CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 luglio 2018, n. 17486
Imposte dirette – IRPEF – Redditometro – Professionista – Crediti derivanti da prestazioni professionali
Ritenuto che
In data 15/04/2013, A.S., con ricorso al Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Pozzuoli, proposto avverso la Agenzia delle entrate e la Direzione Provinciale 1- Napoli, chiedeva che venisse riconosciuta la gravità dei pregiudizi e dei danni della privacy che potevano derivargli dall’applicazione del D.M. del Ministero dell’Economia e delle Finanze 24 dicembre 2012 (in G.U. n. 3 del 04/01/2013) emesso in attuazione del d.P.R. 29 settembre 1973, n.600, istitutivo del c.d.. redditometro, alla luce del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e che venisse ordinato all’Agenzia di astenersi dal raccogliere dati ed informazioni, nonché di monitorare le spese effettuate o effettuande da esso ricorrente, omettendo in particolare di archiviare e mantenere l’archivio dei relativi dati; chiedeva altresì che venisse ordinato all’Agenzia di omettere le predette attività nonché – ove le stesse fossero già state poste in essere – di distruggere e cancellare i dati acquisisti e l’archivio degli stessi. L’Agenzia resisteva controdeducendo; si costituiva quale interventore l’Ordine degli avvocati di Napoli che rassegnava conclusioni analoghe a quelle del ricorrente.
Il Tribunale di Napoli, con la pronuncia impugnata in epigrafe indicata, accoglieva il ricorso e, per l’effetto, ordinava all’Agenzia delle entrate di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/1973 e di cessare, ove, iniziata, ogni attività di accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere relativi alla posizione del ricorrente; ordinava altresì all’Agenzia di comunicare al ricorrente se era in atto un’attività di raccolta dati nei suoi confronti ai fini dell’applicazione del c.d. redditometro e, in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi formatisi successivamente al 21/12/2012 e previa specifica informazione a parte del ricorrente.
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione con sei mezzi, corredato da memoria ex art.378 cod. proc. civ.; ha replicato con controricorso il contribuente, mentre il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli è rimasto intimato.
Il ricorso è stato fissato per l’adunanza in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.
Il sostituto Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte.
Considerato che
1.1. Nel rassegnare le conclusioni la Procura Generale ha chiesto di disporre il rinvio della trattazione del ricorso in pubblica udienza in ragione della portata innovativa delle questioni sottese, concernenti la possibilità di ricorrere innanzi al giudice ordinario per ottenere una tutela preventiva del proprio diritto alla tutela dei dati personali; in subordine ha chiesto l’accoglimento del ricorso e, in ulteriore subordine, la rimessione della controversia al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, in merito all’individuazione del criterio da utilizzare per la scelta del rito cui destinare la controversia.
1.2. Le richieste di remissione alla pubblica udienza ed al Primo Presidente vanno disattese.
1.3. Quanto alla prima, ritiene la Corte di dare seguito al condiviso principio secondo il quale «Non sussiste alcun obbligo, né vi sono ragioni di opportunità, perché, all’esito dell’adunanza in camera di consiglio, il collegio rimetta la causa che preveda la trattazione di questioni rilevanti o, comunque, prive di precedenti in pubblica udienza, mediante una sorta di mutamento del rito di cui all’art. 380-bis. 1 cod. proc. civ. Invero, una simile soluzione sarebbe priva di costrutto, essendo la trattazione con il rito camerale pienamente rispettosa sia del diritto di difesa delle parti, le quali, tempestivamente avvisate entro un termine adeguato del giorno fissato per l’adunanza, possono esporre compiutamente i propri assunti, sia del principio del contraddittorio, anche nei confronti del P.G., sulle cui conclusioni è sempre consentito svolgere osservazioni scritte» (Cass. n. 8869 del 05/04/2017): questo principio, che non prevede l’obbligo, ma neppure vieta, nei casi indicati la remissione alla pubblica udienza, è in linea con il disposto dell’art. 375, ultimo comma, cod. proc. civ. che parla di “opportunità” della trattazione in pubblica udienza, che nel caso di specie non ricorre.
Tale conclusione, peraltro, non contrasta in modo insuperabile con altri orientamenti espressi da questa Corte che hanno valorizzato, appunto, la possibilità di un mutamento del rito a favore della pubblica udienza e non la sua obbligatorietà, sottolineando che tale opzione non era ostacolata dalla assegnazione della causa alle sezioni ordinarie in camera di consiglio (Cass. n. 5533 del 06/03/2017; Cass. n. 19115 del 01/08/2017).
1.4. In mancanza di un sostanziale contrasto e non ravvisandosi una questione di massima di particolare importanza, quanto alla seconda richiesta, va escluso anche che vi sia una plausibile ragione per rimettere la questione e il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
1.5. Il ricorso può essere pertanto trattato in adunanza camerale, risultando comunque garantito il pieno contraddittorio su tutte le problematiche toccate dall’oggetto della decisione impugnata e dal contenuto del ricorso e del controricorso.
2.1. Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso proposte dal controricorrente.
2.2. Questa eccezioni vanno tutte disattese.
Per quanto riguarda la prima e la seconda eccezione, va osservato che il controricorrente, lamentando che il ricorso non si sarebbe confrontato con la giurisprudenza di legittimità e con le regole giurisprudenziali sovranazionali in contrasto con il decisum impugnato, non solo non ha sostanziato di specifici riferimenti tale doglianza, limitandosi a frasi assertive prive di argomentazioni circa la concreta rilevanza, ma ha trascurato che la questione affrontata nel giudizio risulta sostanzialmente nuova.
Va quindi disattesa la terza eccezione, in quanto ai sensi dell’art.10, comma 6, del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, per tutte le controversie in materia di applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali è previsto un solo grado del giudizio ordinario di merito, con la conseguenza che la sentenza emessa è direttamente ricorribile in cassazione.
Anche le eccezioni quarta, con la quale si denuncia una difettosa formulazione della rubrica dei motivi del ricorso, quinta, riferita alla mancanza di un elenco dettagliato dei documenti su cui si fonda il ricorso, e sesta, concernente l’inesatto – a detta del controricorrente – richiamo normativo contenuto nella rubrica dei motivi e la non riconducibilità dei motivi stessi ai vizi denunciati, sono da respingere. Invero la non puntuale formulazione della rubrica, così come la sovrabbondante indicazione di riferimenti normativi e la inesatta indicazione del vizio denunciato non determinano di per sé l’inammissibilità del ricorso ove la Corte – come nel caso di specie, alla luce della complessa ed articolata esposizione dei motivi
– possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 14026 del 03/08/2012), cosi come non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata di doglianza, tra quelle in cui è li consentito adire il giudice di legittimità, purché si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo a inficiare la pronuncia (Cass. n. 1370 del 21/01/2013). Quanto alla mancata indicazione dell’elenco dei documenti, l’eccezione risulta generica in quanto priva di riferimenti a specifici documenti ed alla concreta rilevanza.
3.1. Passando all’esame dei motivi, si osserva che l’Agenzia, nel proporre il ricorso, ha individuato due statuizioni in cui sarebbe articolata la sentenza impugnata:
A) la prima rinvenibile nell’ordine rivolto all’Agenzia stessa, con il dispositivo della sentenza, «di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/1973 e di cessare, ove, iniziata, ogni attività di accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere relativi alla posizione del ricorrente», nonché «… di distruggere tutti i relativi archivi formatisi successivamente al 21/12/2012»;
B) la seconda individuata nel passaggio motivazionale dove è affermato che il D.M. 24/12/2012 n.65648 «è non solo illegittimo, ma radicalmente nullo ai sensi dell’art. 21 septies legge n. 241/19990 per carenza di potere e difetto assoluto di attribuzione in quanto emanato fuori dalla legalità costituzionale e comunitaria».
Quindi ha articolato le censure sub A) in relazione alla prima statuizione e le censure sub B), in via subordinata, in relazione alla seconda, mediante tre motivi per ciascuna.
3.2.1. Con riferimento alla prima statuizione concernente l’inibizione del potere dell’amministrazione di effettuare accertamenti ex art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/1973 e l’ordine di distruzione dei dati archiviati riguardanti il contribuente, la ricorrente articola tre motivi sub A).
3.2.2. Primo motivo (A1) – Violazione degli artt. 37 (difetto di giurisdizione) e 99 (principio della domanda) cod. proc. civ. (art. 360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.).
La ricorrente eccepisce l’improponibilità e/o l’inammissibilità della domanda, sia perché la parte era carente di legitimatio ad causam – mancando una posizione giuridica soggettiva riconducibile ad una norma astrattamente idonea a configurare il diritto azionato e tutelabile -, sia per l’avvenuta adozione di una pronuncia che eccedeva i limiti della potestà giurisdizionale del giudice nei confronti dell’Amministrazione dello Stato.
L’Agenzia lamenta che il provvedimento impugnato non si sia limitato a inibire, anche in via preventiva, l’utilizzazione del D.M. 24/12/2012 e a disapplicarlo, ma che, travalicando i poteri del giudice ordinario, abbia emesso l’ordine di non intraprendere le attività accertative con metodo sintetico, disciplinate dall’art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/1973.
Sottolinea in proposito che il D.M. si limita a disciplinare le modalità di trattamento dei dati – raccolti e conservati in base ad altre e diverse disposizioni di legge -, al fine di determinare mediante un complesso procedimento di elaborazione, il presumibile reddito imponibile del contribuente e che, quand’anche dovesse venire meno l’applicazione di detto strumento attuativo, resterebbe comunque impregiudicato il potere/dovere dell’Amministrazione finanziaria di raccogliere e conservare i dati e di procedere all’accertamento, anche se non mediante il redditometro.
Ricorda che la potestà impositiva dell’Amministrazione si fonda sull’art. 53 della Cost. e sulla legislazione ordinaria che disciplina l’attività di accertamento e la raccolta dei dati attuata presso l’Anagrafe tributaria, che tale complesso di norme va armonizzato con la disciplina della protezione dei dati personali, considerato il disposto degli artt. 18, commi 2 e 3, 19, comma 1, 20, comma 1, 66 del d.lgs. n. 196/2003, secondo quanto previsto dall’art. 154, comma 4, del d.lgs. cit. che prevede che gli atti dell’Amministrazione relativi al trattamento di dati personali sono sottoposti al parere del Garante, a garanzia della legalità dell’azione amministrativa.
Conclude sostenendo che, con la statuizione impugnata, il Tribunale non si è limitato a disapplicare il D.M., ma ha disapplicato le norme di legge che, ove ritenute non legittime, avrebbero dovuto essere sottoposte al vaglio della Corte Cost.
3.2.3. Secondo motivo (A2) – Violazione e falsa applicazione dell’art. 152 del d.lgs. n. 196/2003 e dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. 1° settembre 2011, n.150, in relazione all’art. 4 del d.lgs. n. 196/2003 (art. 360, primo comma, n. 2, cod. proc. civ.).
Secondo la ricorrente, il Tribunale erroneamente a ritenuto la propria competenza, sul presupposto che il diritto dell’attore fosse messo a repentaglio dall’attività accertativa dell’Ufficio delle entrate competente per il circondario di residenza del contribuente.
Sostiene quindi che la competenza territoriale, funzionale ed inderogabile, andava individuata nel Tribunale in cui aveva la residenza “il titolare del trattamento dei dati” e cioè l’Agenzia delle entrate che attraverso apposito software applicativo, provvedeva ad acquisire ed elaborare i dati disponibili nell’Anagrafe Tributaria ed a comunicarli agli Uffici periferici per i successivi adempimenti, di guisa che la competenza andava radicata presso il Tribunale di Roma.
3.2.4. Terzo motivo (A3) – Violazione e falsa applicazione dell’art. 53 e dell’art. 101 Cost.; dell’art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/1973, come modificato dall’art. 22 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con mod. dalla legge 30 luglio 2010, n. 122; del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 605, nonché dell’art. 66 del d.lgs. n. 196/2003 in rel. agli artt. 20 e 21 dello stesso d.lgs. (art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.).
Secondo la ricorrente le statuizioni del Tribunale sono manifestamente illegittime per violazione delle norme anzidette che disciplinano l’accertamento sintetico, sia puro (art. 38, comma 4, del d.P.R. n. 600/1973) che redditometrico (art. 38, comma 5, del cit. d.P.R.).
La ricorrente sostiene che il Tribunale ha errato nel porre quale presupposto essenziale della decisione, l’asserita esistenza di un nesso di causalità tra il D.M. 24/12/2012 – che disciplina il nuovo redditometro – ed il potere di accertamento dell’Amministrazione, che ha ritenuto di dover inibire.
Rimarca che il D.M. in questione rappresenta esclusivamente un modello tecnico operativo per effettuare la stima del reddito, sulla scorta di dati ed elementi acquisiti aliunde in attuazione di altre leggi e regolamenti.
Afferma che la fonte del potere dell’Amministrazione di raccogliere, conservare e trattare i dati personali discende dalle regole generali desumibili dagli artt. 18, 19 e 68 del d.lgs. n. 196/2003 (in materia di tutela dei dati personali), dal d.P.R. n. 605/1973 (istitutivo dell’Anagrafe tributaria), dall’art. 21 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (disposizioni per istituti bancari e operatori commerciali, etc.), del tutto autonome e non influenzate dal D.M. di cui si discute.
Si duole che l’ordine di non eseguire accertamenti e distruggere i dati attui un’illegittima ed eccessiva disapplicazione di norma di legge.
Sostiene che la presunta illegittimità del D.M. non avrebbe potuto incidere sull’applicabilità dell’art. 38, comma 4, del d.P.R. n. 600/1973 che disciplina l’accertamento sintetico “puro” e che l’asserita illegittimità del “redditometro” non avrebbe potuto giustificare il divieto di raccolta e di utilizzazione dei dati e l’ordine di distruzione, come formulato, trattandosi di attività non disciplinate dal D.M. in questione, di guisa che il provvedimento avrebbe dovuto essere inteso solo ad impedire l’uso del D.M. elaborato dal Ministero.
Sulla scorta delle considerazioni svolte la ricorrente esclude la sussistenza di ragioni di una tutela preventiva.
Sostiene che non essendo in discussione il potere di raccolta e di utilizzazione dei dati (disciplinato da altre leggi) il tema controverso è limitato alla specifica attività di trattamento, al fine di evitare che le modalità operative risultino contrarie al d.lgs. n.196/2003; riconosce i rischi del trattamento dei dati fiscali, ricordando che sono stati evidenziati anche dal Garante nel provvedimento del 21/11/2013. Tuttavia, afferma che l’emanazione del D.M. non ha comportato l’immediato avvio dell’attività accertativa dell’Agenzia, che richiedeva la necessaria elaborazione di un software applicativo sulla base di apposita circolare dell’Agenzia delle entrate sottoposta al parere del Garante che si è espresso con il provvedimento del 21/11/2013 sul cui specifico contenuto si sofferma, per giungere alla conclusione che il possibile contrasto tra le previsioni del D.M. e il d.lgs. n.196/2003 non sembra idoneo a comportare ipotetiche lesioni irreparabili dei diritti della personalità, ma solo la correttezza dei risultati finali, attesa la possibilità che un uso dei dati disponibili non conforme alle regole vigenti potesse condurre a risultati inadeguati, in violazione dei diritti (diversi da quelli della personalità) che attengono esclusivamente al rapporto tributario. La ricorrente afferma che il bene giuridico esposto a rischio dal D.M. non è un diritto della personalità, anche se dovesse derivare dalla violazione del d.lgs. n.196/2003, di guisa che non potrebbe configurarsi il pericolo di un danno grave ed irreparabile tale da richiedere la immediata tutela ex ante, dovendosi invece ritenere sufficiente la tutela ex post per il contribuente che ritenga di essere assoggettato ad oneri tributari maggiori del dovuto a causa dell’illegittimità del redditometro. Ricorda la giurisprudenza della Cassazione sulla illegittimità di domande volte all’accertamento anticipato dell’inesistenza di una obbligazione tributaria.
Afferma, infine, che il D.M. non era operativo, in assenza dell’emanazione della circolare attuativa dell’Agenzia delle entrate e dell’elaborazione dell’apposito software applicativo, previa acquisizione del parere del Garante.
3.3.1. Con riferimento alla seconda statuizione concernente la ipotizzata pronuncia di nullità del D.M. la ricorrente propone altri tre motivi articolati sub B), in via subordinata e cautelativa, qualora si dovesse ritenere che la sentenza in esame non si sia limitata a disapplicare il provvedimento ministeriale, ma abbia inteso dichiarare la nullità dello stesso mediante un’autonoma statuizione idonea a passare in giudicato.
3.3.2. Quarto motivo (B1) – Violazione e falsa applicazione dell’art.102 Cost. dell’art.7 del d.lgs. 2 luglio 2010, n.104, nonché degli artt. 152 e ss del d.lgs. n.30 giugno 2003, n.196 (art. 360, primo comma, n.1, cod. proc. civ.).
La ricorrente censura la decisione impugnata assumendo che il Tribunale ha dichiarato la nullità del DM perché violerebbe i diritti soggettivi dell’attore, in quanto le disposizioni sarebbero lesive del suo diritto alla riservatezza: osserva, però, che solo alcune delle argomentazioni (lettere c) j) K), I) ed m), come riepilogate in ricorso, fol. 26/28) utilizzate dal Tribunale hanno attinenza con la tutela della privacy: ne deduce che la sentenza è perciò viziata da eccesso di potere giurisdizionale, nella parte in cui investe tutti gli altri profili estranei alla tutela del trattamento dei dati personali.
3.3.3. Quinto motivo (B2) – Violazione e falsa applicazione dell’art.101 cod. proc. civ. (art. 360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.).
La ricorrente sostiene che la sentenza, qualora avesse inteso accertare e dichiarare la nullità del D.M., sarebbe illegittima in quanto emessa nei confronti di soggetto non legittimato, da ravvisarsi – a suo dire – nel Ministero delle Finanze.
3.3.4. Sesto motivo (B3) – Violazione e falsa applicazione degli artt.2, 3, 13, 14, 24, 47 e 53 della Cost.; degli artt. 1, 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali della U.E.; dell’art.13 del Trattato dell’Unione Europea; della legge m. 241/1990; dell’art. 38 del d.P.R. n. 600/1973, nel testo novellato dall’art. 22, comma 1, del d.l. 21 n. 78/2010; del d.P.R. 29/09/1973, n.605; dell’art.21 del d.l. n. 78/2010 in relazione agli artt. 18, 19, 20 e 66 del d.lgs. n. 196/2003 (art. 360, primo comma, n.3, cod. proc. civ.).
La ricorrente sostiene che il Tribunale ha errato nel ritenere che il D.M. costituisca la fonte del potere dell’Agenzia di utilizzare i dati relativi alla spesa dei contribuenti per fini accertativi.
4.1. Il primo ed il terzo motivo possono essere trattati congiuntamente per connessione e vanno accolti perché fondati, nei termini e nei limiti di seguito precisati.
4.2. Osserva la Corte che la controversia, pur afferente a dati di rilievo fiscale, è centrata sulla violazione della disciplina del trattamento dei dati personali, di guisa che occorre prendere in esame, innanzi tutto, le disposizioni che disciplinano il diritto di accesso ai dati personali e agli altri diritti enunciati dall’art. 7 del d.lgs. n.196/2003, per quel che rilevano in questa sede.
4.3. Dalla lettura dell’art.7 cit. si evince che l’interessato ha diritto di ottenere la conferma o meno dell’esistenza di dati personali che lo riguardano e la loro comunicazione in forma intellegibile (primo comma), nonché di ottenere le ulteriori informazioni di cui al secondo comma , ed ancora di ottenere l’aggiornamento, la rettificazione o l’integrazione dei dati, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge (terzo comma) e di opporsi per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta.
4.4. A fronte di questi diritti/poteri dell’interessato, l’originario ricorrente S. – sul presupposto dei gravissimi pregiudizi che gli sarebbero potuti derivare dall’attivazione in concreto delle procedure di accertamento secondo le modalità del D.M. 24/12/2012 e della nullità o inesistenza di detto decreto per difetto assoluto di attribuzione, per essere stato emanato non solo contro ma fuori dalla legalità costituzionale e comunitaria, o comunque della sua illegittimità con necessità della sua disapplicazione – ha chiesto, riconosciuta la gravità dei pregiudizi e dei danni:
– ordinarsi all’Agenzia delle entrate di astenersi dal raccogliere dati e informazioni, nonché di monitorare le spese effettuate o effettuande dal ricorrente, omettendo in particolare di archiviare e mantenere l’archivio dei relativi dati;
– ordinarsi all’Agenzia di omettere le predette attività nonché – ove queste fossero già state poste in essere – di distruggere e cancellare i dati acquisiti e l’archivio degli stessi.
4.5. Il Tribunale, sul presupposto che il D.M. 24/12/2012 fosse nullo per carenza dei presupposti di esistenza del relativo potere come disciplinato dalla norma attributiva (carenza di potere) – in quanto non rispettoso delle condizioni fissate dall’art. 38 d.P.R. n.600/1973 e della restante normativa primaria applicabile alla fattispecie, in particolare del codice della riservatezza – e dovesse essere pertanto disapplicato, ha accolto il ricorso, ordinando all’Agenzia di non intraprendere alcuna ricognizione, archiviazione o comunque attività di conoscenza e utilizzo dei dati relativi a quanto previsto dall’art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n.600/1973 e di cessare, ove iniziata, ogni attività di accesso, analisi, raccolta dati di ogni genere relativi alla posizione del ricorrente; nonché ordinando all’Agenzia di comunicare se era in atto un’attività di raccolta dati nei suoi confronti ai fini dell’applicazione del redditometro e , in caso positivo, di distruggere tutti i relativi archivi formatisi successivamente al 24/12/2012.
4.6. Tale decisione è errata e va cassata.
4.7. Appare prioritario, per un corretto inquadramento normativo della questione, ricordare che il potere dell’Amministrazione finanziaria di svolgere attività accertative con metodo sintetico trova il suo fondamento, non già nel citato D.M., che disciplina soltanto le modalità di trattamento dei dati, raccolti ed elaborati in base ad altre e diverse disposizioni di legge, ma in primo luogo nell’art. 38, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/1973, nel contesto della potestà impositiva dell’Amministrazione che si fonda sull’art. 53 Cost. e nell’attività di accertamento e di raccolta di dati attuata presso l’Anagrafe tributaria.
4.8. Sulla base di tali premesse non può dubitarsi che la domanda introduttiva del ricorrente, come sopra illustrata, da un lato esorbitasse dall’insieme dei diritti enunciati dall’art. 7 del d.lgs. n. 196/2003, con conseguente difetto di legitimatio ad causam dello stesso ricorrente, nella parte relativa alla richiesta di astenersi dal raccogliere dati e informazioni, nonché di monitorare le spese effettuate o effettuande dal ricorrente, omettendo in particolare di archiviare e mantenere l’archivio dei relativi dati, non essendo l’astensione, da parte dell’Amministrazione, dall’attività di raccolta dati e informazioni oggetto di alcuno dei diritti enunciati nello stesso art. 7, e sotto altro profilo, nella parte relativa alla richiesta di distruggere e cancellare i dati acquisiti e l’archivio degli stessi, si scontrasse inequivocabilmente, restando priva di fondamento, con la previsione all’art. 7, comma 3, del diritto alla cancellazione o al blocco dei dati trattati in violazione di legge, laddove nel caso di specie il trattamento dei dati trova fondamento diretto nella disposizione di legge e, segnatamente nell’art. 38 citato, come integrato con l’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 196/2003, che stabilisce che il trattamento da parte di un soggetto pubblico riguardante dati diversi da quelli sensibili e giudiziari, è consentito, per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente.
4.9. E’ appena il caso di rilevare, inoltre, che i diritti di cui all’art. 7 concernono il trattamento illegittimo di dati specificamente individuati e non genericamente il trattamento di tutti i dati riguardanti un interessato e indistintamente indicati, come dedotto nella specie dal ricorrente anche con riferimento al diritto all’opposizione per motivi legittimi al trattamento dei dati personali (art. 7, quarto comma) traducendosi altrimenti l’iniziativa in una non consentita opposizione da parte del contribuente all’azione di accertamento dell’Amministrazione, fondata su disposizioni di legge, così da impedire all’Amministrazione di esercitare le potestà ad essa attribuite dalla legge.
4.10. Va inoltre rilevato che la sentenza impugnata, con il dispositivo sopra richiamato, ha attribuito al ricorrente una tutela che esorbita dall’ambito dei diritti riconosciuti dall’art. 7 citato e che non trova fondamento nel disposto dell’art. 38 richiamato, così da risultare radicalmente viziata da nullità per violazione di legge, tanto più in quanto fondata su una insussistente nullità assoluta del decreto ministeriale per carenza di potere, laddove il decreto stesso trae ragione della sua esistenza proprio nella previsione del citato art. 38, e comunque sulla disapplicazione di detto decreto fuori dall’ipotesi consentita, essendo pacifico in giurisprudenza che il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario non può essere esercitato nei giudizi in cui sia parte la P.A., ma unicamente nei giudizi tra privati e nei soli casi in cui l’atto illegittimo venga in rilievo, non già come fondamento del diritto dedotto in giudizio (come nel caso di specie, in cui si invoca la tutela del diritto alla riservatezza al fine di prevenire gravi e irreparabili pregiudizio dall’attività di trattamento dati asseritamente svolta con modalità illegittime), bensì come mero antecedente logico, sicché la questione venga a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico (Cass. Sez. U. n. 2244 del 06/02/2015; Cass. n. 19659 del 13/09/2006).
5.1. I motivi secondo, quarto, quinto e sesto sono assorbiti dall’accoglimento dei motivi primo e terzo.
6. In conclusione il ricorso va accolto sui motivi primo e terzo, assorbiti gli altri; la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia può essere decisa nel merito con il rigetto dell’originario ricorso.
Le spese dell’intero giudizio si compensano in ragione della novità della questione.
P.Q.M.
– Accoglie il ricorso sui motivi primo e terzo, assorbiti gli altri;
– Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso;
– Compensa le spese dell’intero giudizio.
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