CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 21365 depositata il 29 agosto 2018
FATTI DI CAUSA
È proposto ricorso per la cassazione della sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Firenze del 6 novembre 2012, la quale, decidendo sul rinvio disposto da Cass. 19 marzo 2010, n. 6704, ha respinto l’impugnazione volta alla declaratoria di nullità ex art. 829 cod. proc. civ. di lodo arbitrale.
Si tratta di lodo reso il 1° luglio 1996 nell’ambito di un conferimento di azienda, operato dalla BC s.r.l., in adempimento dell’obbligo sorto con la sottoscrizione del capitale sociale in aumento deliberato dalla BT Costruzioni Generali s.p.a. in data 6 novembre 1990.
Il lodo condannò la conferitaria al pagamento, in favore della conferente, della somma di L. 403.908.343, nonché ad adempiere i debiti dell’azienda ceduta ed al risarcimento del danno all’«immagine» (rectius, reputazione commerciale).
La corte territoriale ha respinto l’impugnazione del lodo, ritenendo, per quanto qui ancora rileva, che:
a) gli arbitri non hanno ecceduto dai limiti del compromesso, atteso il principio di libertà delle forme, che ammette una progressiva precisazione delle domande in arbitrato, e la mancanza nel compromesso di qualsiasi vincolo di procedura; onde gli arbitri correttamente ritennero sottoposta al loro esame l’intera questione concernente l’esatta esecuzione dell’atto di conferimento, rispetto alla condotta tenuta da entrambe le parti;
b) non difetta la motivazione arbitrale in ordine al debito, ravvisato dagli arbitri in capo alla BT, di L. 1.100.000.000, pari al valore dichiarato dell’azienda conferita, dato che essi hanno chiarito di avere operato una compensazione tra i valori dell’azienda e delle azioni, dunque la somma rappresenta «i/ valore economico mancato a fronte del conferimento eseguito» e la motivazione non è mancante;
c) gli arbitri non hanno deciso secondo equità, ma secondo diritto, avendo utilizzato il primo criterio solo per l’accertamento dei danni; e, in tale prospettiva, non è fondata la censura circa l’omessa verifica dell’insussistenza di crediti nella situazione patrimoniale dell’azienda conferita, avendo giustamente gli arbitri omesso tale valutazione, con congrua motivazione, in ragione della clausola negoziale contenuta nell’atto di conferimento, secondo cui i crediti conferiti e non riscossi entro il 1991 sarebbero stati restituiti alla conferente, dunque quale garanzia sul buon esito di essi, dal momento che il mancato incasso sarebbe stato comunque neutralizzato dall’obbligo di riacquisto da parte della conferente; con riguardo alla censura di violazione degli artt. 1362 ss. c.c. nella ricostruzione della volontà delle parti, si tratta di questione afferente il merito dell’accertamento dell’accordo tra le parti; quanto, infine, alla censura di violazione dell’art. 1460 c.c., gli arbitri hanno comparato gli inadempimenti reciproci – la conferente in ordine all’effettiva consistenza dell’azienda conferita, la conferitaria all’obbligo di consegnare le azioni sottoscritte – e, con convincimento insindacabile di merito, hanno reputato illegittimo il ricorso alla norma menzionata da parte della conferitaria.
Avverso questa sentenza propone ricorso per la cassazione la soccombente, affidato a cinque motivi.
Resiste l’intimata con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, la ricorrente si duole della violazione degli artt. 112 e 829 cod. proc. civ., oltre che dell’omesso esame di fatto decisivo, per non avere la corte territoriale dichiarato la nullità del lodo, nonostante la decisione assunta su domande mai ritualmente introdotte: posto che la mutatio richiede che gli arbitri vi consentano, l’atto di accesso determinando petitum e causa petendi della domanda arbitrale. Nella specie, oggetto della domanda era stata unicamente la questione della verifica operata dagli organi sociali ai sensi dell’art. 2343 c.c., non la mancata consegna delle azioni in corrispettivo, invece considerata dagli arbitri.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 823, n. 3, e 829, n. 5, cod. proc. civ., oltre che l’omesso esame di fatto decisivo, per non avere la corte territoriale riscontrato la denunziata assenza di motivazione arbitrale sul preteso credito, in capo alla conferente, di L. 1.100.000.000. Invero, la corte d’appello si è limitata ad affermare come sia chiaro che si tratta del valore dell’azienda ceduta («quell’importo rappresenta nient’altro che il valore economico mancato a fronte del conferimento eseguito dalla Borghini»), senza affatto considerare come resti incomprensibile, in tal modo, la ragione per la quale proprio la società conferitaria sarebbe stata debitrice dell’intero importo verso la conferente; né l’accenno alla “compensazione”, operata dagli arbitri, risolve la questione, dato che tale strumento estintivo presuppone la coesistenza, appunto, di due crediti. Al contrario, una volta conferita l’azienda, la conferente era divenuta titolare delle corrispondenti azioni. Onde la corte del merito non ha spiegato perché sia, a sua volta, comprensibile il dictum degli arbitri e la ratio della decisione assunta.
Con il terzo motivo, deduce la violazione dell’art. 2343 c.c., oltre che l’omesso esame di fatto decisivo, per non avere la corte del merito rilevato l’errore del collegio arbitrale nell’applicare la norma in questione, limitandosi a ritenere che la valutazione negativa delle poste dei “crediti verso clienti” e “crediti verso gli enti pubblici” rimanesse irrilevante, sol perché, in forza di clausola negoziale, la conferente avrebbe dovuto pagare in denaro le somme relative ai crediti non riscossi.
Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’artt. 1362 c.c., oltre che l’omesso esame di fatto decisivo, per non avere la corte territoriale riscontrato l’errore arbitrale, nel ritenere dovuta dalla conferitaria la somma di L. 1.100.000.000, quando le parti avevano semplicemente pattuito i conguagli, in ipotesi di esito negativo della verifica del valore del conferimento; invero, il corrispettivo della sottoscrizione con conseguente conferimento era stato proprio l’acquisto della qualità di socia.
Con il quinto motivo, deduce la violazione dell’art. 1460 c.c. e l’omesso esame, in quanto la corte del merito si è limitata a ravvisare una «ampia e logica motivazione» del lodo, con riguardo all’eccezione di inadempimento sollevata dalla conferitaria – al fine di reputare giustificata la propria cessazione del pagamenti in ordine ai debiti ceduti, attesa l’insussistenza del valore dell’azienda come risultante dalla perizia di stima – mentre, da un lato, la corte territoriale ha frainteso la stessa condotta inadempiente imputata alla conferitaria (consistente, nell’assunto avverso, non nel “mancato svincolo” delle azioni, ma nella cessazione di detti pagamenti), e, dall’altro lato, ha violato l’art. 1460 c.c., perché l’azienda era risultata sovrastimata di ben L. 944.671.103, come ritenuto dalla verifica operata dagli organi sociali, ed il mancato pagamento della somma giustificava ampiamente il rifiuto temporaneo di soddisfare i debiti bancari gravanti sull’azienda ceduta (peraltro, senza effetto per i terzi, che infatti poi erano stati comunque pagati).
3. – Il primo motivo è infondato.
La corte territoriale ha respinto l’impugnazione del lodo, ritenendo, per quanto qui interessa, che gli arbitri non abbiano ecceduto dai limiti del compromesso, atteso il principio di libertà delle forme, il quale ammette una progressiva precisazione delle domande in arbitrato, e la mancanza, nel compromesso, di qualsiasi vincolo di procedura; onde gli arbitri correttamente hanno ritenuto sottoposta al loro esame l’intera questione concernente l’esatta esecuzione dell’atto di conferimento, rispetto alla condotta tenuta da entrambe le parti. In tal modo, la corte del merito dimostra di avere esattamente valutato le reciproche domande, quali afferenti, in sostanza, la corretta esecuzione del conferimento e degli obblighi derivanti dal relativo accordo inter partes.
4. – Il secondo, terzo e quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente in quanto intimamente connessi, sono fondati.
4.1. – Questa Corte ha ripetutamente chiarito come l’obbligo di esposizione sommaria dei motivi della decisione, imposto agli arbitri, può ritenersi non soddisfatto solo quando la motivazione manchi del tutto o sia carente, così da non consentire di comprendere l’iter logico che ha determinato la decisione arbitrale, o contenga contraddizioni inconciliabili nel corpo della motivazione o del dispositivo, tali da rendere incomprensibile la ratio della decisione (e multis, Cass. 18 dicembre 2013, n. 28218; Cass., sez. un., 8 ottobre 2008, n. 24785).
4.2. – L’art. 2343 c.c., all’epoca vigente, prevede un procedimento secondo cui, in ipotesi di costituzione della società o di aumento del capitale (art. 2440 c.c.), il soggetto conferente deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale, mentre gli amministratori sono obbligati a controllare le relative valutazioni ed a procedere alla revisione della stima, in presenza di fondati motivi.
Aggiungeva il terzo comma che, fino all’esito del controllo predetto, le azioni fossero inalienabili e dovessero restare depositate presso la società.
Ai sensi del comma 4, infine, era sancito l’obbligo per la società di ridurre il capitale ed annullare le corrispondenti azioni, ogni volta che la minusvalenza superasse il quinto del valore nominale del conferimento, facendo salva la facoltà del socio di versare la differenza in danaro o di recedere dalla società.
In sostanza, la norma in questione impone la necessaria corrispondenza del valore del conferimento con quello del capitale sottoscritto: dovendosi, in mancanza, procedere, in prima battuta, alla revisione della stima (con conseguente attribuzione di un minor numero o valore di azioni) e, in seconda battuta, alla riduzione del capitale o all’acquisizione del versamento in danaro da parte del socio per la differenza.
4.3. – A fronte di tale inequivoco disposto normativo, nonché dell’incontestata nninusvalenza, nella specie, del valore aziendale (Cass. n. 6704 del 2010 riferisce di una differenza di netto patrimoniale, accertata dai c.t.u., per L. 595.633.787) rispetto a quello di L. 1.100.000.000 attribuito in sede di aumento del capitale sociale con sovrappezzo del 6 novembre 1990, la corte del merito si è limitata a ritenere adeguatamente motivata la decisione arbitrale circa l’esistenza di un debito – si badi, non in capo alla società conferente, ma alla società conferitaria – di L. 1.100.000.000, ossia esattamente pari al valore iniziale stimato dell’azienda, ma poi non riscontrato in sede di controllo della perizia di stima.
Ciò si giustificherebbe, secondo la corte territoriale, avendo gli arbitri chiarito di avere operato una «compensazione» tra i valori dell’azienda e delle azioni, onde la somma rappresenta «il valore economico mancato a fronte del conferimento eseguito dalla Borghini».
Tuttavia – atteso il disposto imperativo dell’art. 2343 c.c. in ordine alla necessaria corrispondenza del valore del conferimento con quello del capitale sottoscritto – il debito per il versamento della differenza gravava unicamente sul soggetto conferente.
Né, pur in ipotesi di mancata consegna delle relative azioni, sarebbe stato possibile identificare tout court il valore reale con il valore nominale delle medesime, radicalmente escluso proprio a causa di quella stessa minusvalenza.
Ne deriva che la corte territoriale non ha fatto buon governo delle norme sostanziali invocate dalla ricorrente, laddove ha in modo apodittico ritenuto soddisfatto l’obbligo arbitrale di motivazione al riguardo: essa, invero, ha ritenuto adeguatamente esposta la ratio decidendi del lodo, in quanto individuata dagli arbitri nell’intento di «procedere alla definizione dei rapporti economici fra le parti secondo il principio della compensazione» e quindi, in automatico, «ritiene di considerare l’importo di L. 1.100.000.000 quale posta a carico della Baldassini…» (parole del lodo, riportate nella motivazione della sentenza impugnata).
Ciò integra il vizio di violazione dell’obbligo imposto agli arbitri dall’art. 823, n. 5, cod. proc. civ., il cui mancato adempimento fonda la possibilità di impugnare il lodo ai sensi dell’art. 829, 1 0 comma, n. 4 e 5 cod. proc. civ., atteso che la corte territoriale ha escluso il vizio denunciato senza affatto riportare passi della decisione arbitrale che fossero adeguatamente significativi al riguardo, e non, invece, affatto incomprensibili: tanto da integrare il vizio di carenza di motivazione o motivazione apparente.
4.4. – Tale vizio della impugnata sentenza viene confermato dalla restante parte della sua motivazione, laddove si assolvono gli arbitri dall’obbligo di verificare se in fatto, come esposto dalla conferitaria, fossero inesistenti le voci relative a “crediti verso clienti” e “crediti verso enti pubblici”, vantati dalla situazione patrimoniale dell’azienda conferita, e ciò sulla base della mera esistenza di clausola pattizia secondo cui, in ipotesi di mancato incasso, detti crediti sarebbero stati nuovamente ceduti alla conferente.
Ritiene, in sostanza, la corte d’appello che non sia fondata la censura circa l’omessa verifica dell’insussistenza di crediti nella situazione patrimoniale dell’azienda conferita, avendo giustamente gli arbitri omesso tale valutazione, con congrua motivazione, in ragione della clausola negoziale contenuta nell’atto di conferimento, secondo cui i crediti conferiti e non riscossi entro il 1991 sarebbero stati restituiti alla conferente, dunque quale garanzia sul buon esito di essi, dal momento che il mancato incasso sarebbe stato comunque neutralizzato dall’obbligo di riacquisto a parte della conferente.
L’inconsistenza ed inintelligibilità di tale motivazione arbitrale – non basta una clausola negoziale a scongiurare l’inesistenza di crediti appostati – è tale da integrare il vizio ora denunziato.
5. – Il quinto motivo è fondato.
La corte territoriale ha affermato, quanto al motivo di censura ivi formulato di violazione dell’art. 1460 c.c. da parte degli arbitri, che questi hanno comparato gli inadempimenti reciproci – la conferente in ordine all’effettiva consistenza dell’azienda conferita, la conferitaria all’obbligo di consegnare le azioni sottoscritte – e, con convincimento insindacabile, hanno reputato illegittimo il ricorso alla norma menzionata da parte della conferitaria.
Questa Corte ha più volte enunciato il principio secondo cui è necessario comparare il comportamento delle parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma (cfr. Cass. 22 settembre 2017, n. 22039; Cass. 30 maggio 2017, n. 13627; Cass. 8 novembre 2016, n. 22626; Cass. 11 giugno 2013, n. 14648; Cass. 10 giugno 2004, n. 10477).
Dunque, la sospensione parziale o totale dell’adempimento della propria obbligazione, ai sensi dell’art. 1460 c.c., può essere legittima non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nell’ipotesi di inesatto inadempimento, purché essa appaia giustificata in relazione alla oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardata con riferimento all’intero equilibrio del contratto e all’obbligo di comportarsi secondo buona fede (cfr. Cass. 22 settembre 2017, n. 22039, cit.).
In altri termini, ove entrambe le parti giustifichino la propria inadempienza con l’altrui inadempimento, occorre, anzitutto, verificare l’importanza degli inadempimenti lamentati e valutare il rapporto di causalità e proporzionalità degli inadempimenti rispetto alla causa concreta del contratto.
Pertanto, il giudice deve applicare il c.d. criterio di causalità, indagando quale sia, nell’economia funzionale dell’intera operazione economica, quale sia la condotta inadempiente originaria e grave, rispetto alla causa concreta di quella specifica regolamentazione negoziale.
Solo a quel punto, dovrà valutarsi se la condotta inadempiente imputata all’altra parte si ponga come diretta conseguenza e risposta all’originario comportamento altrui, o, se invece, sia del tutto scollegata da essa; quindi, sarà necessario valutare se la reazione sia stata adeguata e congrua, nel senso della proporzionalità, rispetto alla prima condotta inadempiente.
Alla stregua di tale principio, è fondata la censura avanzata dalla ricorrente, posto che – incontestato fra le parti il fatto della errata relazione di stima ex art. 2343 c.c. – sarebbe stato obbligo degli arbitri spiegare come, a fronte di tale inadempimento iniziale, evidenziato dalla stessa norma imperativa menzionata come essenziale, si ponesse poi la deduzione avversa di inadempimento della stessa conferitaria per avere questa mancato di pagare i debiti aziendali ceduti, oppure per avere (quale inadempimento considerato dalla corte d’appello, pur contestato dalla ricorrente come correttamente dedotto in sede arbitrale: censura dunque assorbita) omesso di operare lo «svincolo delle azioni».
Nessuna motivazione di tal fatta emerge, sulla base di quanto espone la sentenza impugnata, dal lodo arbitrale, con conseguente sussistenza del vizio denunciato.
6. — La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio innanzi alla corte del merito, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi secondo, terzo, quarto e quinto, respinto il primo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese di legittimità, innanzi alla Corte d’appello di
Firenze, in diversa composizione.
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