CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 dicembre 2018, n. 32759
Licenziamento – Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro – Collaboratori esterni – Divieto di accesso alla sede aziendale – Politica aziendale – Autorizzazione
Rilevato
che con sentenza in data 11 – 14 giugno 2017 numero 1342 la Corte d’appello di Milano – giudice del reclamo ex articolo 1, comma 58 e segg., legge 92/2012 – confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva respinto la domanda proposta da V.F. nei confronti della società A.M.E. S.p.A. per la dichiarazione di inefficacia/illegittimità del licenziamento intimatole in data 15 marzo 2016, previo accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro e del diritto all’inquadramento nel livello B/l CCNL grafici editoriali;
che la Corte territoriale a fondamento della decisione condivideva il giudizio del Tribunale, che non aveva proceduto ad alcuna valutazione circa la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti in quanto sulla base dei documenti e dell’istruttoria orale non era emerso chetale rapporto fosse cessato per volontà della società.
La condotta qualificata dalla lavoratrice come licenziamento – consistita nel divieto di accesso alla sede aziendale dal 15 marzo 2016 – corrispondeva ad una politica aziendale manifestata già nei mesi precedenti nei confronti di tutti i collaboratori esterni, divenuta più pressante con la riorganizzazione degli uffici, secondo cui i collaboratori esterni potevano essere accolti in sede solo previa autorizzazione.
Nei giorni successivi al 15 marzo la F. aveva continuato ad inserire i suoi contributi nel sistema editoriale aziendale (CSM), utilizzando le credenziali in suo possesso, non disabilitate dalla società. Il giorno 31 marzo il referente aziendale le chiedeva chiarimenti sulla mancata consegna dei contributi concordati e sollecitava la programmazione per il mese di aprile. Il fatto che non le fossero stati conferiti ulteriori incarichi aveva un significato neutro, dal momento che la F. conosceva gli argomenti di cui doveva occuparsi; dallo scambio di e-mail intercorso con l’ufficio legale della società nei giorni immediatamente successivi non emergeva la volontà della società di chiudere il rapporto ma semmai di chiarire il contrasto insorto. La F. sceglieva di non partecipare ad alcun incontro con la società ed il giorno 1^ aprile impugnava quello che considerava un licenziamento.
Il rapporto di lavoro doveva dunque ritenersi chiuso per volontà della lavoratrice.
A tali valutazioni andava aggiunto che, sulla base dell’istruttoria svolta in primo grado, risultava che: la F. non aveva una postazione fissa a lei dedicata ed attrezzata; non le era mai stato assegnato un computer aziendale personale; non aveva un badge aziendale personale; non aveva un orario fisso e predeterminato e determinava il suo orario liberamente; poteva svolgere la sua attività da casa, una volta scaricati dal computer aziendale i contenuti necessari, su una chiavetta USB, inserendo i contributi nel sistema editoriale con le credenziali in suo possesso anche da remoto; nessun potere direttivo e di controllo era stato mai esercitato sulle modalità di svolgimento dell’attività.
Pertanto, la limitazione dell’ accesso alla sede non costituiva una modificazione unilaterale delle modalità di esecuzione del contratto tale da qualificarsi come interruzione del rapporto.
che avverso la sentenza ha proposto ricorso V.F., articolato in tre motivi, cui ha opposto difese la società A.M.E. S.p.A con controricorso;
che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti – unita mente al decreto di fissazione dell’ udienza – ai sensi dell’articolo 380 bis codice di procedura civile;
che le parti hanno depositato memoria.
Considerato
che la parte ricorrente ha dedotto:
– con il primo motivo: violazione degli articoli 2118, 1372, 1373, 1460 codice civile, dell’articolo 5 legge 604/1966 e dell’articolo 115 del codice di procedura civile. Ha censurato la sentenza per avere ritenuto che la lavoratrice non avesse fornito adeguata prova del licenziamento laddove, secondo il consolidato orientamento di questo giudice di legittimità, in caso di contestazione circa le modalità di risoluzione del rapporto di lavoro subordinato al lavoratore spettava unicamente la prova della intervenuta interruzione del rapporto, essendo onere del datore di lavoro provare che tale interruzione fosse avvenuta per scelta del lavoratore. Ha dedotto che, in ogni caso, ella aveva fornito la prova dell’intervenuto licenziamento: la modifica sostanziale delle condizioni contrattuali adottata in modo unilaterale dalla società integrava la risoluzione del rapporto in essere con la contestuale proposta di instaurazione di un rapporto nuovo e diverso, di cessione dei diritti d’autore;
– con il secondo motivo: violazione dell’articolo 26 decreto legislativo 14 settembre 2015 numero 151.
La ricorrente ha dedotto di avere ribadito la sua volontà di proseguire nel rapporto di lavoro nei giorni successivi al 15/3/2016 e che il rifiuto ad eseguire la prestazione con le modalità imposte dal datore di lavoro non aveva effetto risolutivo. Dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 151/2015 le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro avrebbero dovuto essere formalizzate esclusivamente con modalità telematiche sicché in nessun caso il suo rifiuto di aderire alla proposta di modifica delle condizioni di lavoro era idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro per dimissioni ;
con il terzo motivo: violazione degli articoli 61 e 69 decreto legislativo 276/2003. Con il motivo si evidenzia che la sentenza impugnata non si era espressa in modo chiaro sulla qualificazione del rapporto di lavoro; in ogni caso il rapporto – ove di natura autonoma dell’articolo 69 del decreto legislativo 276/2003 in quanto, stante la sua pacifica natura coordinata e continuativa, avrebbe dovuto essere formalizzato come collaborazione a progetto.
che ritiene il Collegio si debba respingere il ricorso; che, invero:
– quanto al primo motivo, nella sentenza impugnata non ha rilievo decisivo la attribuzione dell’onere della prova; la ripartizione dell’ onus probandi viene in rilievo nei casi di prova assente, insufficiente o contraddittoria, ai fini della attribuzione della soccombenza alla parte onerata della prova.
La sentenza impugnata ha invece positivamente accertato, sulla base di una serie di elementi presuntivi ,«l’assenza di una volontà della società ad interrompere il rapporto di lavoro» (pagina 3, quarto capoverso) nonché «che certamente il rapporto di lavoro intercorso tra le parti deve allo stato ritenersi chiuso per scelta del lavoratrice» (pagina 4, terzo capoverso). Vi è dunque un positivo accertamento dei fatti e non la applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova.
Il motivo neppure coglie nel segno là dove deduce che la volontà risolutiva della società editoriale era configurabile nella modifica unilaterale delle condizioni di lavoro; la sentenza impugnata ha eslcuso in fatto che vi fosse stata la dedotta modifica, tale da qualificarsi come interruzione unilaterale del rapporto (pagina 4, dal quarto capoverso). A tale accertamento parte ricorrente oppone inammissibilmente una propria diversa valutazione del materiale istruttorio, formulando in tal modo una censura di merito piuttosto che denunziare un vizio di legittimità;
il secondo motivo è inammissibile, in quanto presuppone il positivo accertamento nella sentenza impugnata della qualificazione del rapporto di causa come lavoro subordinato, accertamento che la Corte di merito non ha compiuto, in quanto irrilevante a fronte della accertata risoluzione del rapporto per volontà delia lavoratrice. Inoltre il motivo introduce una questione, la nullità delle dimissioni, che è nuova rispetto alla dedotta illegittimità del licenziamento, non proponibile per la prima volta in questa sede di legittimità. Né è condivisibile la deduzione, contenuta nella memoria difensiva, secondo cui tale questione non avrebbe potuto essere proposta nelle fasi di merito, perché soltanto nella sentenza d’appello, per la prima volta ed in assenza di allegazioni di parte, si accertava la risoluzione del rapporto per volontà della lavoratrice: nella stessa memoria si dà atto che la società assumeva di non avere licenziato la lavoratrice sicché la questione della parte contrattuale cui imputare la volontà di risolvere il rapporto di lavoro era oggetto del contendere del pari è inammissibile il terzo motivo di ricorso, con il quale si deduce la conversione dell’eventuale rapporto di collaborazione coordinata e continuativa in lavoro subordinato per mancanza di progetto; trattasi di domanda nuova rispetto alla proposta impugnativa del licenziamento, che non risulta introdotta nelle fasi di merito;
che, pertanto, essendo condivisibile la proposta del relatore, il ricorso deve essere respinto con ordinanza in camera di consiglio, ex articolo 375 cod.proc.civ.
– che le spese di causa, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
– che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 1 co. 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente ai pagamento delle spese, che liquida in € 200 per spese ed € 3.500 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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