CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 marzo 2019, n. 8385
Licenziamento – Tutela applicabile – Svolgimento di un contratto a termine, che solo ex post, in sede giudiziaria, viene dichiarato a tempo indeterminato
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Venezia, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla I.I. s.r.l., in applicazione dell’art. 32 legge n. 183 del 2010, ha accertato il diritto di G.P. a 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto, con gli interessi legali, previa rivalutazione, dalla data della sentenza al saldo. Inoltre, in ragione dell’illegittimità del recesso accertata in primo grado, ha riconosciuto il diritto dall’appellato alle retribuzioni non corrisposte dalla data del recesso alla scadenza naturale del contratto (2 gennaio 2012), con gli interessi legali, previa rivalutazione, dalle singole scadenze al saldo. Infine, ha condannato l’appellato restituire alla società appellante la differenza tra quanto percepito in ragione dell’esecuzione sentenza di primo grado e quanto spettante in ragione della pronuncia, con gli interessi legali.
2. Il G. era stato assunto dalla società ICTS con contratto a tempo determinato per il periodo gennaio 2011 – gennaio 2012, venendo poi licenziato prima della scadenza del termine e precisamente nell’agosto 2011. Il Giudice del lavoro di Venezia, adito dal lavoratore, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e l’illegittimità del licenziamento; per l’effetto, aveva condannato la società a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno commisurato le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento alla reintegra; aveva negato l’indennizzo di cui all’art. 32, comma 5, legge 183 del 2010, osservando che la tutela riconosciuta ai sensi dell’art. 18 stat. lav. (nel regime anteriore alla riforma di cui alla legge n. 92 del 2012) assorbiva ogni altro diverso risarcimento.
3. Tale sentenza veniva impugnata solo dalla società, che limitava le proprie censure ai capi concernenti il risarcimento del danno.
4. La Corte d’appello di Venezia, premesso che non era più in contestazione l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, né il diritto del lavoratore alla conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e neppure era più in contestazione l’illegittimità del recesso intimato anticipatamente senza la preventiva contestazione disciplinare, ha osservato che:
a) quanto alle conseguenze applicabili ad un recesso intimato in modo illegittimo in costanza di svolgimento di un contratto a termine – che solo ex post, in sede giudiziaria, viene dichiarato a tempo indeterminato -, la tutela applicabile è quella risarcitoria consistente nelle retribuzioni perdute dalla data del recesso alla scadenza naturale del contratto a termine e tale tutela corrisponde, nel caso in esame, alle retribuzioni maturate e non corrisposte dalla data del recesso alla scadenza naturale del contratto;
b) quanto alla conversione del rapporto derivante dalla accertata nullità del termine, l’art. 32 legge n. 183 del 2010 attribuisce un’indennità risarcitoria forfetizzata, omnicomprensiva di ogni pregiudizio dalla scadenza del termine legittimo fino alla sentenza e, per tale titolo, è da stimare congruo il riconoscimento di 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto.
5. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il lavoratore con un motivo. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 1 d.lgs. 368 del 2001, art. 1418 cod. civ. e art. 32, comma 5, legge 183 del 2010 e art. 18 legge 300 del 1970.
Premesso che si era formato il giudicato interno sulla illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di assunzione stipulato tra le parti e pure sulla illegittimità del licenziamento comminato il 21 agosto 2011, per cui l’appello aveva ad oggetto esclusivamente le conseguenze applicabili al recesso datoriale intimato in modo illegittimo in un contratto a termine dichiarato a tempo indeterminato con la medesima sentenza, si deduce che l’accertamento della nullità del termine comporta la trasformazione con efficacia dichiarativa (ex tunc) e non costitutiva (ex nunc) del rapporto, sì che l’illegittimo recesso datoriale interviene in un rapporto trasformato a tempo indeterminato.
Si deduce che il risarcimento non poteva essere limitato fino alla data della originaria scadenza del contratto, poiché il termine era stato dichiarato nullo con conseguente conversione del rapporto ai sensi dell’art. 1419 cod. civ. e dell’art. 1 d. Igs. 368 del 2001, dovendo trovare applicazione la tutela di cui all’art. 18 Stat. lav., nella formulazione anteriore alla cosiddetta riforma Fornero.
Si rappresenta, infine, che la soluzione interpretativa seguita dal giudice di merito comporta l’illogica conseguenza che il risarcimento riconosciuto risulta all’evidenza peggiorativo sia rispetto a quello di cui il ricorrente avrebbe beneficiato se fosse stato assunto illegittimamente a termine (conversione e indennizzo), sia a quello avrebbe ottenuto se fosse stato illegittimamente licenziato in costanza di rapporto a tempo indeterminato (reintegra e risarcimento).
2. Il ricorso merita accoglimento.
3. Occorre muovere dalla considerazione – già più volte espressa da questa Corte (v. tra le altre, Cass. n. 14461 del 2015, n. 14996 del 2012, n. 14461 del 2014) – che la sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011, interpretando la norma della L. n. 183 del 2010, art. 32, ha avuto modo di chiarire che essa “non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato“; il danno forfetizzato dall’indennità prevista dalla norma “copre soltanto il periodo cosiddetto intermedio, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto”, con la conseguenza che a partire da tale sentenza “è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”, altrimenti risultando “completamente svuotata la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato” (così ancora Corte Cost.,. n. 303 del 2011).
4. Da tale sentenza si trae la conferma della natura dichiarativa e non costitutiva della sentenza che accerta la nullità della clausola. La scelta legislativa è stata quella di prevedere una forfetizzazione del risarcimento del danno, per esigenze di certezza e di omogeneità delle situazioni debitorie derivanti dalla conversione del rapporto di lavoro instaurato con termine illegittimo, ma il rimedio risarcitorio costituisce una sanzione che non si sostituisce, ma si aggiunge, alla ricostituzione del rapporto derivante dalla conversione, dichiarata con sentenza di accertamento.
5. La norma in oggetto, come affermato dal Giudice delle leggi, risulta “adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”. Infatti, al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso”.
5.1. La normativa in questione, da un lato assicura la stabilizzazione del rapporto, dall’altro forfetizza il danno, con valenza sanzionatoria, solo per il periodo compreso tra la scadenza del termine e l’accertamento giudiziale della sua nullità. Dalla data della sentenza il lavoratore ha diritto alla riammissione in servizio e alla ricostituzione della effettiva funzionalità del rapporto illegittimamente interrotto.
6. Sulla questione è poi intervenuta la L. 28 giugno 2012, n. 92 (“Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”), che con l’art. 1, comma 13, ha introdotto una disposizione di interpretazione autentica della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, stabilendo che: “La disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro“.
7. L’uso della locuzione “ricostituzione del rapporto di lavoro” aveva fatto sorgere dubbi interpretativi, essendo stato ipotizzato da alcuni interpreti – e così sembra avere ritenuto anche la Corte di appello nella sentenza impugnata – che il legislatore avesse accreditato la tesi secondo cui la conversione del rapporto opera ex nunc e non ex tunc.
8. Tali dubbi interpretativi appaiono fugati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 226 dell’8 luglio 2014, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione alla clausola 8.3 dell’Accordo Quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, come interpretato autenticamente dalla legge n. 92 del 2012.
8.1. La Corte costituzionale, richiamata la precedente sentenza n. 303 del 2011, ha innanzitutto ribadito che:
– la ratio dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 risiede nella volontà di introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione a fronte delle obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l’esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva;
– l’art. 32, comma 5, citato non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma va ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato che costituisce la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario;
– l’obiettivo era quello di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, imponendo un meccanismo semplificato e di più rapida definizione di liquidazione del danno (evitando accertamenti probatori in ordine alla mora accipiendi, all’aliunde perceptum, al percipiendum, ecc.) a fronte della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro.
8.2. Ha poi aggiunto che:
– “analogo obiettivo è alla base della norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1, comma 13, della legge n. 92 del 2012”;
– tale disposizione, emanata all’indomani della sentenza n. 303 del 2011, “sostanzialmente recepisce l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 che quella pronuncia conteneva”.
– a fronte delle divergenze interpretative che pur dopo tale pronuncia erano emerse nella giurisprudenza di merito, “il legislatore è intervenuto accogliendo e rendendo vincolante l’interpretazione data da questa Corte all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010…”)
“questi elementi consentono di ravvisare l’obiettivo perseguito dal legislatore, ancora una volta, nella esigenza di assicurare certezza nella quantificazione del risarcimento del danno spettante al lavoratore in caso di illegittima apposizione del termine al contratto, rendendo cogente la soluzione, già prevista, che bilanciava le opposte pretese del lavoratore e del datore di lavoro, nonché nello scoraggiare ulteriore contenzioso. Se, dunque, l’intento perseguito da entrambe le disposizioni è quello di stabilire un criterio uniforme e certo per la quantificazione del danno allo scopo di semplificare il contenzioso, allora ne consegue che esse si collocano fuori dall’ambito di applicazione della clausola 8.3 dell’accordo quadro e che pertanto non sussiste alcuna violazione di detta clausola e, conseguentemente, degli evocati parametri costituzionali”.
9. Dunque, la sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro in un contratto di lavoro a tempo indeterminato non può che operare ex tunc, sin dall’origine del rapporto di lavoro, il quale è da ritenere instaurato illegittimamente a termine e che invece è da qualificare sin dall’origine, ancorché per effetto di accertamento intervenuto ex post, di durata indeterminata.
9.1. L’accertamento giudiziale è di natura dichiarativa anche alla luce dell’intervento legislativo di interpretazione autentica, avendo la Corte costituzionale nel 2014 (sent. 226 del 2014) confermato la propria precedente lettura interpretativa (sent. 303 del 2011) ed escluso che il legislatore del 2012 ne abbia voluto introdurre una diversa.
9.2. La sentenza che accerta la nullità del termine implica la ricostituzione della funzionalità del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore e di corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva.
10. In conclusione, va affermato il principio che, anche a seguito della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 1, comma 13, legge n. 92 del 2012, la sentenza di accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, è di natura dichiarativa e non costitutiva.
10.1. La conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera, pertanto, con effetto ex tunc dalla illegittima stipulazione del contratto a termine, mentre l’indennità di cui all’art. 32, comma 5, l. 183 del 2010 ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
11. La sentenza impugnata è incorsa nell’errore di diritto di ritenere che la conversione potesse operare solo ex nunc, dalla data della sentenza che ha accertato la nullità del termine, e che, di conseguenza, il recesso datoriale dovesse essere regolato alla stregua di un recesso ante tempus intervenuto in costanza di un rapporto di lavoro a termine. Per tali motivi, la sentenza va cassata con rinvio alla Corte di principio di diritto sopra enunciato.
12. Tenuto conto dell’accoglimento del ricorso, non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.
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