CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 luglio 2018, n. 18695
Tributi – Imposte sui redditi – Accertamento analitico induttivo – Presupposti – Scelta della modalità di calcolo della percentuale dei ricavi – Criteri
Rilevato che
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per la cassazione della sentenza n. 315/14/10, depositata il 26.05.2010 dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio;
riferiva che, a seguito di controllo e processo verbale di constatazione redatto dalla GdF, era notificato alla società H2S s.r.l. l’avviso di accertamento n. RGC3000886, con il quale si rettificava il reddito ex art. 39, co. 2 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’anno d’imposta 1996, accertando maggiori ricavi per vecchie £ 254.784.560, applicando un margine di ricarico medio del 12%.
L’accertamento induttivo era motivato dall’omessa tenuta del libro giornale.
Seguiva il contenzioso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, che con la sentenza depositata il 26.06.2008 accoglieva il ricorso della contribuente. L’Amministrazione adiva la Commissione Tributaria Regionale, che con la sentenza ora impugnata rigettava l’appello, ritenendo, al pari del giudice di prime cure, del tutto apodittica la applicazione della percentuale media del margine di ricarico.
L’Agenzia si duole:
con il primo motivo della violazione e falsa applicazione degli artt. 39, co. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 co. 1. n. 3, c.p.c., perché, a fronte di un accertamento induttivo puro, il giudice regionale non aveva considerato sufficiente il ricorso da parte della Amministrazione a presunzioni pur prive dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, mentre doveva porre a carico della contribuente l’onere della prova contraria;
con il secondo motivo della violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione aN’art. 360, co. 1, n 4 c.p.c., per avere erroneamente annullato l’avviso di accertamento, declinando l’esercizio del potere decisorio in ordine alla determinazione, nel merito, del maggior reddito della società.
Chiedeva pertanto la cassazione della sentenza con ogni consequenziale statuizione.
Si costituiva la società, che eccepiva la non autosufficienza del ricorso e nel merito l’infondatezza dei suoi motivi. Chiedeva pertanto il rigetto del ricorso.
La Procura Generale depositava tempestivamente le conclusioni ex art. 380 bis.1 c.p.c., con cui chiedeva l’accoglimento del secondo motivo del ricorso.
La contribuente ha ritualmente depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.
Considerato che
È infondata, e in verità poco chiara, l’eccepita inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza; „l’atto d’impugnazione contiene invece i requisiti richiesti daH’art. 366 c.p.c., riproducendo peraltro i passaggi salienti dei documenti cui fa riferimento.
Nel merito, è infondato il primo motivo di ricorso. Con esso l’Amministrazione lamenta che il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto che, a fronte della sussistenza dei presupposti per un accertamento induttivo ai sensi dell’art. 39, co. 2, cit., era possibile per l’Amministrazione ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, cui aveva adempiuto mediante il ricorso a percentuali di ricarico secondo la media del settore, mentre spettava alla contribuente l’onere della prova contraria.
In materia la Corte ha affermato che il discrimine tra l’accertamento condotto con metodo analitico extracontabile e quello condotto con metodo induttivo cd. puro sta nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non consente di prescindere del tutto dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore solo a completare le lacune riscontrate, utilizzando anche presunzioni semplici, rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ.; nel secondo caso invece “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” risultano tali da inficiare integralmente l’attendibilità, e dunque l’utilizzabilità, degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che l’amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti”, ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, privi dei requisiti previsti per la prova presuntiva dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ. In queste ipotesi, a norma dell’art. 39, co. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, legittimamente l’Amministrazione finanziaria determina il reddito sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali è compresa la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento, ben potendo la rideterminazione del ricarico, sulla base di dati concreti, integrare operazione finalizzata alla ricostruzione del volume d’affari (Cass., sent. n. 17952 del 2013; sent. n. 11813 del 2002). Nella raccolta di tali elementi probatori è poi compresa la scelta tra le diverse modalità di calcolo della percentuale di ricarico applicabile alla merce venduta, quella cd. “aritmetica semplice” o quella “media aritmetica ponderata” (che distingue i beni in diversi gruppi merceologici omogenei). E tuttavia si è condivisibilmente affermato che <<la scelta da parte dell’Amministrazione finanziaria del criterio di determinazione della percentuale di ricarico deve rispondere a canoni di coerenza logica e congruità che devono essere esplicitati attraverso adeguato ragionamento, essendo consentito il ricorso al criterio della “media aritmetica semplice” in luogo della “media ponderale” quando risulti l’omogeneità della merce, ma non quando fra i vari tipi di merce esista una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentino una percentuale di ricarico motto inferiore a quella risultante dal ricarico medio>> (Cass., sent. n. 17952 cit.; cfr. anche n. 3197 del 2013; n. 26167 del 2011; n. 14328 del 2009). Parimenti, incide sulla valutazione della correttezza della scelta adottata dalla Amministrazione la congruità del campione selezionato per la comparazione tra i prezzi di acquisto e di rivendita, dovendo far riferimento tendenzialmente a tutte le merci commercializzate dalla contribuente, risultanti dall’inventario generale o comunque ad un gruppo significativo, per qualità e quantità (cfr. Cass., sent. n. 4312 del 2015; n. 6849 del 2009; n. 6086 del 2009).
Questi i principi che presidiano, anche nell’alveo dell’accertamento induttivo puro, ai criteri di scelta tra il calcolo della percentuale dei ricavi secondo il metodo della media aritmetica semplice oppure della media ponderale.
Nel caso di specie, a fronte delle doglianze della contribuente sull’erroneo ricorso della Amministrazione al ricalcolo del margine di ricarico mediante la media aritmetica semplice, senza tener conto che la società vendeva merce sia al dettaglio che all’ingrosso, il giudice regionale ha rilevato che <<effettivamente non risulta motivato l’accertamento con il richiamo del tutto apodittico del margine di ricarico, pari al 12%, praticato mediamente nel settore. I primi giudici hanno giustamente lamentato una omissione di approfondimento circa la differenziazione delle percentuali di ricarico. L’appello, al riguardo, non appare aver superato tale lacuna>>. E proseguendo, alla doglianza della Amministrazione, secondo cui il giudice di primo grado non aveva tenuto conto che si trattava di un accertamento induttivo, ribadisce che, al contrario, la Commissione provinciale, pur qualificando l’accertamento come induttivo, ha ugualmente reputato indimostrata la correttezza della metodologia di calcolo.
La motivazione, per vero succinta, è tuttavia logica e coerente proprio con i principi illustrati. L’Amministrazione, nell’espletamento di un accertamento eseguito ai sensi dell’art. 39 co. 2, cit., con possibilità di ricorso a prove indiziarie cd. supersemplici, ha rideterminato il reddito d’impresa utilizzando erroneamente il metodo aritmetico semplice per il calcolo del margine di ricarico sui beni venduti, quand’anche esistenti elementi che in concreto evidenziassero l’incoerenza e RGN 18696/2011 l’insufficienza di quel metodo -per la diversa destinazione dei prodotti commercializzati, venduti tanto al dettaglio quanto all’ingrosso, implicante di per sé l’applicazione di distinte percentuali di ricarico-. L’inidoneità del metodo prescelto è quanto invece riconosciuto dalla pronuncia impugnata, che pertanto sotto questo profilo è del tutto esente da censure.
In conclusione il motivo di ricorso è infondato.
Trova invece accoglimento il secondo motivo, con il quale l’Amministrazione lamenta l’omessa pronuncia del giudice regionale, che si è limitato a riconoscere l’erroneo criterio di accertamento del reddito, utilizzato dalla Amministrazione, annullando l’atto impositivo senza provvedere a decidere nel merito. Ciò, pur essendo incontestata l’omessa tenuta del libro giornale e l’inaffidabilità di tutti gli altri registri, con conseguente necessità di rideterminazione del reddito d’impresa.
Sulla natura del processo tributario la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato che non è annoverabile tra quelli di “impugnazione- annullamento”, ma tra i processi di “impugnazione-merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio. Da ciò discende che ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (Cass., sent. n. 24611 del 2014; n. 6918 del 2013, n. 15825 del 2006). Pertanto, quando le parti controvertono sul provvedimento impositivo e il contribuente contesti la fondatezza della pretesa fiscale in relazione al criterio di calcolo adottato per la determinazione della percentuale di ricarico sulla merce venduta, il giudice adito, quand’anche illegittima quella utilizzata dalla Amministrazione, e tuttavia parzialmente fondata la pretesa fiscale, non può sottrarsi dalla esatta commisurazione dell’importo dovuto dal contribuente.
Nel caso di specie è invece avvenuto che il giudice tributario di merito ha riconosciuto l’erroneità del metodo di rideterminazione del reddito d’impresa cui l’Amministrazione era ricorsa, ma poi, pur dovendo comunque provvedere al suo ricalcolo, se ne è sottratto omettendo la pronuncia sul punto.
Considerato che il ricorso va pertanto accolto con riferimento al secondo motivo e la sentenza va cassata con rinvio della causa al giudice dell’appello, in diversa composizione, che dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio
P.Q.M.
Accoglie il ricorso in riferimento al secondo motivo, rigettato il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, che dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
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