tali da non consentire al contribuente l’agevole identificazione della causale delle somme pretese dall’Amministrazione finanziaria e più in generale di controllare la correttezza dell’imposizione (v., con riferimento all’art. 25 d.P.R. n. 602 del 1973, nel testo anteriore alla sostituzione operata con il d.lgs 26 febbraio 1999, n. 46, Cass. 26/10/05, n. 20847).
È evidente dunque che quel che rileva ai fini della validità del ruolo o della cartella esattoriale è l’indicazione di circostanze univoche ai fini dell’individuazione della pretesa e delle sue causali, così che resti soddisfatta l’insopprimibile esigenza del contribuente di controllare la legittimità della procedura di riscossione promossa nei suoi confronti.
E ciò se può senza dubbio affermarsi avuto riguardo ai contenuti
dell’art. 7, comma 3, legge n. 212 del 2000 e degli artt. 1 e 12 d.P.R. n. 602 del 1973 (come modif. dall’art. 8 d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32) – che infatti si limitano a richiedere, con espressione generica, che gli atti in questione contengano «il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione anche sintetica della pretesa» – deve ritenersi valido anche alla luce dell’apparentemente più esigente disposto degli artt. 1 e 6 d.m. n. 321 del 1999, tanto più avuto riguardo a quanto in momenti successivi previsto dal legislatore con norma primaria, in via generale con lo Statuto del contribuente e poi con specifico riferimento ai ruoli e alle cartelle esattoriali con il d.lgs. n. 32 del 2001 (v. in termini Cass. 25/05/2011, n. 11466).
Nel caso di specie, che l’omessa indicazione della «specie del ruolo» possa determinare di per sé alcuna incertezza o ostacolo alla piena comprensione delle ragioni della pretesa è univocamente escluso dai giudici di merito alla stregua di un accertamento di fatto in sé non fatto segno di specifica censura ex art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.; quella infatti che in rubrica è ricondotta a tale tipo di vizio si appunta a ben vedere sulla stessa affermazione in diritto, in sé considerata, della irrilevanza della mancata indicazione della specie del ruolo (alla stregua pertanto, anche in tal caso, di una inammissibile critica sul piano motivazionale della soluzione data ad una questione di diritto).
10. È poi inammissibile il quarto motivo. Esso infatti, lungi dall’evidenziare l’applicazione di una regula iuris difforme da quelle desumibili dalle norme citate, in punto di requisiti di validità dell’atto, postula un accertamento in fatto diverso da quello contenuto in sentenza (secondo il quale le indicazioni contenute in cartella consentono di «comprendere chiaramente che trattasi dell’iscrizione a ruolo delle imposte, sanzioni e interessi riferite ad avviso di accertamento reso definitivo», il quale «è nella disponibilità del contribuente»), ovvero di fatto sollecita sul punto una mera diversa valutazione di merito, ben al di là del tema devolvibile in cassazione, attraverso il dedotto vizio di violazione di legge.
11. È altresì inammissibile e comunque infondato il quinto motivo di ricorso.
La censura di vizio motivazionale mira a contrastare la valutazione espressa in sentenza secondo cui, in buona sostanza, il calcolo degli interessi, diversamente da quanto lamentato dal contribuente, è agevolmente ricostruibile «considerato che il tasso e il tempo sono due elementi conoscibili».
La critica si risolve nella mera apodittica contrapposizione della opposta valutazione, ma non vengono dedotti fatti specifici, controversi e decisivi, non considerati dal giudice del merito, né tantomeno vengono illustrate le ragioni per cui ove tali ipotetici fatti fossero stati considerati avrebbero condotto a una diversa decisione.
In particolare, il fatto che gli avvisi di accertamento presupposti sarebbero stati oggetto di provvedimento di sospensione e che non vi sarebbe stata provvisoria iscrizione a ruolo del tributo in pendenza di giudizio non risulta nemmeno dedotto davanti al giudice a quo e comunque la sua allegazione difetta evidentemente del requisito di autosufficienza, il che va detto anche quanto alla citazione di specifiche voci richiamate in cartella, con riferimento alle quali non è comunque spiegata la ragione per cui essi avrebbero dovuto condurre a un giudizio diverso in punto di trasparenza del calcolo degli interessi.
Ad analoghi rilievi si espone anche la censura di vizio di legittimità.
La dedotta illegittimità dell’addebito in cartella di interessi ex art. 20 d.P.R. n. 602 del 1973 (il quale prevede l’addebito di interessi «sulle imposte o sulle maggiori imposte dovute in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione», ipotesi evidentemente diversa da quella che risulta trattata) postula che un tale addebito sia stato operato, che è però fatto che non emerge dalla sentenza.
Il riferimento poi all’art. 15 d.P.R. n. 602 del 1973, in tema di interessi sulle imposte provvisoriamente iscritte a ruolo in pendenza di giudizio, postula che di questo tipo di iscrizione si tratti in contrasto con l’accertamento in fatto esplicito in sentenza secondo cui invece si tratta di iscrizione a ruolo di imposte, sanzioni e interessi riferite ad avviso di accertamento resosi definitivo. Senza dire che comunque, quand’anche si trattasse di iscrizione frazionata in pendenza di giudizio, il riferimento è erroneo, posto che dovrebbe in tal caso trovare applicazione, ratione temporis, l’art. 68 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale prevede, per l’iscrizione in base a sentenza della Commissione tributaria regionale, il pagamento del tributo, con i relativi interessi, per l’intero ammontare determinato in sentenza.
12. Con riferimento infine al sesto motivo – in disparte la sua dubbia ammissibilità, in quanto dedotto attraverso il mero rimando ad ampi stralci dell’atto d’appello testualmente trascritti – va osservato che, benché debba in effetti rilevarsi la mancanza in sentenza di uno specifico esame della censura, ad esso può tuttavia procedere questa Corte, trattandosi di questione di mero diritto, nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 384 cod. proc. civ..
Alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su una questione di mero diritto, che non richiede ulteriori accertamenti di fatto, la Corte di cassazione può infatti omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la questione nel merito, purché su di essa si sia svelto il contraddittorio, dovendosi ritenere che l’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 12 della legge n. 40 del 2006, attribuisca alla Corte di cassazione una funzione non più soltanto rescindente ma anche rescissoria e che la perdita del grado di merito resti compensata con la realizzazione del principio di speditezza (Cass. n. 23740 del 2013; n. 5139 e 24914 del 2011; n. 8622 del 2012).
Ciò posto, la censura è infondata, non potendo considerarsi motivo di evidente illogicità dell’iscrizione a ruolo delle sanzioni le determinazioni adottate dall’Ufficio con riferimento ad altra cartella, in mancanza di evidenza alcuna circa l’assoluta analogia e sovrapponibilità delle fattispecie sotto il profilo considerato.
13. In ragione delle considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità liquidate, per entrambe, in euro 10.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito in favore dell’Agenzia delle entrate e oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge in favore di Equitalia Nord S.p.A..
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