Commissione Tributaria di secondo grado di Trento, sezione 2, sentenza n. 21 depositata il 6 marzo 2019
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La SOCIETA’ AGRICOLA P. S.S. di P. B. – che aveva dichiarato di svolgere attività di coltivazioni associate all’allevamento di animali – ed il socio P. B. impugnavano, con distinti ricorsi, gli avvtst di accertamento n. T2A02BW01906/2014, T2A02BW0191112014, T2A02BW01917/2014, T2A02BW01909/2014, riguardanti il recupero a tassazione delle imposte dovute per l’omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini IRAP della società, per gli anni d’imposta 2011 e 2012, nonché il recupero dei redditi di partecipazione del socio, con riferimento alle medesime annualità.
L’accertamento scaturiva da una verifica della Guardia di Finanza del 15.11.2012, a seguito della quale veniva riqualificato il risultato economico conseguito dalla società negli anni di imposta suddetti, come reddito di impresa e, come tale, assoggettato alle norme previste dall’art. 55 TUIR.
La società aveva quantificato il proprio reddito imponibile sulla base delle disposizioni di cui agli artt. 32 e ss TUIR e del reddito dominicale di cui all’art. 24 TUIR.
Il controllo aveva messo in evidenza, in sintesi, che:
– la società contribuente non era proprietaria dei terreni agricoli oggetto di sfruttamento;
– viceversa, alcuni terreni agricoli venivano utilizzati attraverso contratti di affitto;
– la società non aveva dipendenti, né sono state rinvenute fatture o altra documentazione relative all’utilizzo, nello svolgimento dell’attività aziendale, delle prestazioni di servizio legate all’utilizzo di manodopera impiegata nello sfruttamento dei terreni agricoli;
– entrambi i soci erano residenti in provincia di Trento, mentre i pascoli ed i terreni potenzialmente utilizzabili allo scopo di conseguire l’attività aziendale erano situati, per lo più, in provincia de L’aquila;
– presso la banca dati dell’Ufficio Veterinario Nazionale non risultavano censiti, a nome della società, capi di bestiame o stalle nell’ambito dell’intero territorio della Regione Abruzzo;
– non erano stati rinvenuti documenti idonei a dimostrare la vendita di prodotti agricoli o di derivati dagli stessi;
– la società non disponeva di macchinari o attrezzature idonee alla produzione agricola, né in proprietà, né a noleggio;
– le fatture passive messe in contabilità si riferivano unicamente a prestazioni di servizio rese dal tenutario della contabilità;
– tutti i terreni ottenuti in affitto venivano successivamente concessi in fida pascolo ad agricoltori del luogo.
Partendo dai suddetti elementi di fatto l’Ufficio riteneva di dover inquadrare il reddito conseguito dalla società per gli anni di imposta 2011 e 2012 come reddito di impresa e, come tale, assoggettato alle regole di cui all’art. 55 TUIR.
E poiché la società aveva percepito contributi, per le due annualità, da parte dell’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) l’Ufficio effettuava un ulteriore recupero ai sensi dell’art 85, comma l, lett. h) del TUIR, che prevede che i contributi in conto esercizio concorrono alla formazione del reddito imponibile.
In applicazione dell’art. 39, comma l, DPR n. 600/73, venivano dunque quantificati i componenti positivi di pari importo a carico della società e, nei confronti dei soci, veniva accertato il relativo reddito da partecipazione, a’ sensi dell’art. 5 del DPR 916/87.
l ricorrenti contestavano legittimità e fondatezza degli atti impositivi, sostenendo che l’Ufficio non avrebbe potuto inquadrare icontributi PAC (Politica Agricola Comune) nell’ambito del reddito di impresa, dal momento che la società era titolare di reddito agrario.
In subordine, i ricorrenti chiedevano che qualora fosse accertato l’assoggettamento al reddito di impresa ex art. 55 TUIR- venissero riconosciuti in deduzione i costi sostenuti per la produzione del reddito stesso.
Falliva il tentativo di mediazione.
Si costituiva l’Agenzia delle Entrate, che chiedeva il rigetto del ricorso.
La Commissione Tributaria di I° grado di Trento, dopo aver riunito il ricorso con quelli proposti dai soci O. E. e A. A., che avevano agito in giudizio separatamente, con pressoché identiche argomentazioni, anche sulla base della giurisprudenza formatasi in analoghe fattispecie, rigettava i ricorsi riuniti, con compensazione delle spese, affermando che non era stato provato il concreto esercizio di attività agricola da parte della società ricorrente.
Appellavano la sentenza la Società, B. P. e, con separato atto, i soci A. ed O., riproducendo i motivi del ricorso in primo grado ed articolando i motivi dell’impugnazione in quattro punti: l. l’omessa e carente motivazione su un punto decisivo della controversia; 2. l’erronea e falsa applicazione delle norme del Regolamento CE 1782 del 29 settembre 2003, con riferimento al Regolamento CE 73 del 19 gennaio 2009; 3. la nullità della sentenza impugnata; 4. l’illegittimità della tassazione dei contributi PAC quale reddito di impresa commerciale se legittimamente percepiti dall’impresa agricola.
In ordine al primo motivo, gli appellanti lamentano il fatto che il Collegio si sarebbe limitato a riportare per esteso le stesse argomentazioni contenute in due precedenti pronunce, omettendo in tal modo una “autonoma e propria motivazione resa in coerenza rispetto alla precipua fattispecie portata alla cognizione del Collegio giudicante”.
Questo determinerebbe, secondo gli appellanti, un censura, trattandosi di “giuridica inesistenza di una fattispecie in fatto, alla quale non può essereattribuito e riconosciuto il seppur minimo valore vincolante.“
Ribadita la natura di imprenditore agricolo professionale del legale rappresentante della società, “che ha sempre curato i terreni sui quali ha svolto l‘attività agricola direttamente ovvero facendo ricorso al c.d. pasco/amento diretto con animali di terzi, quale procedura rituale ammessa dall’organismo pagatore AGEA “, parte appellante sostiene che solo i crediti da sussidio erogati dall’Unione europea tramite AGEA risultano oggetto di tassazione: e censuravano la sentenza nella parte in cui affermato che non si verte in ordine alla legittimità dei contributi percepiti, ma solo della qualificazione fiscale dell’attività in concreto svolta dalla società e quindi della natura del reddito della stessa, giungono a conclusioni incoerenti ed illogiche, in quanto sarebbe impensabile che i sussidi- che afferiscono direttamente al Fondo Europeo agricolo di garanzia possano essere erogati a soggetti svolgenti attività non agricola, cui viene applicata una tassazione differente da quella in vigore per le imprese agricole.
Né in sentenza- si legge nell’atto di appello, vi è alcun riferimento ad una ipotetica diversa qualificazione della natura giuridica delle attività svolte in concreto, così da renderle compatibili con una tassazione derivante da reddito di impresa commerciale.
Con il secondo motivo, v1ene censurata la sentenza, sotto il profilo dell’omessa motivazione in ordine a circostanze rilevanti e decisive ai fini del giudizio, cioè al fatto che non è stata riconosciuta la fase – necessaria- di start up aziendale, idonea per il definitivo avvio di un’attività agricola di natura specificamente produttiva: sostengono in particolare gli appellanti che tra il momento di costituzione della società (07 maggio 2009) e quello dell’accertamento (07 novembre 2012) era trascorso un lasso temporale certamente incongruo per poter considerare esaurita la necessaria fase di startup aziendale, idonea per il definitivo avvio di un’attività agricola di natura specificamente produttiva, stante in ogni caso il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali.
Aggiungevano che il legale rappresentante, P. B., svolgeva dall’anno 2000 la propria attività quale imprenditore agricolo, con propria partita IVA e con autonoma posizione contributiva: la costituzione della società, nel 2009, fu dettata da valide ragioni economico – aziendali e non, come sostiene controparte, in modo artefatto, per il raggiungimento di non meglio precisati obiettivi di fiscalità.
Sempre in questa prospettiva, nei primi tempi dalla costituzione, la società -qualificabile come agricola, nell’accezione comunitaria (argomento sul quale gli appellanti si sono a lungo soffermati) – stipulò contemporaneamente due contratti di affitto di terreni e 13 contratti di acquisto titolo PAC, con altrettanti imprenditori agricoli e realizzò – successivamente alla verifica della Guardia di Finanza – ulteriori investimenti, finalizzati all’acquisto di bestiame, utilizzando proprio i crediti di sussidio erogati dall’Unione Europea.
Analoga censura di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (terzo motivo) riguarda l’erronea qualificazione giuridica dell’attività sociale, quale intermediazione: secondo l’appellante, la sentenza impugnata avrebbe omesso di motivare in ordine alle ragioni per cui le attività imprenditoriali della società sì qualificherebbero come intermediazioni nel settore agricolo, come apoditticamente sostenuto dall’Ufficio.
Con l’ultimo motivo, gli appellanti affermano che l’Italia, quale Stato membro CE, non potrebbe tassare quale reddito di impresa commerciale i contributi erogati dall ‘Unione Europea a titolo di sostegno delle imprese agricole, altrimenti verrebbe realizzato un “indebito arricchimento dello Stato membro”.
Si costituiva l’Ufficio, chiedendo preliminarmente la riunione degli appelli e, nel merito, il rigetto dell’appello.
Con ordinanza del 09 maggio 2016, veniva rigettata l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata da parte degli appellanti e veniva disposta la riunione degli appelli n. 2172016 e 26/2016.
All’esito della pubblica udienza di discussione del 13 novembre 2017, la causa veniva decisa come da separato dispositivo
Motivi della decisione
La sentenza appellata merita integrale conferma: ritiene il Collegio che i sia pure interessanti ed articolati motivi di censura non possano essere accolti.
Giova infatti ribadire anche in questa sede quanto correttamente affermato dai primi giudici in ordine al thema decidendum, che non consiste nella valutazione dell’an o del quantum dei contributi percepiti dalla società, bensì unicamente della qualificazione, ai fini fiscali, dell’attività in concreto svolta dalla società secondo quanto accertato e quindi dalla natura del reddito della stessa, in funzione dell’obbligo o meno della loro esposizione tra i componenti positivi.
Ciò premesso, va rilevata l’infondatezza del primo motivo del ricorso, per omessa motivazione della sentenza: contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, la sentenza di primo grado si palesa del tutto congrua in ordine alle ragioni, in fatto ed in diritto, a sostegno della decisione: il richiamo alla giurisprudenza della stessa e di altre Commissioni in ordine a fattispecie del tutto analoghe e per certi versi connesse alla presente controversia, non costituisce un vizio motivazionale, bensì un rafforzamento del procedimento logico – deduttivo adottato.
Del resto, in sentenza viene specificato in modo autonomo, esteso ed efficace il ragionamento seguito dai primi giudici, laddove sostengono che non è stato in alcun modo provato il concreto esercizio sui fondi agricoli in esame (situati in Abruzzo e presi in affitto da altra società) dell’attività agricola da parte di positivi di reddito ed assoggettati al regime impositivo di cui agli artt. 55 e ss. TUIR.
Il terzo dei motivi del ricorso in appello, con cui si censura l’omesso esame di un elemento decisivo della controversia, vale a dire l’inquadramento dell’impresa quale intermediaria nel settore agricolo, è parimenti infondato: fondamento della decisione, infatti, è l’esclusione del carattere agricolo delle attività sociali, non soltanto per la mancanza di elementi probatori sul punto, ma anche per la ricorrenza di una pluralità di elementi di fatto e di diritto di segno marcatamente opposto alle argomentazioni dei ricorrenti, che sostengono viceversa la natura agricola delle attività imprenditoriali poste in essere nei periodi di imposta oggetto di verifica.
Il procedimento logico – giuridico seguito dai primi giudici è dunque assorbente rispetto alle questioni sollevate, con conseguente insussistenza dell’obbligo di motivare sul punto.
Va infine rigettato, siccome infondato, l’ultimo motivo dell’appello: se da un lato è vero che i contributi erogati a seguito della presentazione delle domande non sono più legati alla produzione, ma ai titoli assegnati da AGEA ai produttori (criterio di “disaccoppiamento”) è altrettanto vero che lo Stato nazionale di appartenenza dei soggetti beneficiari è autonomo nella scelta del trattamento fiscale da applicare alle erogazioni percepite: poiché la condizione di non assoggettamento e tassazione i contributi PAC è, nel nostro ordinamento la P. S.S., avente sede in Cavareno (TN) composta da soli due soci residenti in provincia di Trento, senza l’ausilio di dipendenti, senza l’utilizzo di macchinari e/o attrezzature idonee alla produzione agricola, in proprietà o a noleggio.
Del pari infondato è il secondo motivo di doglianza, laddove viene censurato l’omessa disamina in ordina al mancato riconoscimento della fase di startup aziendale, “ ...idonea per il definitivo avvio di un’attività agricola di natura specificamente produttiva”; giova ricordare che soltanto dal 2012 – e quindi successivamente alle attività di verifica della Guardia di Finanza – la società (costituita nel 2009) aveva iniziato una serie di investimenti, con l’acquisto di bestiame e l’assunzione di personale ausiliario, ma i dati di fatto emergenti, riferiti agli anni di imposta 2011 e 2012 sono incontrovertibili e non spostano i termini del problema, nel senso che è provato che in quegli arn1i la società non esercitava attività agricola, limitandosi ad effettuare acquisizioni dei titoli AGEA e terreni, concedendoli in fido pascolo ad agricoltori ed allevatori del luogo e traendo il ritorno economico non dallo sfruttamento agricolo dei fondi, ma dal conseguimento dei contributi erogati da AGEA: è del tutto condivisibile, sulla base di detti presupposti, la qualificazione giuridica data dall’Ufficio e condivisa dal primo giudice ed anche da questo collegio, secondo la quale siffatte attività rientrano a pieno titolo nell’esercizio di impresa, ai sensi dell’art. 2195 c.c., con la conseguenza che i proventi della società debbono essere considerati componenti “qualifica dell’attività quale agricola e tale qualifica deve ritenersi esclusa, alla luce degli elementi acquisiti in causa, è del tutto legittima, da parte dell’Ufficio, la ripresa a tassazione dei detti contributi, da considerarsi a tutti gli effetti componenti di reddito assoggettabili ad imposta.
La stessa Risoluzione n. 114/E/2006 dell’Agenzia delle Entrate diversifica la tassazione di tali contributi, affermando che “Per le imprese agricole (principalmente costituite sotto forma di società di persone o di capitali) che producono redditi d’impresa ai sensi dell’art. 55 TUIR, gli aiuti percepiti, in quanto contributi in conto esercizio, concorrono alla formazione del reddito imponibile ai sensi dell’art. 85, comma l, lett. h), del TUIR. “.
In conclusione, la sentenza dì primo grado va confermata in ogni sua parte, specie nella disamina degli elementi di fatto scaturiti (e non seriamente smentiti) dai contribuenti, ben descritti negli atti dell’Ufficio, ampiamente riportati nella sentenza impugnata ed in questa sede richiamati, che portano ad escludere, per struttura ed attività svolte, la qualificazione come “agricola” della società in oggetto.
La Sentenza della CTP di Roma, n. 18635/05/17 del 31 luglio 2017 tra la società P. e l’Agenzia delle Entrate, prodotta dai contribuenti, afferma l’applicabilità del Regolamento CE n. 73/01/2009 del Consiglio di Europa, che detta norme comuni per il sostegno diretto agli agricoltori nell’ambito della politica agricola comune con l’istituto del “disaccoppiamento”, per cui i contributi comunitari vengono erogati indipendentemente dalla produzione, con ciò determinando la separazione del legame tra erogazione del contributo e livello di produzione da parte del soggetto beneficiario, ma non si sofferma circa la qualificazione giuridica di detta società, dando per scontato che si trattasse di azienda agricola a tutti gli effetti, sulla base, principalmente, della qualificazione sia della società che di B.P., quale imprenditore agricolo professionale dal 1999.
Anche alla luce dei nuovi contrasti giurisprudenziali, permangono giustificati motivi che consentono l’integrale compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
conferma la sentenza appellata e compensa le spese.
Trento, 13 novembre 2017.
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