Tribunale di Terni sentenza n. 92 depositata il 7 marzo 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – MOBBING – NOZIONE – VIOLAZIONE DELLE NORME SULLA SICUREZZA – VIOLAZIONE DELL’INTEGRITA’ FISICA E DELLA PERSONALITA’ MORALE DEL PRESTATORE DI LAVORO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 2 marzo 2011 Ro. Ro., premesso di aver prestato servizio come Coordinatore dell’Ispettorato del Lavoro, IX livello, Area C3 e con incarico di Capo del Servizio Ispezione del Lavoro presso la Direzione Provinciale del Lavoro di Terni fino al 17.08.2009 (data del pensionamento), esponeva: – di essere stata sottoposta sin dalla fine del 1998 e soprattutto dalla fine del 2002 a comportamenti vessatori, persecutori e discriminatori da parte del Direttore reggente della Direzione Provinciale del Lavoro di Terni dott. Ja. che le hanno causato una sindrome depressiva clinicamente definita; – che in numerose occasioni il Direttore umiliava e screditava pubblicamente la ricorrente, ostacolandone l’attività ispettiva; – che con ordine di servizio n.11 del 7.11.2002 il dott. Ja. la rimuoveva dall’incarico di Capo Area Vigilanza, con mutamento peggiorativo di mansioni, dal servizio ispettivo a quello amministrativo, collocandola all’interno di un ufficio isolato, già adibito a magazzino ed adattato per l’occasione, situazione che pregiudicava i rapporti con i colleghi di lavoro; – che tale ordine di servizio veniva emanato a seguito dell’iscrizione della ricorrente alla CISL; – che tale ordine di servizio veniva dichiarato antisindacale con ordinanza emessa dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Terni in data 11.04.2003; – che sin dal novembre 2002 era destinataria di ben dieci lettere riservate di richiamo/chiarimenti e di due procedimenti disciplinari sempre ad opera del dott. Ja..
Sosteneva che tale situazione lavorativa le aveva scatenato una “sindrome ansiosa con depressione psichica a carattere reattivo legata a problemi verificatisi in ambiente lavorativo e intensa somatizzazione, dolori epigastrici, cardiopalmo, vertigini, turbe della memoria e dell’umore” costringendola ad allontanarsi dal lavoro per oltre 4 mesi con conseguente lesione della professionalità e dell’immagine, danno alla vita di relazione, nonchè morale ed esistenziale, derivante dalla violazione dei diritti fondamentali della persona.
Affermava, pertanto, che l’atteggiamento vessatorio e persecutorio posto in essere dal datore di lavoro poteva essere ritenuto elemento costitutivo della fattispecie del mobbing e che il datore di lavoro doveva essere ritenuto inadempiente per non avere posto in essere tutte le misure e gli accorgimenti idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Conveniva, pertanto, in giudizio il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dinanzi al Tribunale di Terni per ottenere l’accertamento del “mobbing” cui è stata sottoposta e della violazione da parte del Ministero convenuto – e per esso dal dott. Ja. – degli artt.2087, 2103,2043,2059 c.c. e artt.2, 32 e 41,2. co. Costituzione e per l’effetto la condanna del convenuto al risarcimento di tutti i danni non patrimoniali (biologico, morale ed esistenziale) subito dalla ricorrente in conseguenza di tali condotte quantificati in Euro 122.249,59 oltre interessi legali, rivalutazione monetaria dal dovuto al saldo e con vittoria delle spese di lite da distrarsi in favore del procuratore antistatario.
Si costituiva il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali eccependo in via preliminare in rito il difetto di notifica del ricorso avvenuta presso l’Amministrazione destinataria e non presso l’Avvocatura dello Stato competente per territorio in violazione del T.U. n.1611/33 ed in via ulteriormente preliminare nel merito la prescrizione quinquennale del credito e nel merito, contestando quando dedotto in ricorso, ne chiedeva il rigetto in quanto infondato in fatto ed in diritto.
In particolare, nel merito affermava l’insussistenza di una condotta vessatoria posta in essere dal datore di lavoro, evidenziando che le condotte del Ja., asseritamente mobbizzanti, rientravano a pieno titolo nelle competenze di Dirigente della Direzione Provinciale del Lavoro di Terni (riorganizzare la Direzione Provinciale a seguito dell’unificazione del Sevizio Ispettivo e dell’Ufficio Provinciale del Lavoro favorendo l’interscambiabilità delle funzioni tra dipendenti).
Il Ministero proseguiva contestando l’asserito demansionamento ed atteggiamento mobbizzante posto in essere ai danni della ricorrente alla quale nel tempo erano state attribuite competenze sempre nel rispetto della qualifica rivestita, nonchè la collocazione della stessa in un magazzino, ufficio in precedenza adibito ad altri servizi e colleghi.
Evidenziava, altresì: – che le note informative e le richieste di chiarimenti sulle pratiche in carico trasmesse alla ricorrente facevano parte di una metodica costante con cui il Dirigente si rapportava a tutto il personale per la soluzione di problemi specifici; che il primo procedimento disciplinare nasceva da un ingiustificato rifiuto della ricorrente ad apporre la sigla alle autorizzazioni inerenti i contratti di formazione e lavoro di competenza della stessa quale capo dell’Unità Operativa e dall’atteggiamento irriguardoso posto in essere dalla Ro. nei confronti del Dirigente; – che il provvedimento impugnato veniva poi revocato dallo Ja. il quale riconosceva che il comportamento della dipendente, successivamente a tali eventi, era stato collaborativo; – che il secondo procedimento disciplinare nasceva dal mancato rinvenimento di un verbale di ispezione non presente nel relativo fascicolo; – che tale procedimento si concludeva con la sanzione disciplinare del rimprovero scritto irrogata dall’Ufficio Procedimenti Disciplinari che nella fattispecie riconosceva che il comportamento della Ro. non era stato diligente; – che mancava la prova del danno; – che al pubblico impiego non si applica il cumulo interessi e rivalutazione monetari.
Concludeva pertanto chiedendo dichiararsi: – in via pregiudiziale in rito irricevibile il ricorso per mancata notifica del medesimo all’Avvocatura Distrettuale dello Stato; – in via preliminare nel merito l’intervenuta prescrizione quinquennale del credito; – nel merito il rigetto del ricorso in quanto infondato con condanna della ricorrente alla refusione delle spese di lite.
All’udienza di discussione del 4.10.2011 il precedente GL Dott. Ra., ritenuta l’irritualità della notifica assegnava nuovo termine alla parte ricorrente per notificare il ricorso e gli atti successivi all’Avvocatura Distrettuale dello Stato competente.
Si costituiva l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Perugia richiamando integralmente la difesa già svolta dal Ministero del Lavoro ed insistendo per il rigetto del ricorso.
L’istruttoria si articolava con l’escussione dei testi richiesti da entrambe le parti; non veniva disposta la richiesta CTU medica, ritenute sufficienti le prove orali al fine del decidere.
Sulle conclusioni indicate in epigrafe la causa veniva discussa e decisa come da sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 429, primo comma, c.p.c. come modificato dall’art. 53, secondo comma, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito in legge 6 agosto 2008 n. 133, dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nel merito il ricorso non è fondato e, pertanto, la domanda non può trovare accoglimento per quanto di ragione.
La lavoratrice lamenta la sussistenza di una condotta posta in essere dal datore di lavoro, nella persona in particolare del Dirigente Ja., nei suoi confronti integrante la fattispecie del c.d. mobbing dalla quale avrebbe subito una serie di danni alla salute (estrinsecatosi nelle patologie indicate nei certificati medici allegati), alla professionalità, all’esistenza, di carattere morale (pretium doloris), condotta consistente in controlli del proprio operato, spostamenti ad altri settori, note di chiarimenti ovvero richiami, avvio di due procedimenti disciplinari, rimproveri ed umiliazioni verbali alla presenza di altri funzionari/dipendenti, isolamento in un ufficio separato dal resto dell’edificio.
L’istruzione probatoria non ha consentito di dimostrare il lamentato comportamento persecutorio e vessatorio del datore di lavoro, qualificato dall’odierna ricorrente nei termini di mobbing.
Il mobbing consiste nel susseguirsi di attacchi frequenti e duraturi e di soprusi da parte dei superiori gerarchici (cd. mobbing verticale discendente o bossing) o di altri colleghi di lavoro (cd. mobbing orizzontale, ove avvenga tra soggetti parigrado, ovvero mobbing ascendente, ove il soggetto passivo dei comportamenti in esame sia un superiore gerarchico) che hanno lo scopo di isolare il lavoratore, di danneggiarne i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione o la professionalità, di intaccare il suo equilibrio psichico, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sè stesso, nonchè di provocarne le dimissioni. Si tratta, in altre parole, di una successione di episodi traumatici correlati l’uno con l’altro ed aventi con deliberato scopo l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione del soggetto “mobbizzato”. Utilizzando la definizione di uno dei primi studiosi che si è occupato del fenomeno in esame, il mobbing può essere ancora oggi validamente definito come quella “forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica – e non occasionale o episodica – da una o più persone nei confronti di un solo individuo”.
Il fenomeno in esame si caratterizza pertanto, sotto il profilo soggettivo, dal dolo del soggetto agente, da intendersi nell’accezione di volontà di nuocere o infastidire o comunque svilire in qualsiasi modo il proprio sottoposto o collega di lavoro. Nel caso di mobbing orizzontale, tuttavia, al comportamento doloso del collega di lavoro si accompagna quello di tipo colposo del datore di lavoro, il quale, in violazione in questo caso del disposto generale dell’art. 2087 c.c., non avrebbe posto in essere tutte quelle cautele necessarie ad evitare che il luogo di lavoro possa divenire fonte di danno alla persona (complessivamente intesa) del proprio dipendente.
La Cassazione ha precisato che il mobbing consiste in una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art.2087 c.c.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato (cfr. Cass. 9 settembre 2008, n. 22983; 6 marzo 2006, n. 4774).
Pertanto, integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti, diretti alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica).
Non esclude la responsabilità del datore di lavoro la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, qualora il datore di lavoro, su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c., sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero e tardivo intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza (Cass. 9 settembre 2008, n. 22858; 13 settembre 2006, n. 19559).
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3785).
Come ha avuto modo di evidenziare la giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente persecutoria, il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e se siano causalmente ascrivibili a responsabilità del datore che possa esserne chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui specificamente imputabili (Cass., n. 4222 del 03/03/2016).
Orbene, forniti i suesposti sintetici cenni in merito alle caratteristiche generali della fattispecie dannosa dedotta da parte ricorrente, ed anche a prescindere dall’approfondire in questa sede la questione della corretta sussumibilità della fattispecie in esame all’interno dell’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c. ovvero della norma generale dell’art. 2043 c.c. – con ogni ben comprensibile conseguenza in merito alla diversa ripartizione dell’onere della prova tra le parti –, si deve in questa sede senza dubbio affermare che i caratteri sopra evidenziati siano assenti nella fattispecie in esame, in cui il comportamento datoriale non può essere ritenuto vessatorio e persecutorio e finalizzato all’estromissione del dipendente o comunque allo svilimento e alla mortificazione della sua professionalità e/o addirittura della sua persona.
Il giudicante, condividendo la giurisprudenza sopra citata, ritiene, quindi, che il mobbing si sostanzi in vessazioni di natura psicologica, poste in essere con intento persecutorio e di durata apprezzabile – siano esse provenienti da superiori o da gruppi di colleghi – che incidono sulla dignità della persona del dipendente, il quale viene ad essere isolato e respinto dall’ambiente di lavoro, determinando, quale effetto, che il soggetto “mobbizzato” contragga una vera e propria patologia, di solito di natura psichica.
E’ pertanto indispensabile che la parte ricorrente, deducendo una situazione di mobbing, dia sufficiente conto dei singoli atti compiuti dal datore di lavoro, o dai superiori gerarchici o dai colleghi, che tutti insieme esaminati possano essere considerati come mobbing nel senso sopra chiarito.
Nel caso di specie la difesa della ricorrente ha allegato in fatto, quali comportamenti concretizzanti la condotta di mobbing denunciata, le seguenti circostanze:
– rimproveri aventi ad oggetto l’incapacità della lavoratrice a svolgere le mansioni alla stessa assegnate ed umiliazioni verbali alla presenza di altri funzionari;
– l’adozione da parte dello Ja. di numerose note di chiarimenti e/o richiami e l’avvio di due procedimenti disciplinari;
– lo spostamento ad altri incarichi e competenze;
– l’assegnazione ad un ufficio isolato dal resto della Direzione Provinciale del Lavoro;
Si deve precisare che per la sussistenza della fattispecie non è sufficiente provare la presenza di uno o più atti illegittimi posti in essere dal datore di lavoro, ma è necessario provare il loro nesso causale con un intento discriminatorio, vessatorio e persecutorio nei confronti della dipendente, finalizzato all’estromissione del lavoratore dall’ambiente lavorativo o alla sua mortificazione sotto il profilo professionale, danneggiandone l’immagine e la personalità.
Nella fattispecie tale prova difetta del tutto, considerato che le condotte in questione risultano secondo una valutazione oggettiva assolutamente irrilevanti. La circostanza che le stesse condotte siano state percepite dalla lavoratrice quali atti vessatori posti in essere contro di lei, non può portare a ritenere sussistente l’ipotesi di mobbing, la quale deve in ogni caso essere ancorata a risultanze oggettive nel senso che gli atti devono avere una intrinseca potenzialità lesiva secondo un giudizio collegato all’id quod plerumque accidit e non alla sola percezione lesiva che il destinatario degli atti, sulla base di una particolare sensibilità, possa avere.
Le affermazioni di vessazioni continue ai danni della Ro. non hanno avuto sufficiente riscontro nelle prove testimoniali assunte nel corso dell’istruttoria, nè tantomeno è emerso un intento persecutorio dall’esame della corposa documentazione depositata.
Innanzitutto occorre premettere, come evidenziato anche dalla produzione documentale offerta dal Ministero convenuto, che il Dirigente della DPL di Terni Ja., al quale era stata assegnata la riorganizzazione della DPL di Terni a seguito dell’accorpamento dell’Ispettorato del Lavoro e dell’Ufficio Provinciale del Lavoro nel 1997, ha sin dall’inizio manifestato apprezzamento per l’operato della ricorrente tanto vero che lo Ja. voleva da subito assegnarle la responsabilità del reparto delle Risorse Strumentali dell’Ufficio gestione Risorse Umane ed Affari generali ma per espressa volontà della stessa la lasciava alla Vigilanza Ordinaria dove reggente era il dott. Pa. Pe. (cfr. ordine di servizio n.8 del 4.04.1997 all.to n.4 fascicolo resistente).
Dopo poco, evidentemente apprezzate le qualità della Ro., lo Ja. con ordine di servizio n.12 del 2.06.1997 la nominava reggente dell’Area Vigilanza Ordinaria, oltre che titolare della sezione I in cui l’area era stata suddivisa e con successivo ordine n.29 del 20.11.1997 coordinatrice della vigilanza con gli Istituti assicuratori (cfr. all.ti nn.5 e 6 fascicolo resistente).
Al fine di favorire l’interscambiabilità delle professionalità acquisite dai dipendenti con consequenziale arricchimento delle conoscenze da ognuno di essi possedute il Dirigente Ja. iniziava ad attuare la politica della rotazione dei funzionari assegnati ai vari settori, ivi compresa la Ro., la quale con ordine di servizio n.10 del 1.09.1998 cessava dalla reggenza dell’Area Vigilanza Ordinaria ed assumeva la reggenza dell’Ufficio Legale e Contenzioso, pur continuando nell’attività ispettiva, in linea con il livello dalla stessa posseduto (VIII. livello) non diversamente da altri funzionari di pari o livello superiore (cfr. dott. Fr. Pa. Po., IX. livello che da titolare dell’Ufficio Legale e Contenzioso assumeva la titolarità dell’Area Conflitti di lavoro ed Ammortizzatori sociali) (cfr. all.to n.7 al fascicolo resistente).
E così ancora la ragioniera Ro. con ordine di servizio n.6 del 3.05.1999 cessava dalla reggenza dell’ Ufficio Legale e Contenzioso ed assumeva quella dell’Area Vigilanza Ordinaria, in precedenza assegnata alla dott.ssa Oc., quindi con ordine di servizio n.17 del 5.07.1999 le veniva dallo Ja. attribuita anche la reggenza dell’Area Provvedimenti Amministrativi con delega alla firma di numerosi atti e provvedimenti (rilascio libretto di lavoro a cittadini extra comunitari, duplicati e variazione degli stessi; vidimazione dei registri per i corsi di formazione professionale e per le radiazioni ionizzanti; richieste per il rilascio di autorizzazioni per astensione anticipata dal lavoro per lavoratrici madri; richieste accertamenti medici per la tutela delle lavoratrici madri e richieste dati e notizie su autorizzazioni apprendisti) (cfr. all.ti nn.8 – 9 alla memoria di costituzione).
La stima e l’apprezzamento significativo nelle capacità della Ro. da parte del Dott. Ja. si desumono anche dall’ordine di servizio n.12 del 13.09.2000 con il quale il Dirigente, “… considerata la professionalità dell’Ispettore del Lavoro rag. Ro. Ro. da ritenersi maggiore rispetto agli ispettori di pari livello, di maggiore, uguale o minore anzianità che si è estrinsecata nel contributo che fornisce ed ha fornito per il raggiungimento degli obiettivi, nella qualità del lavoro e nelle conoscenze della materia e nell’osservanza degli altri doveri d’ufficio” assegnava la reggenza del Servizio Ispezioni del Lavoro alla ricorrente e successivamente, con ordine di servizio n.11 dell’8.10.2001, la responsabilità dell’Area Vigilanza Ordinaria e la reggenza di una linea di attività 5, appositamente istituita con ordine di servizio n.6 del 20.05.2002 (cfr. all.ti nn.10 – 11 – 12 al fascicolo del resistente).
Come si può notare dalla documentazione citata e non contestata la rotazione tra i vari settori della DPL della ricorrente non era stata accolta con disfavore dalla stessa fino all’ordine di servizio n.11 del 7.11.2002 con il quale il Dirigente disponeva l’assegnazione della Ro. da responsabile dell’Unità Operativa Vigilanza Ordinaria e reggente della Linea Attività 5 a responsabile dell’Unità Operativa Politiche del Lavoro e Autorizzazioni per il lavoro, unitamente ad altri funzionari, di pari qualifica, i quali venivano spostati di settore (cfr. in senso conforme dichiarazioni testimoniali Oc. An., Gi. Fa., Lo. Ga. la quale ha riferito che le rotazioni erano periodiche e riguardavano sia i dirigenti che gli ispettori).
A parere di chi scrive l’episodio sopra riportato, funditus l’ordine di servizio n.11 del 7.11.2002, oggetto di doglianza da parte dell’istante, non può essere qualificato quale atto di vessazione posto in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro la dipendente e con chiaro intento persecutorio, necessario per ritenere integrato il fenomeno del mobbing, bensì rappresenta estrinsecazione della funzione organizzativa propria del datore di lavoro che almeno fino a tale provvedimento era stata gradita dalla ricorrente, non avendo mai patito alcun danno dalla rotazione.
Non coglie nel segno la difesa della ricorrente secondo cui tale ordine di servizio sarebbe stato disposto dal Dirigente appena dopo la nomina della Ro. a rappresentante sindacale FPS CISL, posto che dalla copiosa documentazione in atti emerge in modo incontestabile che lo Ja. con frequenza annuale provvedeva alla rotazione nei vari settori della DPL dei funzionari presenti a far data dal 1997, anno in cui era stato assegnato alla Direzione Provinciale di Terni.
Sottolinea il Tribunale che ad ogni rotazione alla ricorrente venivano assegnate attività sempre riconducibili all’inquadramento nel livello VIII, connotate comunque da una responsabilità nei risultati, senza quindi che le decisioni organizzative assunte dal Dirigente possano effettivamente rappresentare indice di una condotta illecita (tenuto conto che la rotazione riguardava non solo la figura della Ro. ma anche altri colleghi).
Venendo all’esame dell’ulteriore doglianza costituita dalle note di richiamo e/o chiarimenti che la ricorrente avrebbe ricevuto in numero cospicuo (dieci) ed aventi carattere pretestuoso e persecutorio si vuole significare che le modalità dirigenziali dello Ja. erano le stesse per tutti i funzionari e prevedevano una dialettica ed un confronto anche scritto sulle pratiche assegnate ad ognuno e da evadere.
Non emerge dalle note versate in atti una volontà denigratoria o sminuente da parte del Dirigente nei confronti della Ro., ma solo la necessità di avere chiarimenti in ordine ad alcune convalide di trasformazioni di rapporto di lavoro da full time a part time, a comunicazioni prive di data ed orario che avevano impedito la trasmissione alla vigilanza per la programmazione delle ispezioni.
Ebbene le note in questione danno conto di normali dinamiche lavorative tra lo Ja. e la Ro., senza che siano ravvisabili modi e toni non pertinenti, non emerge, contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente, un accanimento ad personam ma solo un confronto lavorativo sugli incarichi assegnati dal Dirigente, cui replicava l’istante indicando le ragioni che a suo dire giustificavano i ritardi negli adempimenti, con toni assolutamente professionali e mai offensivi ovvero umilianti (cfr. all.to n.15 alla memoria di costituzione).
Non manca di sottolineare il Tribunale che tali richieste di chiarimenti provenienti dal Dirigente non erano indirizzate solo alla Ro., ma a tutti gli impiegati dell’ufficio, indice questo di una modalità gestionale – operativa finalizzata a verificare il raggiungimento degli obiettivi nell’ottica dell’ottimizzazione delle risorse disponibili (cfr. sul punto dichiarazioni testimoniali in atti Ga. Lo., Sa. Ar., Da. Te., Oc. An.).
Venendo ai due procedimenti disciplinari che hanno visto coinvolta la Ro. occorre effettuare un distinguo.
Il primo procedimento trova origine dallo scambio delle predette note a chiarimenti rispetto alle quali la Ro. era divenuta insofferente, vivendole come un atto personale tanto che a suo dire costituivano “un pretesto”, da qui origina il richiamo verbale (cfr. nota n.30/RIS all.to n.15 al fascicolo parte resistente).
Sul punto si osserva che dinanzi al Collegio arbitrale riunitosi in data 19.12.2003 il Dirigente evidenziava la natura esclusivamente organizzativa delle note inviate alla Ro. e che la contestazione disciplinare orale, irrogata a quest’ultima, si giustificava per l’atteggiamento tenuto dalla stessa all’atto di ricevimento della nota 29/Ris definita appunto “un pretesto”.
A fronte della spiegazione fornita dal Ja. la Ro. stessa ammetteva di aver mal interpretato le finalità della nota in questione, esprimendo il proprio rammarico se alcune espressioni verbali erano state interpretate diversamente da quello che il funzionario voleva esprimere (cfr. verbale collegio arbitrale di disciplina in atti).
Dal canto suo il Dirigente, con toni assolutamente neutri, riconoscendo il comportamento successivo tenuto dalla Ro. pienamente collaborativo e non dubitando che le parole dalla stessa pronunciate nel colloquio del 26.11.2002 potessero avere un significato diverso, revocava il provvedimento impugnato (cfr. esito verbale del Collegio di disciplina).
Come si può evincere dalla lettura del verbale in esame Ja. Cl. si rende disponibile nei confronti della Ro., dando atto dello spirito collaborativo del funzionario, mostrando fiducia nei suoi confronti fino a revocare la sanzione disciplinare, atteggiamento questo che mal si concilia con una pervicace volontà vessatoria e persecutoria, ma che dimostra, dopo incomprensioni generate esclusivamente da ragioni lavorative, un’apertura e una condotta conciliativa.
Quanto alla seconda sanzione disciplinare occorre premettere che il procedimento in questione non vede coinvolta solo la Ro., ma anche l’addetta alla vigilanza Lo. Ga. e trae origine da un’omissione commessa da entrambi i funzionari durante un’ispezione, al termine della quale non avevano rilasciato il verbale ispettivo attestante l’attività compiuta e la documentazione esaminata, andando in contrario avviso a quanto previsto dall’art.18 del Codice Disciplinare in uso agli ispettori del lavoro (cfr. all.to n.16 al fascicolo di parte resistente).
Con nota n.12/Ris del 19.03.2003 veniva contestata alla ricorrente la condotta tenuta in occasione della visita ispettiva e la stessa si giustificava con lettera di riscontro del 22.03.2003 spiegando le ragioni di tale omissione consentita dal comma 2. dell’art.18 del Codice di comportamento ad uso degli ispettori del lavoro, atteso che il soggetto presente al momento dell’ispezione non era il datore di lavoro della lavoratrice denunciante bensì la moglie la quale si era rifiutata nell’occasione di sottoscrivere e ricevere il predetto verbale e, pertanto, l’addetto alla vigilanza Lo. Ga. lo aveva strappato.
Dalla segnalazione redatta dal Dirigente sulla vicenda emerge invece che la Ga. aveva fornito una diversa versione dei fatti, affermando che la sospensione nella redazione del verbale era stata disposta dalla Ro. alla quale aveva consegnato, su richiesta, il verbale, versione confermata con dichiarazione a firma della Ga. datata 27.03.2003 (cfr. dichiarazione Ga. allegata al documento n.16 al fascicolo di parte resistente e non contestata).
La relazione del Ja., del tutto asettica e scevra di qualsivoglia acredine nei confronti di entrambe le dipendenti, evidenzia oggettivamente l’infrazione commessa e le versioni divergenti fornite dalle interessate, significando, comunque, che la pratica era stata assegnata alla Ro. e l’addetta alla vigilanza Ga. era solo in accompagnamento e supporto all’ispettrice.
L’attività del Dirigente appare a chi scrive doverosa e la segnalazione è avvenuta solo dopo aver sentito i due funzionari e cercato di ricostruire gli accadimenti relativi all’ispezione in questione, rispettando i diritti di difesa del dipendente mediante formale contestazione ed acquisizione di scritti difensivi.
Il codice di comportamento degli ispettori del lavoro vigente ratione temporis prevedeva: “Art. 18. Qualora l’accertamento non si esaurisca nell’arco di un’unica giornata, compreso l’eventuale consentito protrarsi del normale orario di lavoro, il personale ispettivo rilascerà al datore di lavoro o a chi lo rappresenta, per ogni ulteriore accesso effettuato, un verbale ispettivo interlocutorio, ove saranno riportate le attività compiute e la documentazione esaminata e ciò anche se dall’esame fin lì condotto non emergano gli estremi dell’illecito amministrativo o penale. Tuttavia, il personale ispettivo non è tenuto ad adempiere l’obbligo di cui al comma precedente, qualora, nel corso del singolo accesso, per impossibilità od opportunità, non abbia avuto contatti con i rappresentanti dell’azienda (cfr. Circolare del Ministero del lavoro n.70/2001 del 16.07.2001)
Nessun contenuto afflittivo e vessatorio traspare dalla procedura seguita dal Ja. il cui operato si inserisce in un contesto lavorativo dove la posizione dirigenziale ricoperta dallo stesso gli imponeva di controllare l’attività dei funzionari presenti in DPL al fine anche di migliorarne l’attività e non certamente di svilirne la professionalità, come invece percepito dalla ricorrente.
La conclusione cui perviene il Tribunale è tanto vera che l’Ufficio Procedimenti Disciplinari, pur riconoscendo che nella fattispecie ricorresse l’ipotesi eccettuativa di cui al 2. comma dell’art.18 del codice di comportamento ispettori richiamata dalla Ro. nella lettera di giustificazioni, tuttavia decretava in data 16.06.2003 nei confronti di quest’ultima la sanzione disciplinare del “rimprovero scritto” ai sensi dell’art.25, commi 1, 2 e 9 CCNL Comparto Ministeri riscontrando la negligenza dell’ispettrice, quale diretta responsabile della pratica, nel non aver tempestivamente informato il Direttore dell’intera vicenda, chiedendo i necessari chiarimenti (cfr. all.to n.16 alla memoria del Ministero).
Che l’atteggiamento del Ja. sia stato imparziale e finalizzato esclusivamente a far rispettare le procedure trova conferma anche nella testimonianza resa da Lo. Ga. la quale ha dichiarato di essere stata attinta dalla sanzione disciplinare del rimprovero verbale per la vicenda in questione, sanzione sicuramente più lieve rispetto a quella della Ro., verosimilmente perchè la responsabile dell’ispezione era la ricorrente, mentre l’addetta alla vigilanza era solo di supporto (cfr. dichiarazione Ga. Lo. verbale d’udienza del 27.10.2016).
In conclusione sul punto le risultanze documentali non hanno mostrato, a parere di chi scrive, degli abusi da parte del Dirigente Ja. che si è limitato ad applicare le disposizioni di legge e di CCNL di settore, non essendo criticabile la segnalazione dallo stesso effettuata all’Ufficio Procedimenti Disciplinari, in qualità di Direttore della DPL di Terni e responsabile del corretto funzionamento dell’Ufficio.
A parere di chi scrive anche il rimprovero verbale, poi revocato in sede arbitrale, come motivato dal Dirigente non è censurabile a fronte di una condotta tenuta dalla Ro., al momento della recezione della nota a chiarimenti, di aperta polemica con il Direttore avendo effettuato apprezzamenti sul punto (ritenendo l’invio delle note “un pretesto”).
La ricorrente si duole, altresì, degli ostacoli frapposti dal Dirigente all’attività ispettiva dalla stessa posta in essere e consistenti nello specifico nell’inviare altri collaboratori presso i soggetti ispezionati al fine di verificare il suo operato.
La contestazione non ha trovato tranquillizzante riscontro probatorio posto che la teste Pa. Se., ispettrice, sul punto è stata piuttosto generica riferendo che “Il Ja. ha ordinato ai miei colleghi di ripetere le verifiche effettuate dalla ricorrente, il che non accade ordinariamente. Non conosco che esito abbiano avuto le verifiche effettuate da altri ispettori che non sono state rese note”, così come il teste Da. Te., il quale ha ricordato che il Ja. ” … a qualcuno di noi ispettori creò problemi operativi notevoli perchè ci inviava a svolgere attività da soli, senza l’ausilio di colleghi: poi venivamo a sapere che la nostra attività veniva ricontrollata dopo 20 gg./1 mese. E ciò anche per la Ro., per il dott. Ad. Ba.. Questo piccolo gruppo di noi di 4/5 persone eravamo ricontrollati nel nostro lavoro” (cfr. dichiarazioni rese all’udienza del 15.01.2014 e del 27.10.2016) senza tuttavia illuminare il Giudicante in merito ai nominativi degli ispettori che avrebbero ripetuto le verifiche prima assegnate alla Ro. o ad altri, nè tantomeno alle pratiche che sarebbero state oggetto di rinnovazione ovvero al periodo in cui ciò si sarebbe verificato, carenze alquanto sospette e degne di essere evidenziate nella misura in cui afferiscono a fatti verificatisi in un contesto non proprio ordinario anzi di conflitto, come percepito dai testi in questione.
Il teste Sa. Ar., ispettore, ha invece, dichiarato di non ricordare interferenze particolari da parte del dott. Ja. in merito ad incarichi comuni attribuiti sia a lui che alla Ro., nè tantomeno revoche di incarichi assegnati alla Ro., riferendo solo che in un’occasione venne inviata in un luogo di lavoro un’altra ispettrice, senza aggiungere altri dettagli (verbale d’udienza del 15.10.2014).
La circostanza da ultimo ricordata dal teste Ar. è da ricondursi verosimilmente all’ispezione D’Am., la stessa che poi ha determinato la sanzione disciplinare del rimprovero scritto per la ricorrente, trovando conferma la deduzione nella testimonianza di Oc. An., ispettrice, la quale ha riportato nel dettaglio “… preciso che io conclusi la pratica D’Am. iniziata dalla Ro. ma non mi fu richiesto di verificare l’operato della collega, io emisi solo i provvedimenti sanzionatori sulla base di quanto accertato dalla Ro.; la pratica mi fu assegnata dal dott. Ja., che mi disse genericamente che c’erano stati dei problemi …”; la teste ha anche chiosato dicendo di non aver avuto altre pratiche affidategli dal Ja. ed assegnate in precedenza dalla Ro..
Anche la teste Pe. Is., ispettrice, ha riferito che “… di questa cosa se ne parlava in ufficio come verificatasi ma a me non venne dato alcun incarico dal Ja.” (cfr. verbale d’udienza del 27.10.2016 in atti).
Infine anche il teste Gi. Fa., dipendente della DPL, ha dichiarato di non sapere nulla di controlli da parte del Ja. sulle pratiche in carico alla Ro..
Dal quadro probatorio sopra illustrato non può evincersi alcuna forma di controllo da parte del Ja. mediante riassegnazione ad altri ispettori di pratiche della Ro., con la sola eccezione del fascicolo D’Am. rispetto al quale, a fronte della contestazione disciplinare mossa alla ricorrente, correttamente il Dirigente provvedeva alla rassegnazione ad altro ispettore per la conclusione.
Per altro non manca di osservare il Tribunale che in tale occasione il contegno del Ja. è stato assolutamente professionale nella misura in cui assegnando la pratica all’ispettore Oc. An. si limitò solo a riferirle che c’erano stati problemi senza scendere nel dettaglio nè tantomeno accanirsi con la collega, avendo cura di affrontare la situazione tenendo una condotta neutra.
La ricorrente deduceva di essere stata costantemente vittima di aggressioni verbali, rimproveri, umiliazioni, atteggiamenti persecutori, in presenza dei colleghi, da parte del Ja., con svilimento della sua persona e professionalità.
Sempre dalla fine del 2002 l’istante colloca un significativo inacerbirsi dei rapporti professionali con il proprio Dirigente che, a suo dire, avrebbe assunto condotte via via sempre più pregiudizievoli non solo della propria personalità ma anche dell’integrità fisica e psichica.
Di ciò ha riferito la teste Se. la quale ha ricordato che “nelle riunioni o in privato il Ja. assumeva un atteggiamento inquisitorio, derisorio, intimidatorio. Quotidianamente, anche nel corso delle riunioni il dott. Ja. accusava le persone non a lui allineate di far mal funzionare l’ufficio e minacciava più o meno velatamente provvedimenti disciplinari o organizzativi. Ho visto personalmente trasferire invalidi civili a 100 km di distanza in sedi distaccate, io stessa sono stata sospesa da incarichi che avevo dall’oggi al domani. Ho sentito il dr. Ja. rivolgere le espressioni “siete tutti dei venduti” e “siete dei delinquenti” nel corso delle riunioni cui partecipava anche la ricorrente, con riferimento alle persone che manifestavano dissenso, sia pure teoricamente e moralmente, rispetto alla sua gestione. Il dr. Ja. diceva in presenza di più persone in ufficio che non erano stati raggiunti gli obiettivi richiesti, anche sotto il profilo quantitativo, ed imputava ciò alla sig.ra Ro.. In contesti che coinvolgevano tutti gli ispettori ho sentito il dott. Ja. dire che la sig.ra Ro. mancava di competenza e di professionalità. Dette espressioni erano pronunciate nel corso di riunioni e comunque in ufficio in presenza di dipendenti dell’Amministrazione”.
Il teste Da. Te. nel dettaglio ha ricordato “frasi del tipo vi stritolo, voi non sapete quanti giri fa una boccia, … le frasi erano queste, in corso di riunioni o anche in incontri/ ambiti più ristretti. L’intento era quello di intimidazione. le frasi di cui ho detto erano indirizzate anche alla Ro.. Il dott. Ja. nei confronti della Ro. contestava il sistema della programmazione ed il flusso delle pratiche o la durata, avocava a sè pratiche che poi non si sapeva più che fine avessero fatto”.
Il teste Sa. Ar. ha riferito solo che il Dirigente urlava non solo nei confronti della Ro. ma anche di altre persone ed ha confermato l’utilizzo da parte del Ja. dell’espressione “io vi stritolo”.
Le testi Oc. An., Is. Pe. non hanno mai sentito urlare il Ja. contro la Ro. o usare nei confronti della stessa espressioni ingiuriose ovvero offensive; mentre le testi Lo. Ga., Be. Pe. e Gr. Pe. nulla hanno riferito sul punto.
Innanzitutto bisogna sottolineare come alcune frasi, certamente censurabili e non consone ad un Dirigente di un Ufficio pubblico, non erano indirizzate solo alla Ro. ma anche al resto del personale presente alle riunioni organizzative e sebbene l’assunzione di toni effettivamente alterati abbia trovato riscontro nelle dichiarazioni testimoniali se ne evidenzia l’utilizzo in un quadro eminentemente professionale ove il Dirigente criticava la ricorrente per il sistema utilizzato nella programmazione delle ispezioni e comprensibilmente nell’ottica di una ottimizzazione delle risorse finalizzate al raggiungimento degli obiettivi che forse a suo avviso la Ro. non sempre era in grado di gestire.
In effetti non ci furono offese specifiche, insulti o vie di fatto ma solo divergenze su comportamenti tenuti dalla Ro. nell’organizzazione del settore di cui era responsabile.
La critica di scarsa competenza e professionalità rivolta alla Ro. dal Ja. e riferita dal teste Se. si scontra peraltro con gli attestati di stima che il Dirigente ha manifestato per la ricorrente e di cui vi è traccia documentale in atti.
Non sfugge, peraltro, a chi scrive che i testi Se. e Te. sono apparsi animati da eccessiva acredine nei confronti del Ja., sicuramente per divergenze sorte in ambito lavorativo, risultando, inevitabilmente, la loro dichiarazione poco convincente.
Si può concludere quindi che le divergenze di opinioni sulla gestione ed organizzazione del settore affidato alla Ro., ma non solo a lei, sfociate anche in concitate contestazioni da parte del Ja., soggetto sicuramente spigoloso e dai modi piuttosto bruschi, non possano essere ricondotti nell’alveo della vessazione e prevaricazione, anche psicologica, rientrando piuttosto in una dialettica professionale animata ed in dinamiche, a volte conflittuali, proprie di ambienti lavorativi caratterizzate da molteplici funzioni, attività e gestiti da soggetti con personalità differenziate.
Infine deve essere esaminata l’asserita condotta mobbizzante di assegnazione alla ricorrente di un ufficio isolato adibito a magazzino, disposta dal Dirigente con chiaro intento di prevaricazione.
Il teste Sa. Ar. ha chiarito che l’ufficio in questione era collocato al piano terra ed era formato da due stanze collegate da un corridoio, originariamente adibito a magazzino e poi risistemato per trasformarlo in ufficio assegnato alla Ro., adiacente ad un ambiente open space destinato all’accoglienza ed allo sportello per le pratiche dei cittadini extracomunitari, mentre gli altri uffici del personale ispettivo ed amministrativo si trovavano al 1., 2. e 3. piano.
Il teste ha confermato che dopo la Ro., l’ufficio venne assegnato anche all’Oc. e poi al nucleo NIL dei Carabinieri.
Negli stessi termini anche la dichiarazione della teste Lo. Ga. la quale ha ricordato che “… nel tempo ci sono stati gli addetti agli extra comunitari, personale amministrativo, oggi ci sono i Carabinieri. Non so indicare il periodo preciso in cui ci fu la Ro.. Mi ricordo l’ufficio era occupato prima e dopo ma non so dire da chi, ricordo una assistente sociale”.
La teste Oc. An. ha confermato che tale ufficio faceva parte di un appartamento appena ristrutturato, costituito da due stanze assegnate al personale, più un bagno ed uno stanzino dove erano state collocate delle stampanti; ha aggiunto, riscontrando positivamente le testimonianze sopra esposte, che accanto alla Ro. vi erano due colleghe che si occupavano delle pratiche per i cittadini extracomunitari.
La teste è risultata particolarmente convincente, sia perchè anche lei aveva occupato l’ufficio in questione, come confermato dall’Ar., sia perchè tale dichiarazione non risulta smentita da testimonianze di segno contrario ugualmente attendibili.
Non convincono, infatti, le testimonianze degli ispettori Se. e To. secondo i quali la Ro. venne nella sostanza segregata dal Ja. in un posto angusto, praticamente uno sgabuzzino, completamente isolata dal resto del personale con il chiaro intento di emarginarla dall’Ufficio.
Si rammenta che lo stesso ufficio ospitò sia la Oc. (che al pari della Ro. era stata responsabile di una sezione della vigilanza ordinaria, capo Servizio Ispezione Lavoro e reggente dell’Ufficio) la quale, quindi, venne ugualmente spostata lontano dal resto degli ispettori i cui uffici si trovavano al 3. piano dello stesso edificio, sia il NIL del Carabinieri che, alla stessa stregua delle funzionarie citate, si occupano di attività ispettiva.
Non è emersa prova che il trasferimento dell’ufficio della Ro. al piano terra abbia compromesso i rapporti con gli altri colleghi, circostanza solo dedotta dalla difesa attorea tuttavia rimasta indimostrata.
Non spostano le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale nè la relazione dell’Ispettore Ca. che risale al 1997 e quindi ben prima degli episodi che hanno riguardato la ricorrente, nè la richiesta di archiviazione a firma del P.M. Dott.ssa Massini rispetto alla quale nulla emerge della situazione specifica afferente la Ro..
In conclusione non può ritenersi dimostrato il nesso causale tra la condotta datoriale ed evento lesivo prodottosi e l’intento persecutorio del datore di lavoro; sul punto ex adverso deve sottolinearsi, nella considerazione complessiva della vicenda, l’atteggiamento disponibile del datore di lavoro e non certo persecutorio che è venuto incontro alla ricorrente conciliando e revocando la sanzione del rimprovero verbale, assegnando alla Ro. incarichi di rilievo sempre corrispondenti alla qualifica posseduta, sebbene a turnazione con altri funzionari di pari livello, motivando le richieste di chiarimenti, poco gradite alla ricorrente, con esigenze di verifica dell’attività dell’Ufficio, elogiando in più ordini di servizio la professionalità e preparazione dell’ispettrice.
Non vi sono elementi, pertanto, per affermare che il datore di lavoro abbia posto in essere una serie di condotte volte ad emarginare la ricorrente al fine di determinarne uno svilimento personale e professionale con danno anche all’immagine nella struttura dove operava, manca infatti nel caso di specie la frequenza delle condotte vessatorie tenute nell’arco di un periodo di tempo significativo, nonchè l’elemento psicologico dell’intento persecutorio.
In conclusione, deve essere in questa sede affermata l’assenza di prova circa l’animus nocendi da parte del datore di lavoro nei confronti della ricorrente: in assenza di circostanze concrete che consentano di affermare che la condotta datoriale sia stata posta in essere al solo fine di danneggiare la lavoratrice, non vi sono elementi per affermare, al di là di singoli e irrilevanti episodi, che la stessa sia stata vessatoria o persecutoria integrante, quindi, la fattispecie del mobbing.
Anche ai fini del danno alla professionalità non è provata l’esistenza di alcun danno neppure sotto il profilo presuntivo, stante altresì i numerosi incarichi che la ricorrente ha avuto presso l’Ufficio in questione, assegnati proprio dal Ja. e corrispondenti alla qualifica dalla stessa posseduti (dapprima VII. poi VIII. livello) non può certo sostenersi che la Ro. abbia subito una battuta d’arresto alla propria carriera per effetto delle vicende per cui è causa vissute presso la DPL di Terni, durante la Dirigenza Ja..
Il Giudicante non ignora che secondo gli ultimi approdi giurisprudenziali della Suprema Corte in materia (cfr. Cass. n. 18927/2012), il giudice di merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri -, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro. L’auspicio della Suprema Corte, in particolare, concerne l’opportunità, al fine della corretta individuazione della potenzialità lesiva delle indicate condotte, di tenere anche conto degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Ad ogni modo, anche tenendo presente siffatta evoluzione, nel caso di specie non sono stati dedotti, nè risultano provati, profili discriminatori specifici della condotta datoriale, ad esempio fondati sull’orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, età, razza, origine etnica della lavoratrice (rilevanti ai sensi dei D.Lgs. n. 215 e D.Lgs. n. 216 del 2003, attuativi delle direttive comunitarie in materia). Nè sono stati forniti elementi precisi e concordanti, che fondino la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori per una delle ragioni prese in considerazione.
In altri termini, nel caso in esame, tutti gli indicati fatti emersi nel corso dell’istruzione, valutati singolarmente e gli uni per mezzo degli altri, non appaiano connotati da lesività tali da dare luogo a mobbing; nè essi od alcuni di essi, ancorchè finalisticamente non accumunati, per le loro modalità dì esplicazione, risultano lesivi dei fondamentali diritti del lavoratore costituzionalmente tutelati (da intendere, nella specie, anche tenendo conto della normativa UE in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio), rientrando, piuttosto nella fisiologica dinamica dei rapporti datore – lavoratore. Ne consegue che, in difetto di prova dell’asserito mobbing, nessuna somma può essere riconosciuta alla ricorrente a titolo risarcitorio.
La non riconducibilità degli episodi lamentati dalla ricorrente nell’istituto del mobbing preclude l’esame della documentazione medica prodotta dall’istante in quanto la sindrome depressiva, alla luce di quanto esposto, non può essere causalmente derivata dalla condotta posta in essere dal Dirigente della DPL di Terni.
Restano assorbite tutte le questioni non espressamente esaminate.
La complessità dell’istruttoria e delle questioni affrontate giustifica l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
disattesa ogni diversa istanza, eccezione o deduzione, il Tribunale di Terni, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:
– rigetta il ricorso nei confronti del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per le ragioni di cui alla parte motiva;
– compensa tra le parti le spese del giudizio.
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