CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 14082 depositata il 1° aprile 2019
Professionisti – Tributarista – Indagine penale per esercizio abusivo della professione, truffa, appropriazione indebita, ingresso abusivo in sistema informatico – Sequestro di hardware e materiale utilizzato nello studio professionale – Opposizione del segreto professionale – Esclusione
Ritenuto in fatto
1. Con il provvedimento impugnato, il Tribunale della libertà di Brescia ha dichiarato inammissibile il riesame cautelare reale presentato dall’odierno ricorrente in quanto i beni sottoposti al vincolo erano stati oggetto di restituzione ritenendo quindi conseguentemente assente l’interesse del D.M. a proporre gravame.
2. Propone ricorso per cassazione la persona sottoposta le indagini articolando i seguenti motivi.
2.1. Violazione e falsa applicazione dell’articolo 568 comma 4 cod. proc. pen. in relazione all’articolo 5 del regolamento U.E. 679/2016, l’articolo 622 del codice penale, all’articolo 7 del codice deontologico dell’istituto nazionale tributaristi in relazione alla legge numero 4 del 14 gennaio 2013.
Il ricorrente afferma che, anche dopo la disposta restituzione degli apparati hardware, residuerebbe l’interesse all’impugnazione con specifico riferimento alla acquisizione dei dati la cui copia è stata acquisita attraverso il sequestro di materiale informatico, con ciò richiamandosi alla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte numero 40963 del 20 luglio 2017 per cui è ammissibile il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer o di un supporto informatico nel caso in cui sussista l’interesse, concreto e attuale, alla esclusiva disponibilità dei dati. Rileva inoltre che tale interesse sarebbe anche conseguenza della violazione del segreto professionale imposto al tributarista dell’articolo 7 del codice deontologico dell’istituto nazionale tributaristi rilevante per effetto della legge numero 4 del 14 gennaio 2013.
Ciò premesso, il ricorrente ribadisce le contestazioni già sollevate in sede di riesame, relative all’insussistenza dei presupposti di legge, alla violazione del principio di proporzionalità ed adeguatezza, all’illegittimità delle operazioni di perquisizione.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
2. La vicenda che occupa ha ad oggetto una contestazione mossa al ricorrente relativa ad esercizio abusivo della professione, truffa, appropriazione indebita, ingresso abusivo in sistema informatico.
Risulta in atti che oggetto del sequestro era il materiale utilizzato nello “Studio professionale” dell’indagato medesimo proprio in relazione a tale specifica attività; materiale che – tra l’altro – l’indagato, la moglie e una collaboratrice hanno cercato di occultare alla Autorità Giudiziaria procedente con rocambolesche modalità meglio descritte nel verbale di sequestro.
A fronte di tale tipologia di imputazione che investe la ritenuta illegittima attività professionale dell’indagato e la commissione di delitti da parte dello stesso anche in tale ambito, la possibilità di opporre il segreto avrebbe dovuto passare attraverso la dimostrazione – in primis – della titolarità di una situazione giuridica tipica cui l’ordinamento riconosce la facoltà di opporre il segreto.
3. La pronuncia richiamata in sede di ricorso fa infatti riferimento a fattispecie in cui il privato può reclamare una “esclusività” del dato anche nei confronti dell’autorità giudiziaria e la presenza di un interesse qualificato quale la tutela della segretezza delle fonti giornalistiche (Sez. 6, n. 24617 del 2015, Rizzo, cit., richiama Corte EDU, Grande Camera, 14/09/2010, Sanoma Uitgevers, B.V. contro Paesi Bassi – v. anche Corte EDU 19/01/2016, Gulcu c. Turchia), ovvero il diritto al rispetto della vita privata e familiare (Corte EDU, 22/5/2008, Ilya Stefanov c. Bulgaria; 02/04/2015, Vinci Construction et GTM Génie Civil et Services c. Francia) o – ancora – il segreto professionale tassativamente ricollegato da specifica previsione codicistica ai ministri di confessioni religiose, agli avvocati, agli investigatori privati autorizzati, ai consulenti tecnici, ai notai, ai medici, ai chirurghi, ai farmacisti, alle ostetriche e a ogni altro esercente una professione sanitaria nonché agli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. Tale ultima categoria comprende tutte le categorie di professionisti che, pur non essendo previste nelle categorie a), b) e c), hanno ottenuto il riconoscimento del diritto di astensione dal deporre attraverso leggi speciali. Il riferimento va ai consulenti del lavoro (art. 6, L. 11.1.1979, n. 12), ai consulenti in proprietà industriale (art. 5, D.M. 3.4.1981), ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commerciali (L. 5.12.1987, n. 507), ai dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze (art. 120, D.P.R. 9.10.1990, n. 309) e a quanti operano presso enti, centri, gruppi, che abbiano convenzioni con le ASL (art. 117, D.P.R. 9.10.1990, n. 309)
4. Nell’affermarsi appartenente a tale ultima categoria, il ricorrente richiama una figura – quella del “tributarista” – atipica, non coincidente con quella del commercialista in quanto non appartenente al medesimo ordine professionale e prevista da disposizioni che – al contrario – rendono esplicita la mancanza di qualsivoglia possibilità di opporre segreti di sorta. Infatti, l’art. 7 del codice deontologico specificamente prevede che “costituiscono eccezione alla regola generale i casi in cui la divulgazione di alcune informazioni relative alla parte assistita sia richiesta dall’Autorità Giudiziaria e/o ricada nella normativa antiriciclaggio”. Trattasi tra l’altro di normativa che non assurge al rango di normativa primaria e che quindi non può – per definizione – introdurre deroghe o integrazioni alla norma codicistica. Peraltro, nemmeno può ritenersi che la legge richiamata in sede di ricorso preveda deroghe in tal senso. Infatti, la legge 4 del 2013, richiamata dal ricorrente, in nulla incide sulla disciplina del segreto professionale né prevede che il codice di autoregolamentazione possa introdurre norme ad integrazione della specifica disciplina contenuta negli artt. 200 ss. A norma di tale legge, le associazioni professionali promuovono, anche attraverso specifiche iniziative, la formazione permanente dei propri iscritti e il codice di condotta, adottato ai sensi dell’art. 27-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, detta una norma di comportamento applicabile nei confronti dei terzi e non già dell’autorità giudiziaria (cfr. – in relazione all’abrogato codice – Sez. 5, Sentenza n. 8178 del 13/04/1977 Rv. 136280).
5. Alle suesposte considerazioni consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen. , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in € 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
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