CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 febbraio 2019, n. 5997
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Soppressione del posto di lavoro – Onere della prova – Impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra mansione
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 18.2.2017 la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della sentenza del Tribunale di Castrovillari, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo nel maggio 2009 a G.G. dalla società ASSO.LA .C. soc. coop. agr., avendo, la società, assolto all’onere della prova della soppressione del posto di lavoro (impiegato addetto alla contabilità generale/gestione del personale) e dell’impossibilità di ricollocare il dipendente in altra mansione, non essendo stato censurato il diverso profilo della violazione dei criteri di buona fede e correttezza nei riguardi di altro lavoratore adibito a mansioni impiegatizie dello stesso livello.
2. Il lavoratore ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a tre motivi. La società ha depositato controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
3. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 5 della legge n. 604 del 1966, 112 cod.proc.civ., 111 Cost. in relazione all’art. 132 n. 4 cod.proc.civ., 99 e 164 cod.proc.civ. nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato l’orientamento giurisprudenziale che grava il datore di lavoro dell’onere della prova (oltre che della ragione organizzativa e produttiva del licenziamento per giustificato motivo oggettivo altresì) dell’inutilizzabilità del lavoratore in mansioni compatibili con la qualifica rivestita e pronunciando ultra petita, alterando l’oggetto sostanziale dell’azione e immutando gli elementi dedotti in giudizio, ponendo, in definitiva, a fondamento della pronuncia un fatto giuridico costitutivo diverso da quello dedotto.
4. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 12 delle preleggi in relazione all’art. 5 della legge n. 604 del 1966, 113, n. 1, cod.proc.civ. in relazione all’art. 111 Cost. in relazione all’art. 132 n. 4 cod.proc.civ., 99 e 164 cod. proc. civ. nonché vizio di motivazione, 118 disp.att. cod.proc.civ. in relazione all’art. 132 n. 4 cod.proc.civ., 2729 cod.civ. (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, svolto un esame superficiale degli atti di causa, avendo obliterato elementi di giudizio di fondamentale e decisiva importanza come le presunzioni gravi, precise e concordanti.
5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.) avendo, la Corte di appello, effettuato una infelice valutazione dei fatti di causa al punto da omettere di valutare i reali e concreti caratteri identificativi della fattispecie concreta sottoposta al suo vaglio.
6. Il motivo, che presenta diversi profili di inammissibilità in relazione ad alcune censure, è, comunque, infondato.
Preliminarmente, è inammissibile il ricorso per cassazione in cui sia denunciata puramente e semplicemente la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell’art. 112 cod.proc.civ., senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore (sulla legge) processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento, essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (cfr. Cass. Sez.U., n. 17931 del 2013).
E’, altresì, inammissibile la censura relativa all’erroneo apprezzamento, da parte della Corte territoriale, di “evidenze probatorie”. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 3, cod.proc.civ. nella parte in cui il giudice del merito ha accertato, alla luce delle risultanze istruttorie fornite dalla società datrice di lavoro (nella specie, documentali) e dell’assenza di ulteriori deduzioni di segno contrario forniti dal lavoratore, la soppressione del posto occupato dal G. e l’impossibilità di ricollocarlo in altra mansione, si induce piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertata e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo così all’impugnata sentenza censure del tutto inammissibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
Ebbene, secondo orientamento consolidato di questa Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l’esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall’altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (cfr. ex plurimis, Cass. n. 4460 del 2015, Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017). Con riferimento all’obbligo di repechage si è ritenuto, in particolare, che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro abbia sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale.
In sostanza, sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017).
Nel caso di specie, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata riscontrata dalla Corte distrettuale non solo con riguardo al profilo della soppressione del posto di lavoro (per esternalizzazione dell’attività a cui era assegnato il G.) ma altresì per ottemperanza del datore di lavoro all’obbligo di repechage, essendo emerso – dagli elementi istruttori raccolti “come è chiaro dalla documentazione allegata (doc.6 e 14)” – che “tutti i reparti dell’azienda risultavano correttamente dimensionati, tanto che nessuna assunzione è stata fatta non solo in amministrazione, settore presso il quale era addetto il sig. G., ma in nessun altro settore aziendale. Non solo, ma è evidente che, dato il suo inquadramento e le sue mansioni, il sig. G. non era in possesso di quelle cognizioni teorico-pratiche necessarie per svolgere altre mansioni” (pag. 10 della sentenza impugnata). In particolare, dai documenti prodotti dalla società è risultato che “vi erano solo due lavoratori addetti a mansioni impiegatizie, aventi lo stesso livello” (il G. e lo S.). “Tutti gli altri lavoratori, o svolgevano mansioni di tipo tecnico oppure appartenevano a livello superiore”.
La Corte territoriale ha, pertanto, correttamente applicato i principi di onere della prova affermati da questa Corte in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In ordine ai criteri di scelta di lavoratori adibiti a mansioni fungibili, questa Corte ha affermato che, nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro di cui all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, allorquando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt.1175 e 1375 cod.civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (cfr. Cass. n. 19732 del 2018; Cass. n. 7046 del 2011; Cass. n.11124 del 2004; Cass. n. 13058 del 2003; Cass. n. 16144 del 2001; Cass. n.14663 del 2001).
Nel caso di specie, peraltro, la Corte distrettuale ha espressamente precisato che la questione della violazione dei criteri di scelta tra lavoratori assegnatari di mansioni fungibili non era stata mai dedotta quale profilo di illegittimità del licenziamento (pag. 10 della sentenza impugnata) e il ricorrente non indica in quale atto difensivo e in quale momento processuale la questione sarebbe stata introdotta, le ragioni del suo rigetto ed i motivi con i quali è stata riproposta al giudice del gravame, con ciò violando gli oneri di autosufficienza del ricorso per cassazione (cfr. Cass. n. 23675 del 2013; Cass. n. 23073 del 2015). La censura è, pertanto, inammissibile.
7. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono inammissibili.
Le censure svolte in ricorso sostanzialmente sollecitano, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento. Si tratta di operazione, come innanzi evidenziato, non consentita in sede di legittimità.
Inoltre, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, essendo del tutto estranea all’ambito del vizio in parola la possibilità, per la Corte di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l’autonoma disamina delle emergenze probatorie.
Va, inoltre, rilevato che il controllo di logicità del giudizio di fatto è, nella presente fattispecie, consentito alla luce dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ. nella formulazione successiva alla novella introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella legge n. 134 del 2012 (trattandosi di sentenza depositata dopo il giorno 11 settembre 2012). Come precisato dalle Sezioni Unite (n. 8053 del 2014) è, in tal caso, denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. E tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
La Corte distrettuale, con particolare riguardo all’obbligo di repechage, ha rilevato che la produzione documentale della società dimostrava che non vi erano altre posizioni libere in azienda, posto che l’unica ulteriore mansione impiegatizia presente era occupata da altro dipendente (S.) e le altre mansioni presupponevano un bagaglio professionale diverso da quello appartenente al G. (mansioni di tipo tecnico o di livello superiore).
8. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
9. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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